lunedì 30 novembre 2009

Caro Fini, ti scrivo (lettera aperta di Miro Renzaglia al presidente della Camera)

Lettera aperta di Miro Renzaglia a Gianfranco Fini
Caro Gianfranco,
non so se ti ricordi di me: ci conosciamo da tempi lontani. Dai tempi di via Sommacampagna, all’incirca. Non ci piacevamo molto: io ti vedevo come quadro della piccola nomenclatura del FdG destinato a far carriera più che la rivoluzione (e non mi sbagliavo), tu mi consideravi l’irregolare poco incline a seguire “la linea” (e avevi ragione). Ti ho detestato molto. Persino nel mio libro
I rossi e i neri, scritto nel 2000, ti cito come esempio di opportunismo politico, testimoniando senza reticenze che tu, fascista, non lo sei mai stato. Alla luce della mia esperienza personale, ho anche considerato la tua manifestazione di antifascismo dichiarato qualche mese fa, una specie di coming out che, finalmente, azzerava la tua ambiguità.
Eppure, in maniera del tutto inaspettata per me che continuo a considerarmi fascista, magari critico ma comunque fascista, fu dal momento di quel tuo coming out che ho cominciato a prendere sorprendentemente atto che le tue posizioni da antifascista erano molto più condivisibili di quanto fossero quelle che avevi da presunto fascista.
Il testamento biologico, la proposta di diritto di cittadinanza agli immigrati regolari, la denuncia e il rifiuto del provvedimento che avrebbe creato i “medici-spia” e i “presidi-spia” contro i clandestini, il richiamo alla laicità dello stato, il favore da te espresso al riconoscimento delle coppie di fatto, anche gay, cioè, a grandi linee, le battaglie più importanti che recentemente hai intrapreso, mi vedono assolutamente d’accordo.
La penso come Marcello Veneziani quando, intervistato sulle pagine de
Il Giornale, ha sostenuto che hai «buttato a mare il [tuo] legame con la destra, con qualunque destra, tradizionale, nostalgica, moderna, conservatrice o garantista». Solo che, a differenza sua (di Veneziani) io che, da fascista, “di destra” non mi sono mai né dichiarato né, tanto meno, considerato, vedo in ciò una svolta aurorale e augurale, non una sciagura.
Gli è che al fondo di tutto, io vedo nelle tue nuove posizioni il tentativo libertario di allargare nel XXI secolo la base dei diritti civili. Come, a guardare bene, fece il regime ventennale del secolo scorso: diritto alla casa, al lavoro, alla previdenza sociale, alla sanità, all’istruzione, allo sport, all’uscita della donna dalla condizione esclusiva di mamma e moglie, etc… etc…
Detto ciò, sia pure per i sommi capi che meriterebbero ben altro approfondimento, vengo al perché di questa mia lettera aperta. Hai provocato, stai provocando, uno sconquasso politico. I tuoi alleati di partito e di governo ti considerano ormai un corpo estraneo, se non un nemico dichiarato. Ma non basta: anche alla sinistra, cioè in quella composita pattuglia che si trova attualmente all’opposizione, stai creando grossi problemi: cavalchi, con coraggio a loro ormai sconosciuto, cavalli politici che un tempo consideravano di esclusiva pertinenza. Tanto che una estesa base dell’elettorato di sinistra ti considera il rappresentante naturale delle loro aspettative ideali e politiche. Qualcuno ti imputa queste simpatie acquisite: io le considero un titolo di merito…
Sei, insomma, diventato il cuneo che allarga la crepa delle contraddizioni in cui questo sistema si è affossato, pur senza ammettere di considerarsi morto. Ti ritengo il vero fatto nuovo della politica italiana. Un fatto che i tuoi avversari esterni e interni non riescono a ridurre dentro le categorie politiche che considerano eterne e immutabile: di là, la destra conservatrice se non anche reazionaria, di qua la sinistra che di progressista ha ormai solo vaga nomea, con un mezzo, il centro, flottante fra i due poli senza soluzione di continuità e di altro interesse che non sia quella della loro botteguccia di potere.
In questo tran-tran, hai prodotto uno scarto. In questo scarto, io vedo una grande opportunità: quella di rompere definitivamente il giochetto in cui destra, sinistra e centro si completano in un carillon che suona sempre la stessa musica e ripete sempre lo stesso balletto. Entrambi ipnotici.
Lo sai meglio di me: all’interno del Pdl non troverai mai una maggioranza che possa seguirti nelle battaglie libertarie che stai sostenendo, fino al punto di promuoverle a legge. E a sinistra, al di là dei riconoscimenti di merito, sono troppo presi dalla ricerca di un equilibrio interno per potersi permettere di far loro le istanze politiche che stai promovendo.
E, allora? Allora è arrivato il movimento di mettere tutti di fronte alle loro nullità, di rompere il carillon ipnotico, di spaccare il giocattolo delle categorie impassibili di modifica interna: esci dal Pdl, crea un altro soggetto politico.
Ieri, il Corriere della sera, ha accreditato tale possibilità di nuovo (tuo) partito di un consenso che oscilla fra il 6% e il 21%. Una forbice larga, me ne rendo conto, per poter essere gestibile con progettualità infallibile: ma questo è il dato dello sconcerto che hai provocato con le tue uscite … e già questo dato di “sconcerto” è, per me, un dato positivo, un motivo di più per scommettere. Un consenso, comunque, che anche nella peggiore delle previsioni sarebbe capace di condizionare qualsiasi nuovo schieramento governativo. Tanto da indurlo a fare i conti con una forza politica che, finalmente, collocandosi al di là delle sclerotiche dicotomie destra/sinistra, fascismo/antifascismo, comunismo/anticomunismo riporti la discussione politica sui temi che devono essere centrali: diritti civili contro diritti di casta, molteplicità di tipo familiare contro esclusività eterosessuale, solidarietà contro difesa del privilegio, laicità contro confessionalismo, riconoscimento dell’altro contro xenofobia e razzismo.
Dài, Gianfranco: provaci…
FONTE: IL FONDO
Miro Renzaglia è nato a Roma nel 1957. Ha pubblicato Controversi (E.C.D.P. Milano, 1988), I rossi e i neri (Settimo Sigillo, Roma, 2002). Nel 1990 ha fondato la rivista Kr 991 che ha diretto fino al 1999. Suoi testi poetici sono presenti in antologie, riviste e DVD. In qualità di saggista, critico letterario e di costume, collabora (o ha collaborato) a quotidiani, periodici e siti web, fra cui: Secolo d'Italia, Linea, Rinascita, Letteratura Tradizione, Orion, Occidentale, Noreporter. Ha partecipato a molte iniziative di Casapound. Collabora al Progetto Polaris, per il quale ha partecipato alla realizzazione di due DVD: Metastasi e Capitalismo e Multinazionali (Produzione Trifase, Roma, 2004). È autore e performer del concerto di musica-poesia Radiografia di uno sfacelo (CD registrato in proprio, Roma, 2003), rappresentato in diverse città italiane. Blogger molto seguito, ha recentemente fondato il settimanale online Il fondo.

