martedì 8 dicembre 2009

Elogio di Marchisio, l'hobbit coraggioso del calcio italiano (di Michele De Feudis)

Articolo di Michele De Feudis
Dal Secolo d'Italia di martedì 8 dicembre 2009
Undici giocatori come una immaginaria Compagnia dell'Anello. E accanto a Frodo c'è sempre un Sam Gamgee. La metafora tolkieniana degli hobbit si sovrappone alla favola di Claudio Marchisio, icona del calcio azzurro “acqua e sapone”. Una sua prodezza ha regalato il derby d'Italia ai bianconeri, rimettendo l'armata di Ciro Ferrara in corsa per il tricolore. Il gol? E' stato una magia. Uno scatto felino sulla sinistra, lesto nel riprende la respinta del portiere dell'Inter Julio Cesar, lo stop di sinistro, l'allungo millimetrico con il destro e ancora il colpo sotto mancino, un distillato di classe per palati fini. E una corsa indimenticabile sotto la curva.
In una formazione nella quale il ruolo di Frodo spetta al capitano Alex Del Piero o al brasiliano Diego (entrambi al di sotto delle aspettative in questa stagione), Marchisio è un hobbit illuminato, un essenziale centrocampista che permette con il suo sacrificio e la sua generosità ai compagni di brillare. Il gioco sporco lo fa sempre lui, anche se ha piedi raffinati e una visione di gioco da direttore d'orchestra. Nell'immaginario giovanile è il protagonista ideale della canzone “cult” di Luciano Ligabue, “Una vita da mediano”, con la differenza che l'azzurrino ha numeri che il vecchio Oriali si poteva solo sognare. Il rocker di Correggio canta, infatti, “sempre lì / lì nel mezzo / finché ce n'hai / stai lì / una vita da mediano / da chi segna sempre poco / che il pallone devi darlo / a chi finalizza il gioco / una vita da mediano / che natura non ti ha dato / né lo spunto della punta né del 10 che peccato”. E Marchisio invece l'illuminazione del fantasista ce l'ha, ma pone - come Sam con Frodo nella disfida per distruggere l'anello - l'obbiettivo finale sopra ogni altra cosa.
Nel calcio business che disegna un futuro con stadi deserti e tifosi ridotti a consumatori davanti ad uno sport distribuito in “pay per view”, Marchisio è un inno alla passione. Uno spettacolo nello spettacolo, da gustare a pieno solo seduto su una gradinata. Un gioiello costruito in quelle fabbriche di talenti che la globalizzazione non potrà mai delocalizzare: i vivai italiani. Nelle giovanili bianconere ha imparato ad essere uomo prima che calciatore, assimilando uno stile che è regola di vita e insieme educazione sentimentale. Per una convocazione in nazionale non ha potuto vivere in maniera totalizzante l'arrivo del primo figlio. Ma la sua giustificazione sorprende e riconcilia con il senso delle cose. « Un giorno questa incredibile settimana la racconterò, a mio figlio. Ma questa era un' occasione da non perdere. Da bambino sognavo di fare il calciatore, neanche il calciatore della Juventus. La mia fortuna è stata Calciopoli. Mi ha permesso di trovare spazio in prima squadra. Spesso, la differenza la fa un treno che passa, un occasione da prendere al volo. Per questo dico che sono stato fortunato: ci sono miei compagni della giovanili che non sono arrivati ai miei stessi livelli malgrado lo meritassero, invece a me è andata bene. Ci sono tante cose da mettere in conto, basta un niente per cambiare una carriera. L' unica cosa, è che quello che conquisti devi poi sapertelo meritare».
L'elogio del merito enunciato con semplicità dal campioncino bianconero lo eleva a nuova icona nazionale, a modello per tanti giovani che per sfondare si affidano a un provino del solito sgangherato “reality”. Marchisio, invece, postula il connubio di fortuna e audacia, immagina la strada in salita per raggiungere le vette. Un itinerario che vale per i calciatori come per gli artisti e per ogni mestiere che lasci spazio all'estro ed alla fantasia.
La sua biografia può ribaltare la visione pessimistica di Pier Paolo Pasolini sui “giovani infelici”, prigionieri della società dei consumi. Marchisio dribbla ogni luogo comune anche in questo campo. Sposato giovanissimo, scansando la deriva evangelica del compagno di squadra Legrottaglie, confessa: “Ho avuto una sola fidanzata, Roberta, e ho deciso di sposarla dopo un mese che stavamo assieme. Lei capisce il mio lavoro, le mie difficoltà, le mie assenze». Mondanità? Non ama i privè... «Posso andarci con mia moglie, no? Mi diverto con lei e non mi manca nulla». Successo e ricchezza non gli hanno dato alla testa: «A 18 anni, quando volevo andare in vacanza da solo, i miei genitori mi hanno spedito a lavorare con mio zio: scaricavamo scatoloni dalle sei del mattino alle sette di sera, così mi sono pagato il viaggio. Mio figlio sarà ancora più privilegiato di me, ma anche a lui insegnerò che ogni desiderio va conquistato”. Ha uno stipendio che basterebbe a pagare le mensilità di una squadra di cinquanta operatori di un call center, eppure ha conservato una visione intrisa di realismo: “Avere soldi mi mette un po' di imbarazzo: ho amici che non trovano lavoro, altri che non possono permettersi una cena al ristorante più caro della media e io mi sento a disagio. Cerco di non far pesare la mia fortuna e di dare una mano, se posso».
Oltre le marachelle di Balotelli e le cassanate del Peter Pan barese Cassano, avanza in Italia un nuova generazione di giovani aitanti, con una visione del mondo improntata sul merito e, perché no?, sul sacrificio. Sono i ragazzi dal cuore puro come Marchisio. Perché se “quello che conquisti devi poi sapertelo meritare”, allora puoi anche – come Claudio – farti tatuare sul braccio un motto ribelle, dannunziano e guevariano insieme: “Impossible is nothing”.
Michele De Feudis è giornalista e scrittore, redattore di Epolis e collaboratore di varie testate tra cui il Secolo d'Italia. Scrive di libri, cinema, politica e calcio per quotidiani nazionali. Ha curato il libro Tolkien, la Terra di Mezzo e i miti del III millennio, edito da L'arco e la corte (Bari).

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