Che giornate, in via Veneto, con Piovene l'aristocratico (di Antonio Saccà)

Articolo di Antonio Saccà
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 29 novembre 2009
Il narratore più drammatico conosciuto nella mia giovinezza e che frequentai, sporadicamente ma intensamente, fu Guido Piovene. Lo ritengo il più drammatico, perché segreto, muto più che silenzioso, di scarsissima comunicatività. Certamente con meandri psicologici, tortuosi e tormentati. Piovene era un aristocratico vicentino e dell'aristocratico aveva, per così dire, la pelle. Una pelle leggera, rosabianca, un viso tondeggiante, capelli da giovane forse biondo rossicci, poi, diminuiti, mantenevano l'ingiallimento naturale o forse provocato. Erano questi dell'esilità, della finezza, della leggerezza che spesso connota un aristocratico. Occhi larghi pressoché senza palpebre, di un azzurro così gelato che una civetta non li avrebbe avuti di più freddi e fissi. Di media altezza, solido, se non robusto, parlava un linguaggio parco di aggettivi e dipanato dal suo interno. Non erano le letture, le conoscenze, la cultura ad animarlo, ma qualcosa di suo che egli sentiva, viveva. Era misurato in ogni suo atto, non dava l'apparenza di uno che vocifera, che ama il palcoscenico, che esce da se stesso, anzi, l'opposto: più recluso di Piovene non conobbi altri, allora. A Milano lo scrittore abitava in una delle zone più eleganti della città, Palazzo Belgioioso, ed era prossimo di casa di un altro "muto" del nostro panorama letterario, Carlo Bo. Carlo Bo era di un silenzio stentorio, per dirla paradossalmente. Alto, con il bastone, la voce piena, borbottante, lo si doveva interpretare, più che dialogare con lui. Era un uomo che racchiuse in certi periodi quel che si dice un potere notevole nel decidere i destini di un libro e di un autore. Credo che con Piovene avesse avuto una questione di donne, se non ricordo male, la bellissima Marise Ferro, che fu sposa Carlo Bo, lo era stata di Guido Piovene, ma non giurerei, sul ricordo.
Piovene è il maggiore narratore del nostro Novecento centrale. Disgraziatamente i suoi romanzi non hanno niente della leggibilità senza peso scorrente di un Calvino o della leggibilità a intreccio di uno Sciascia. I romanzi di Piovene sono veri romanzi. Fu, credo, l'unico, dopo Svevo e con Moravia, a possedere la cognizione strutturale del romanzo e a non confondere il romanzo con la novella, il racconto e cose del genere, il che invece accadeva e accade frequentemente. Era di quei veneti in cui la psicologia sfocia nella psicoanalisi anche involontariamente, e la colpa, il desiderio, il piacere, il pentimento, la malvagità, risultano avvinti dando sfogo a delle narrazioni complicate, più che complesse, con personaggi tra il diabolico e l'ingenuo: De Sade, I legami pericolosi di Lanclos, Diderot de La Monaca, Manzoni de La monaca di Monza, Freud, già con Lettere di una novizia gli furono consustanziali.
Otteneva stima e rispetto tra persone che non si scoraggiavano alle difficoltà, ad esempio, Benedetto Croce, ma il suo pubblico fu scarso, né del resto egli si concedeva al pubblico, non immaginava di scrivere a misura del pubblico. In tal senso è un raro caso, poi duplicato dallo sventurato Guido Morselli e in maniera completamente diversa da Tomasi di Lampedusa, di scrittore a sè stante, aristocratico non soltanto per nascita, ma per lo stare a sé, il non concedersi al lettore. Per costoro scrivere vale come espressione della loro personalità che vive quel che sente di vivere e non va mai oltre se stessa nello scrivere, non cerca di accontentare l'esterno a sè. Ovviamente in epoche che bene o male furono tutte "impegnate", da quella fascista a quella post fascista, Piovene non ebbe vita facile come narratore. Eppure, se pesassimo il valore strettamente letterario, senza essere interessati a ciò che è extraletterario, Piovene è con Svevo e qualcosa di Moravia, il solo narratore, anzi il solo romanziere del Novecento italiano.
Maturava romanzi tremendi (Le stelle fredde), nei quali la tortuosità dell'animo umano, che gli veniva certamente dall'influenza cattolica del peccato, la colpa, il piacere, lo scrupolo, avevano sviluppi, dal punto di vista espressivo, rari nella nostra letteratura, che non ama i personaggi complicati: del resto non li ha o sono rari. Oltretutto in un linguaggio duro, asentimentale, rasposo.
Non ebbe vita facile Piovene e suppongo fosse un suo rovello costante, quel suo tratto apparentemente sereno, più distaccato che sereno, quel suo parlare poco, quel suo sguardo gelato e raggelante, di imperturbabile osservatore,celavano la cognizione di un'epoca inadatta alla complessità e dove bastava gridare un'ideologia per montare sul palcoscenico, mentre il valore letterario in sé non veniva avvertito, perfino sabotato. Fu questo l'altro aspetto dell'egemonia comunista, ma non solo: tutti chiedevano allo scrittore di schierarsi. Ora non è che Piovene non avesse delle convinzioni, era un uomo di libertà, era tutt'altro che comunista, ma non ne faceva una bandiera. Il romanzo non doveva valere per l'ideologia. E che questa fedeltà alla scrittura in quanto tale la scontasse è vero per il passato e per il presente, giacché Piovene è un autore pressoché dimenticato.
Piovene non conosceva i brani che avevo dedicato alla sua opera in un mio saggio e quando ci conoscemmo in un convegno ad Assisi, gli dissi che avevo scritto su di lui e gli mandai le pagine. Quando veniva a Roma, ci incontravamo, era sempre in compagnia della moglie Mimì Pavia, una signora elegante del bel mondo milanese, che gli fece da autista, diciamo, nel magnifico, grandioso viaggio in Italia che lo scrittore compì, scrivendone, dove anticipava i cambiamenti della società italiana, da contadina ad industriale, da povera a consumistica, e gli effetti che tutto ciò avrebbe avuto nel costume. A Roma, io frequentavo anche la scrittrice Flora Volpini, che era stata legata, legatissima a Piovene negli anni dell'occupazione, e lo nutriva, lo accudiva, oltre ad esserne la donna in tutti i sensi. Piovene, di botto, un giorno, fece la valigia e la lasciò e quindi sposò Mimì. Di questa fuga, la Volpini non ne guarì e sebbene ridanciana, divertente, anedottica come nessuno e bisogna anche dirlo, frequentatrice di molti uomini, ebbene la Volpini non ne guarì, e questo accrebbe la leggenda di un Piovene freddo, serpentino, tutto cassetti segreti. Non so, io conversavo benissimo con Piovene ed oltretutto molto a lungo. Aveva un'ingenua conoscenza filosofica, ma non rivelava il meglio nella conversazione, era nello scrivere che dipanava le sue traiettorie divergenti e onnilaterali, nella conversazione dava un minimo.Doveva stare solo con la sua mente per rendere.
L'ultima volta che lo vidi, fu come se non lo avessi visto. Abitavo in Via Sicilia, accanto a Via Veneto, a Roma. Quando ci incontravamo con Piovene sostavamo da Doney, il famoso bar. Una sera,passando, notai, sull'ingresso, un uomo curvo che quasi cedeva su se stesso, sostenuto da una donna ancora energica, era Piovene retto da Mimì. Lei mi colse e mi indicò a Piovene come a dire "Guarda c'è Antonio Saccà", lui fece un gesto di diniego, non mi voleva incontrare. Io vidi di traverso la situazione, e proseguii fingendo di non averlo notato. Meglio non vederlo, fingere. Perché quel Piovene non era più quello del passato. Era un uomo che la sclerosi a placche stava divorando. Credo si vergognasse di se stesso, della sua malattia. E poiché lo rammentavo saldo, con quegli occhi grandi da civetta signorile come se fossero rivolti all'altro preferivo mantenerlo così nella memoria. Un aristocratico dell'arte in epoca subdemocratica.Epoca subdemocratica, nella quale la perdita di qualità spadroneggia, da far rimpiangere quando un romanzo veniva prediletto per l'ideologia. Dico per dire, perché il (pre)giudizio ideologico appartiene al passato, oggi invece domina la perdita di giudizio autonomo, in quanto il lettore è orientato secondo reclamizzazione. Giudizio ideologico e giudizio orientato dalla reclamizzazione furono e sono le due maledizioni dell'arte e dell'artista. Piovene le patì entrambe. In questo senso fu un artista aristocratico, scrisse ciò che sentiva e per se stesso, non per un'ideologia o per vendere. E né i critici né il pubblico glielo perdonarono.

Antonio Saccà, nato in Sicilia, vive a Roma. È stato docente di Sociologia all'Università "La Sapienza". Ha pubblicato oltre trenta libri: saggistica, con le biografie di Marx, Nietzsche, Freud, narrativa, poesie, teatro. In "Vite private di uomini pubblici" ha raccontato la vita e gli amori di Giulio Cesare, Dante Alighieri, Wolfgang Goethe, Ludwig van Beethoven, George Byron, Richard Wagner, Fedor Dostoevskij, Karl Marx, Freidrich Nietzsche.

domenica 29 novembre 2009

C'è qualcuno, là fuori? Il 30ennale di The Wall (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 29 novembre 2009
Una rockstar è solo una combinazione vincente di talento e di fortuna: un po’ di merito personale ingigantito dalle circostanze. Un rocker autentico è uno che suona quello che vuole, senza preoccuparsi di come verrà accolto: il rocker si chiede se la sua musica sia all’altezza delle proprie speranze, più che delle aspettative del pubblico. Si chiede se i fan lo capiscano davvero. Perché ne sa abbastanza, sulla solitudine e sul tradimento, da non farsi troppe illusioni sul significato profondo degli applausi. È proprio quando sembra che vada tutto bene, che bisogna stare più attenti a non lasciarsi incantare. È quando gli altri urlano la propria verità, che la tua è maggiormente in pericolo. Sono loro che cantano con te, o sei tu che canti per loro?
«In un complesso rock – ha detto Roger Waters – ti trovi in una posizione molto invidiata e privilegiata . Apparentemente è la materia con cui sono fatti i sogni. Hai molto potere, guadagni molti soldi e c’è tutto il fascino falso. Diventi facilmente assuefatto a queste cose e quando lo fai preferisci dimenticare tutti gli elementi negativi. Diventi piacevolmente insensibile.»
Nel 1977 i Pink Floyd erano in tour, dopo l’uscita di Animals. La band si era imposta definitivamente quattro anni prima, con Dark Side of the Moon. Poi c’era stato un altro grande successo con Wish You Were Here. Animals stava andando bene, ma rispetto agli altri due l’impatto era minore. Del primo gli mancavano le sorprese incessanti. Del secondo il brano irresistibile alla Shine On You Crazy Diamond. L’album aveva i suoi meriti, ma nulla che lo rendesse memorabile. E nulla, soprattutto, che desse l’impressione di trovarsi di fronte a un capolavoro. La musica si snoda in modo un po’ troppo uniforme. L’esplicito richiamo a La fattoria degli animali finisce con l’essere più ingombrante che attraente, e benché i testi si tengano lontani dal racconto di Orwell, sia come situazioni che come tono, la celebrità del romanzo fa sì che il significato complessivo sia già noto a priori. I potenti sono i “pigs”, i maiali; i funzionari del potere, quand’anche pieni di buone intenzioni, sono i “dogs”, i cani; i cittadini qualsiasi sono le “sheeps”, le pecore. I Pink Floyd attualizzano tutto, e il linguaggio è molto più tagliente e aggressivo dell’originale, ma è pur sempre un modo diverso di esprimere concetti e allegorie preesistenti. Molta empatia. Nessuna rivelazione.
Quello che rende più interessante Animals non è il suo esito artistico. È la conferma del ruolo preponderante che sta assumendo Roger Waters, il bassista. Degli altri tre, l’unico che riesce ancora a ritagliarsi uno spazio significativo nell’elaborazione dei brani è David Gilmour, la cui chitarra solista è una componente essenziale del sound del gruppo, mentre il tastierista Richard Wright e il batterista Nick Mason sono ridotti a figure di contorno. Con Wright il problema è personale: Waters non lo sopporta più e infatti, di lì a un paio d’anni, riuscirà addirittura a estrometterlo; con Mason non c’è nessun dissidio particolare, ma il suo contributo si esaurisce nell’accompagnamento ritmico e, al di là di questo, non ha da fornire grandi idee né sul piano musicale né, tanto meno, su quello dei testi.
La verità che si profila, nel 1977, è che i Pink Floyd sono sempre meno una band nel senso vero e proprio del termine e sempre di più, invece, il marchio di fabbrica che viene messo al servizio di un progetto individuale, che è appunto quello di Roger Waters. La trasformazione è probabilmente inevitabile, vista l’obiettiva supremazia del bassista per quanto riguarda la stesura di nuovi brani, ma verrà pagata a caro prezzo, compromettendo per sempre il delicatissimo equilibrio su cui poggiava la loro produzione migliore. Le differenze reciproche potevano anche essere causa di fastidio e di malumori, ma assicuravano una varietà di approcci (di ipotesi) che si traduceva in una ricchezza di soluzioni. L’instabilità come antidoto alla ripetizione, quand’anche involontaria, e alla monotonia, quand’anche raffinata. Dove il singolo, per quanto brillante, non poteva essere altro che se stesso, l’interazione di tutti e quattro moltiplicava le chance di disegnare traiettorie imprevedibili, per andare dal punto di partenza di un accenno di canzone a quello di arrivo di un brano che fosse allo stesso tempo compiuto in se stesso e intimamente legato a qualcosa di molto più ampio. Squarci di panorama che rivelano un mondo. Se li osservi uno alla volta ti attraggono; se li consideri nel loro insieme ti conquistano. Se ti limiti ad accumulare immagini e sensazioni sei solo un turista. Se senti il bisogno di fermarti, e di saperne di più, e di provare a capire, sei un viaggiatore. Un esploratore al servizio di te stesso.
Ha detto Roger Waters: «Partii con l’idea della costruzione di un muro durante uno spettacolo. L’idea mi colpì subito. Del tutto distante dal suo significato personale, pensai che poteva essere un gran pezzo di rock teatrale. The Wall è parte del mio resoconto, la mia storia, ma io penso che i temi di base risuonino nelle altre persone. L’idea è che noi, come individui, troviamo necessario evitare o negare gli aspetti dolorosi della nostra esperienza, e infatti spesso li usi come mattoni di un muro dietro il quale qualche volta possiamo trovare rifugio, ma dietro il quale possiamo essere facilmente imprigionati emotivamente.»
È così. I più non lo vedono neanche, il muro che li circonda. Oppure credono che li protegga. Per quello che si ricordano è sempre stato lì, anche se ogni tanto, in effetti, qualche cambiamento c’è stato. Certe volte hanno ritoccato il colore. Certe altre la forma. Niente di grave. Niente di male. Al contrario: che vi siano delle modifiche è positivo. È segno che la società si aggiorna, si evolve, migliora. E non è mica che abbiano deciso tutto dall’alto, senza interpellare nessuno. Se ne è discusso, regolarmente. Tutti quanti hanno avuto la possibilità di partecipare alla scelta finale. Non proprio con un dibattito indiscriminato in cui ciascuno era libero di dire la sua. Questo sarebbe impossibile, quando si è così numerosi. Ma ognuno ha potuto indicare le persone di cui si fidava e alle quali voleva delegare il compito di rappresentarlo, nel processo di valutazione delle diverse ipotesi. E alla fine l’esito non deve essere stato così lontano dalla volontà generale, se la quasi totalità lo ha accettato di buon grado.
Il muro è molto grande. Diciamo pure che è immenso. Una miriade di mattoni che si sono aggiunti ad uno ad uno e che, ora, lo rendono così solido. Da lontano sembrano tutti uguali, i mattoni. Se ti avvicini, e osservi meglio, ti rendi conto che non lo sono affatto. Ci sono quelli più grandi e quelli più piccoli. Quelli grossi e squadrati che reggono l’intera struttura, come le regole fondamentali su cui si basa la società. Quelli di formato intermedio, come le consuetudini della maggioranza. Quelli minuti che ce ne vogliono a decine per riempire un piccolo spazio e che vengono sostituiti più spesso, proprio come accade con le preferenze individuali.
The Wall venne pubblicato il 30 novembre 1979. Un doppio album che avrebbe potuto essere ancora più lungo, se i limiti di durata dei 33 giri lo avessero consentito. Una vera e propria rock-opera che va assolutamente ascoltata dall’inizio alla fine – restituendo il superhit di Another Brick in the Wall (part II) alla sua funzione effettiva di singola scena “d’azione” all’interno di un dramma meravigliosamente cupo e introspettivo – e che tre anni dopo sarebbe stata trasformata in film da Alan Parker, con Bob Geldof nei panni del protagonista e una continua alternanza di attori in carne e ossa e di disegni animati. L’immaginazione fluttuante dei sogni, in cui tutto può cambiare nel giro di un istante. L’uccello bianco che si libra dolcemente in volo si trasforma in un rapace che volteggia in cerca di prede. Il rapace si trasforma in un aereo di guerra. Il sogno diventa incubo. La nevrosi come segnale d’allarme di un meccanismo che si sta inceppando. La follia come crisi di rigetto di un trapianto – di una serie di trapianti – che mai e poi mai si sarebbero dovuti effettuare. Organi artificiali al posto di quelli originari. Un cuore più piccolo. Un cervello più disciplinato. Un cuore che deve pompare sangue senza sbalzi, come un carburatore ben registrato. Un cervello che deve assorbire istruzioni, come un computer. La Natura sforna uomini altamente imperfetti, purtroppo. L’educazione supplisce a quelle carenze. Un bambino è un semilavorato in attesa di messa a punto. Un adulto è un dispositivo che è stato finalmente adattato alle esigenze della macchina sociale. E non crediate che sia un lavoro così semplice, anche dopo che lo hai fatto milioni di volte. Ci vuole pazienza. Ci vuole attenzione. Ci vuole la freddezza del tecnico che sa usare tutti i suoi strumenti e riconosce al colpo d’occhio un pezzo difettoso. È abbastanza normale, che ve ne siano. Se avanza un po’ di tempo si prova ad aggiustarli. Se no li si elimina. Mica per cattiveria. Per amore dell’efficienza, che tutti tutela e qualcuno sacrifica.
Il protagonista di The Wall è una rockstar che si chiama Pink. Un giovane inglese che è cresciuto nel Secondo dopoguerra. Madre iperprotettiva, e ottusa. Insegnanti rigidi, e ottusi. Due varianti della stessa sopraffazione. E dello stesso ricatto: il nostro apprezzamento dipende da te. Tu non sai nulla. Noi sappiamo tutto. Tu non sei in grado di valutare che cosa ti fa bene e cosa no. Noi sì che lo siamo. Pensa a quanti anni abbiamo, più di te. C’è un ordine da rispettare, piccolo. Non lo sai che la scuola prepara alla vita? Pink ha avuto successo. Il successo lo ha distratto, per un po’. Per un po’ lo ha tenuto impegnato e gli ha fatto fare un certo numero di cose normali. Si è sposato. Ha fatto dischi e concerti. Ha guadagnato denaro. Ha comprato oggetti. Ha soddisfatto desideri. O capricci. Quanto basta per rallegrarsi, se ti hanno condizionato a dovere. Se ti hanno convinto a rispecchiarti in quello che hai e a non prestare attenzione a quello che sei. L’avere è oggettivo, essendo misurabile. L’essere è sfuggente. Talmente sfuggente che è meglio non fidarsi. L’essere si oggettiva nell’azione. Nella capacità di fissare degli obiettivi e di conseguirli. Gli obiettivi raggiunti producono effetti reali. Gli effetti reali hanno quasi sempre un riscontro economico, diretto o indiretto. È questa la quadratura del cerchio: quello che hai dà la misura di quello che sei. Lo attesta. Lo certifica.
Ma Pink deve avere saltato alcune lezioni, lungo la strada. Forse non si è impegnato a sufficienza. O forse non era in grado di farcela. Forse, sotto la sua riuscita come artista, è ancora il ragazzino inquieto e immaturo che era all’inizio. Al diavolo. I pezzi più insidiosi sono quelli con un difetto ben nascosto. “Vizi occulti della cosa”, come dicono i giuristi. Pink guarda quello che gli sta intorno e non sa cosa farsene. Il lusso è solo una cornice: e lui non vede nessun quadro che meriti di essere incorniciato. Le persone che gli si avvicinano sono comparse di un copione che non gli interessa. Magari è stato davvero lui, a scrivere il soggetto iniziale. Ma poi deve averci messo le mani qualcun altro, visto che non ci si riconosce più per niente. Perché mai dovrebbe ostinarsi a correggerlo, allora? Perché mai, adesso che ha capito che in ogni caso sarà solo la premessa di un’ennesima messinscena?Il muro verrà distrutto, alla fine. Ma non ci sarà nessuna festa. Nessuna liberazione da celebrare e nessuna certezza su cui basarsi. Il muro è la risposta sbagliata al bisogno di sicurezza. Ma il bisogno di sicurezza rimane. La debolezza umana, rimane.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.

sabato 28 novembre 2009

Giuseppe Berto, écrivain proscrit et oublié (Roberto Alfatti Appetiti, trad. francese di Robert Steuckers)

Roberto ALFATTI APPETITI: Giuseppe Berto, écrivain proscrit et oublié
Da Euro-Synergies (Forum des résistants européens)
(article paru dans le magazine “Area”, Rome, Anno V, n°49, juillet-août 2000; trad. franç.: Robert Steuckers, 27 novembre 2009).

Malgré une biographie, remarquable de précision, publiée en 2000 et due à la plume de Dario Biagi, l’établissement culturel italien ne pardonne toujours pas à Giuseppe Berto, l’auteur d’ Il cielo è rosso, d’avoir attaqué avec férocité le pouvoir énorme que le centre-gauche résistentialiste s’est arrogé en Italie. C’est donc la conspiration du silence contre cette “vie scandaleuse”.
Quand, en l’an 2000, l’éditeur Bollati Boringhieri a publié la belle biographie de Dario Biagi, La vita scandalosa di Giuseppe Berto, nous nous sommes profondément réjouis et avons espéré que le débat se réamorcerait autour de la figure et de l’oeuvre du grand écrivain de Trévise et que d’autres maisons d’édition trouveraient le courage de proposer à nouveau au public les oeuvres désormais introuvables de Berto, mais, hélas, après quelques recensions fugaces et embarrassées, dues à des journalistes, le silence est retombé sur notre auteur.
Du reste, ce n’est pas étonnant, car à la barre d’une bonne partie des maisons d’édition italiennes, nous retrouvons les disciples et les héritiers de cet établissement culturel de gauche que Berto avait combattu avec courage, quasiment seul, payant le prix très élevé de l’exclusion, de l’exclusion hors des salons reconnus de la littérature, et d’un ostracisme systématique qui se poursuit jusqu’à nos jours, plus de vingt ans après la mort de l’écrivain. La valeur littéraire et historique du travail biographique de Biagi réside toute entière dans le fait d’avoir braqué à nouveau les feux de la rampe sur la vie tumultueuse d’un personnage véritablement anti-conformiste, d’un audacieux trouble-fête. Biagi nous a raconté son histoire d’homme et d’écrivain non aligné, ses triomphes et ses chutes. Il nous en a croqué un portrait fidèle et affectueux: “Berto avait tout pour faire un vainqueur: le talent, la fascination, la sympathie; mais il a voulu, et a voulu de toutes ses forces, s’inscrire au parti des perdants”.
Giuseppe Berto, natif de Mogliano près de Trévise, surnommé “Bepi” par ses amis, avait fait la guerre d’Abyssinie comme sous-lieutenant volontaire dans l’infanterie et, au cours des quatre années qu’a duré la campagne, il a surmonté d’abord une attaque de la malaria, où il a frôlé la mort, et ensuite a pris une balle dans le talon droit. L’intempérance et l’exubérance de son caractère firent qu’il ne se contenta pas de ses deux médailles d’argent et du poste de secrétaire du “Fascio”, obtenu à l’âge de 27 ans seulement… Il cherchait encore à faire la guerre et, au bout de quelques années, passant sous silence un ulcère qui le tenaillait, réussit à se faire enrôler une nouvelle fois pour l’Afrique où, pendant l’été 1942, l’attendait le IV° Bataillon des Chemises Noires. Avec l’aile radicale des idéalistes rangés derrière la figure de Berto Ricci, il espérait le déclenchement régénérateur d’une seconde révolution fasciste. Il disait: “Avoir participé avec honneur à cette guerre constituera, à mes yeux, un bon droit à faire la révolution”.
Mais la guerre finit mal pour Berto et, en mai 1943, il est pris prisonnier en Afrique par les troupes américaines et est envoyé dans un camp au Texas, le “Fascist Criminal Camp George E. Meade” à Hereford, où, à peine arrivé, il apprend la chute de Mussolini. Dans sa situation de prisonnier de guerre, il trouve, dit-il, “les conditions extrêmement favorables” pour écrire et pour penser. Il apprend comment trois cents appareils alliés ont bombardé et détruit Trévise le 7 avril 1944, laissant dans les ruines 1100 morts et 30.000 sans abri. Aussitôt, il veut écrire l’histoire de ces “gens perdus”, en l’imaginant avec un réalisme incroyable. Il l’écrit d’un jet et, en huit mois, son livre est achevé. Juste à temps car les Américains changent d’attitude envers leurs prisonniers “non coopératifs”, les obligeant, par exemple, à déjeuner et à rester cinq ou six heures sous le soleil ardent de l’après-midi texan, pour briser leur résistance. Et Berto demeurera un “non coopératif”. Après de longs mois de tourments, il est autorisé à regagner sa mère-patrie.
L’éditeur Longanesi accepte de publier le livre de cet écrivain encore totalement inconnu et, après en avoir modifié le titre, “Perduta gente” (“Gens perdus”), considéré comme trop lugubre, le sort de presse, intitulé “Il sole è rosso”, vers la Noël 1946. Berto a confiance en son talent mais sait aussi quelles sont les difficultés pratiques que recèle une carrière d’écrivain; il commence par rédiger des scénarios de film, ce qu’il considère comme un “vil métier”, afin de lui permettre, à terme, de pratiquer le “noble métier” de la littérature. “Il sole è rosso” connaît un succès retentissant, les ventes battent tous les records en Italie et à l’étranger, en Espagne, en Suisse, en Scandinavie, aux Etats-Unis (20.000 copies en quelques mois) et en Angleterre (5000 copies en un seul jour!). On définit le livre comme “le plus beau roman issu de la seconde guerre mondiale”. En 1948, c’est la consécration car Berto reçoit le prestigieux “Prix Littéraire de Florence”. En 1951, toutefois sa gloire décline en Italie. Son roman “Brigante” demeure ignoré de la critique, alors qu’aux Etats-Unis, il connaît un succès considérable (avec “Il sole è rosso” et “Brigante”, Berto vendra Outre Atlantique deux millions de livres) et le “Time” juge le roman “un chef-d’oeuvre”. Les salons littéraires italiens, eux, ont décidé de mettre à la porte ce “parvenu”, en lui collant l’étiquette de “fasciste nostalgique” et en rappellant qu’il avait refusé de collaborer avec les alliés, même quand la guerre était perdue pour Mussolini et sa “République Sociale”. Biagi nous rappelle cette époque d’ostracisme: “Berto, homme orgueilleux et loyal, refuse de renier ses idéaux et contribue à alimenter les ragots”. Berto ne perd pas une occasion pour manifester son dédain pour ceux qui, subitement, ont cru bon de se convertir à l’antifascisme et qu’il qualifie de “padreterni letterari”, de “résignés de la littérature”. Il s’amuse à lancer des provocations goliardes: “Comment peut-on faire pour que le nombre des communistes diminue sans recourir à la prison ou à la décapitation?”. Il prend des positions courageuses, à contre-courant, à une époque où “le brevet d’antifasciste était obligatoire pour être admis dans la bonne société littéraire” (Biagi).
En 1955, avec la publication de “Guerra in camicia nera” (“La guerre en chemise noire”), une recomposition de ses journaux de guerre, il amorce lui-même sa chute et provoque “sa mise à l’index par l’établissement littéraire”. Berto déclare alors la guerre au “Palazzo” et se mue en un véritable censeur qui ne cessait plus de fustiger les mauvaises habitudes littéraires. La critique le rejette, comme s’il n’était plus qu’une pièce hors d’usage, ignorant délibérément cet homme que l’on définira plus tard comme celui “qui a tenté, le plus honnêtement qui soit, d’expliquer ce qu’avait été la jeunesse fasciste”. Et la critique se mit ensuite à dénigrer ses autres livres. Etrange destin pour un écrivain qui, rejeté par la critique officielle, jouissait toutefois de l’estime de Hemingway; celui-ci avait accordé un entretien l’année précédente à Venise à un certain Montale, qui fut bel et bien interloqué quand l’crivain américain lui déclara qu’il appréciait grandement l’oeuvre de Berto et qu’il souhaitait rencontrer cet écrivain de Trévise. Ses activités de scénariste marquent aussi le pas, alors que, dans les années antérieures, il était l’un des plus demandés de l’industrie cinématographique. Le succès s’en était allé et Berto retrouvait la précarité économique. Et cette misère finit par susciter en lui ce “mal obscur” qu’est la dépression. L’expérience de la dépression, il la traduira dans un livre célèbre qui lui redonne aussitôt une popularité bien méritée.
Mais il garde l’établissement culturel dans son collimateur et ne lâche jamais une occasion pour attaquer “l’illustre et omnipotent Moravia”, grand prêtre de cette intelligentsia, notamment en 1962 lorsqu’est attribué le second Prix Formetor. Ce prix, qui consistait en une somme de six millions de lire, et permettait au lauréat d’être édité dans treize pays, avait été conféré cette fois-là à une jeune femme de vingt-cinq ans, Dacia Maraini, que Moravia lui-même avait appuyée dans le jury; Moravia avait écrit la préface du livre et était amoureux fou de la jeune divorcée et vivait avec elle. Au cours de la conférence de presse, qui suivit l’attribution du Prix, Berto décide de mettre le feu aux poudres, prend la parole et démolit littéralement le livre primé, tout en dénonçant “le danger de corruption que court la société littéraire, si ceux qui jugent de la valeur des oeuvres relèvent désormais d’une camarilla”; sous les ovations du public, il crie à tue-tête “qu’il est temps d’en finir avec ces monopoles culturels protégés par les journaux de gauche”. Toute l’assemblée se range derrière Berto et applaudit, crie, entame des bagarres, forçant la jeune Dacia Maraini à fuir et Moravia à la suivre. Berto n’avait que mépris pour celui qu’il considérait comme “un chef mafieux dans l’orbite culturelle” (comme le rappelle Biagi), comme un “corrupteur”, comme un “écrivain passé de l’érotisme à la mode au marxisme à la mode”. En privé, une gand nombre de critiques reconnaissaient la validité des jugements lapidaires posés par Berto, mais peu d’entre eux osèrent s’engager dans un combat contre la corruption de la littérature et Moravia, grâce à ces démissions, récupéra bien rapidement son prestige.
Entretemps, Berto avait surmonté sa crise existentielle et était retourné de toutes ses forces à l’activité littéraire, sans pour autant abandonner ses activités journalistiques où il jouait le rôle de père fouettard ou de martin-bâton, en rédigeant des articles littéraires et des pamphlets incisifs, décochés contre ses détracteurs. “Male oscuro” a connu un succès inimaginable: en quelques mois, on en vend 100.000 copies dans la péninsule et son auteur reçoit le Prix Strega. Berto a reconquis son public, ses lecteurs le plébiscitent mais, comme il fallait s’y attendre, “la critique radicale de gauche le tourne en dérision, minimise la valeur littéraire de ses livres et dénature ses propos”. Ainsi, Walter Pedullà met en doute “l’authenticité du conflit qui avait opposé Berto à son père” et la sincérité même de “Male oscuro” alors que la prestigieuses revue américaine “New York Review of Books” avait défini ce livre comme l’unique ouvrage d’avant-garde dans l’Italie de l’époque. “Mal oscuro”, de plus, gagne deux prix en l’espace d’une semaine, le Prix Viareggio et le Prix Campiello.
Berto a retouvé le succès mais, malgré cela, il ne renonce pas au ton agressif qui avait été le sien dans ses années noires, notamment dans les colonnes du “Carlino” et de la “Nazione” et, plus tard, du “Settimanale” de la maison Rusconi, tribune du haut de laquelle il s’attaque “aux hommes, aux institutions et aux mythes”. En 1971, Berto publie un pamphlet “Modesta proposta per prevenire” qui, malgré les recensions négatives de la critique, se vend à 40.000 copies en quelques mois. Si on relisait ce pamphlet aujourd’hui, du moins si un éditeur trouvait le courage de le republier, on pourrait constater la lucidité de Berto lorsqu’il donnait une lecture anticonformiste et réaliste de la société italienne de ces années-là. On découvrirait effectivement sa clairvoyance quand il repérait les mutations de la société italienne et énonçait les prospectives qu’elles rendaient possibles. Déjà à l’époque, il dénonçait notre démocratie comme une démocratie bloquée et disait qu’au fascisme, que tous dénonçaient, avait succédé un autre régime basé sur la malhonnêteté. Il stigmatisait aussi la “dégénérescence partitocratique et consociative de la vie politique italienne” et, toujours avec le sens du long terme, annonçait l’avènement du fédéralisme, du présidentialisme et du système électoral majoritaire. Il jugeait, et c’était alors un sacrilège, la résistance comme “un phénomène minoritaire, confus et limité dans le temps, … rendu possible seulement par la présence sur le sol italien des troupes alliées”. Pour Berto, c’était le fascisme, et non la résistance, “qui constituait l’unique phénomène de base national-populaire observable en Italie depuis le temps de César Auguste”.
Lors d’une intervention tenue pendant le “Congrès pour la Défense de la Culture” à Turin, sous les auspices du MSI, Berto se déclare “a-fasciste” tout en affirmant qu’il ne tolérait pas pour cela l’antifascisme car, “en tant que pratique des intellectuels italiens, il est terriblement proche du fascisme… l’antifascisme étant tout aussi violent, sinon plus violent, coercitif, rhétorique et stupide que le fascisme lui-même”. Berto désignait en même temps les coupables: “les groupes qui constituent le pouvoir intellectuel... tous liés les uns aux autres par des principes qu’on ne peut mettre en doute car, tous autant qu’ils sont, se déclarent démocratiques, antifascistes et issus de la résistance. En réalité, ce qui les unit, c’est une communauté d’intérêt, de type mafieux, et la RAI est entre leurs mains, de même que tous les périodiques et les plus grands quotidiens… Si un intellectuel ne rentre pas dans un de ces groupes ou en dénonce les manoeuvres, concoctées par leurs chefs, il est banni, proscrit. De ses livres, on parlera le moins possible et toujours en termes méprisants… On lui collera évidemment l’étiquette de ‘fasciste’, à titre d’insulte”. Dans son intervention, Berto conclut en affirmant “qu’en Italie, il n’y a pas de liberté pour l’intellectuel”.
On se doute bien que la participation à un tel congrès et que de telles déclarations procurèrent à notre écrivain de solides inimitiés. Aujourd’hui, plus de vingt ans après sa mort, il continue à payer la note: son oeuvre et sa personne subissent encore et toujours une conspiration du silence, qui ne connaît aucun précédent dans l’histoire de la littérature italienne.

Roberto ALFATTI APPETITI.
(article paru dans le magazine “Area”, Rome, Anno V, n°49, juillet-août 2000; trad. franç.: Robert Steuckers, novembre 2009).
EURO-SYNERGIES
Robert Steuckers. Già esponente del GRECE in Belgio, poi membro del comitato di redazione di Nouvelle Ecole ed infine animatore di Sinergie Europee

giovedì 26 novembre 2009

"Tanatoparty" di Laura Liberale: tutti quanti a rimuovere il destino

Dal Secolo d'Italia di giovedì 26 novembre 2009
Si chiamava Mariano Bacioterracino. Il nome non dice granché e l’imperfetto si limita a suggerire che non è più su questa terra. Un aiutino: è l’uomo – non proprio uno stinco di santo – che viene assassinato nel video recentemente diffuso dalla procura della Repubblica di Napoli. L’esecuzione, a opera di un killer della camorra, risale allo scorso 11 maggio. Location: davanti a un bar in cui non mancano avventori del quartiere Sanità. Pochi attimi e, colpito da proiettili sparati a bruciapelo, cade riverso sul marciapiede. Stupisce la reazione del “pubblico”. La donna che ha acquistato il biglietto del gratta e vinci si sposta appena per far passare l’omicida e continua a grattare. Poi si allontana senza voltarsi. Un uomo con una bambina in braccio attraversa “la scena del crimine” come se nulla fosse accaduto. «Tranquilla indifferenza», la definisce lo scrittore Roberto Saviano. Rassegnazione? Certo, in luoghi dove la convivenza con la violenza è quotidiana – direte voi – è quanto meno giustificabile reagire così. Il problema, però, è che la rimozione della morte permea tutta la nostra società. La morte disturba. Tanto siamo assuefatti ai decessi “per fiction”, quanto evitiamo con scrupolosa determinazione quella reale. Paradossalmente, ne decretiamo più o meno consapevolmente il trionfo nei palinsesti del piccolo e grande schermo, ma coltiviamo la velleità di cambiare canale quando ce la troviamo di fronte. Rifiutiamo la dimensione privata del dolore rifugiandoci nella ben più rassicurante indignazione di massa. Come davanti alle foto del giovane Stefano Cucchi col viso trasfigurato dal pestaggio.
Anche per questo arriva come una boccata d’aria pura – sia pure gelata – un’opera provocatoria come Tanatoparty (Meridiano Zero, pp. 123 € 10), romanzo d’esordio di Laura Liberale, indologa piemontese, classe ’69. Un libro che, non a caso, nasce proprio dall’elaborazione di un lutto – il padre dell’autrice, scomparso nel 2004 – e ci mostra l’assurdità di una società che rifiuta l’idea della morte naturale e sviluppa tecniche conservative sempre più aggressive, inseguendo un’irreale aspirazione collettiva: farsi congelare in un’apparenza di eterna giovinezza.
«Scrivere della morte – ci spiega invece la Liberale – significa riappropriarsi di un pezzo di vita». E lei lo fa con questa favola nera impreziosita da un linguaggio crudo quanto colto, misurato fino all’essenziale, poetico e musicale. Del resto, prima ancora di farsi narratrice, la Liberale è poetessa – ha pubblicato una raccolta poetica con le eleganti edizioni d’If di Napoli – e musicista: suona il basso in una band (garage rock, per lo più) di scrittori a Padova, sua città d’adozione. «Ho una soundtrack per ogni cosa scritta – racconta – e per Tanatoparty sono stati Bauhaus, Killing Joke e Joy Division». E infatti sono molte le suggestioni post-punk e darkeggianti presenti tra le righe del romanzo. Dal pop ai classici. Dal gothic rock dei Cure di Robert Smith agli «adorati» Howard Phillips Lovecraft e Edgar Allan Poe per arrivare al Libro tibetano dei morti (Bardo Tödöl), le cui frasi, tratte dall’edizione Utet ’72 curata dall’orientalista Giuseppe Tucci, incorniciano – letteralmente – ogni pagina di Tanatoparty.
Titolo che è già un programma. Più esattamente: un j’accuse. Nei confronti di chi vorrebbe fare del caro estinto tout court un cliente da spennare, del tentacolare business legato alle onoranze funebri alimentato vieppiù dalla società dell’immagine, che non si arrende neanche di fronte all’inevitabile. Spieghiamoci: la tanatoprassi, fulcro del romanzo, consiste nel trattamento post-mortem del cadavere a fini igienico-conservativi. Con buoni risultati, almeno nel breve periodo. Niente più corpi deturpati da incidenti o segnati da malattie, per intenderci. Niente cattivi odori che possano rendere la veglia funebre sgradevole. Mai più obitori freddi e inospitali, ma strutture confortevoli e personale specializzato. I familiari potranno vedere il morto – sostengono i rappresentanti di questa professione emergente anche nel nostro paese – esattamente com’era da vivo. Magari seduto, in posizioni all’apparenza normali, come sempre più spesso capita ai defunti in particolar modo americani.
«Estetica dell’aggiustabile», la definisce ironicamente la Liberale nel romanzo. Che in un futuro neanche tanto lontano potrebbe risolvere tanti problemi. Tanto da non rendere più necessario rinviare una vacanza se un parente improvvisamente venisse meno. Grazie alla possibilità di rinviarne sine die il processo di decomposizione, potrà tranquillamente diventare acquiescente compagno di viaggio in qualsiasi tipo di ambiente. Un po’ come in Week end con il morto (’89), pellicola statunitense diretta da Ted Kotcheff seguita dal sequel del ’93. O, meglio ancora, come ne La morte ti fa bella. In quest’ultima esilarante commedia nera di Robert Zemeckis girata nel ’92, Meryl Streep e Goldie Hawn, dopo aver bevuto un elisir, diventeranno immortali e sarà compito di Bruce Willis, nel ruolo del chirurgo / compagno conteso dalle due agguerrite rivali, farsi “tanatoprattore ante litteram” e cercare di combattere la decomposizione delle salme… viventi.
Ed è proprio questa la “denuncia” della Liberale: la morte come tabù, il rifiuto ostinato dell’invecchiamento, l’emulazione sempre più diffusa di personaggi dello spettacolo che fanno ricorso alla chirurgia estetica pur di coltivare l’illusione di una giovinezza irrimediabilmente sfiorita che nessuna modifica artificiale potrà mai restituire. Con risultati spesso caricaturali e tutt’altro che dignitosi. È contro «questa terrificante sfilza di corpi-artefatto, adulterati e inautentici», identità, che – per citare le parole del sociologo polacco Zygmunt Bauman – «diviene una collezione di maschere indossate una dopo l’altra», la Liberale, attraverso Lucilla Pezzi, la protagonista del romanzo, riafferma «un’identità fatta di pelle e non adottata come veste».
Scrive l'autrice: «Per Lucilla – scrive l’autrice – il corpo doveva essere un grido ininterrotto contro l’ideologia». 65 anni, artista dissacrante e anticonformista, Lucilla, quando apprende di essere malata di cancro, decide di fare della propria morte una performance, l’ultima. Diventerà essa stessa un’opera d’arte proponendosi come oggetto. Le sue membra inanimate verranno esposte quale «simbolo del suo fare poesia: uno strapparsi a morsi che, a carne viva, ti fa arrivare al cuore inesorabile della cose». È lei e non altri a dettare tempi, modi e luoghi della sua uscita di scena, rivelando così la posizione dell’autrice in tema di testamento biologico: «Pur nel riconoscimento dell’assoluto mistero della vita – dice la scrittrice – sono fermamente convinta che le scelte individuali vadano rispettate senza condizioni». E Lucilla stabilisce di essere plastificata. Riferimento esplicito della Liberale alle opere di Gunther von Hagens, anatomopatologo tedesco che a partire dagli anni ’70 ha inventato e perfezionato un’innovativa tecnica di conservazione e da allora porta in giro «non per perversione o spettacolarizzazione ma a meri fini didattico-divulgativi» la sua mostra itinerante di cadaveri provenienti da donazioni volontarie. La sua salma, così trattata, sarà esposta al pubblico.
Il luogo prescelto per l’atrocity exhibition è Tanexpo, l’esposizione internazionale d’arte funeraria e cimiteriale. Fiera “della morte” che esiste davvero (nata nel ’92 a Bologna, 20mila metri quadrati per 16mila espositori provenienti da cinquanta paesi del mondo, la prossima edizione si terrà nella città emiliana il 26 marzo 2010), i cui aspetti grotteschi vengono sapientemente estremizzati nel romanzo. Così come “estrema” sarà la protesta degli attivisti del P.G.F. (Pro Gea, Fronte per la Difesa della Terra) – fautori di funerali naturali «ecosostenibili». Perché, come è scritto nell’epigrafe/citazione di Philip K. Dick che apre il romanzo, «seppellire la gente è da barbari». Nel mirino degli ecoterroristi c’è «la lobby funeraria nazionale, vera e propria industria della morte», rea del disboscamento delle foreste, del depauperamento delle risorse di zinco e di tutta una serie di immissioni nell’ambiente di sostanze nocive derivanti dai trattamenti di tanatoprassi e necroestetica.
La vicenda intreccerà le vite di Mina, la sorella minore di Lucilla, di Sergio, l’amore giovanile, della tanatoprattrice Clotilde e del necrofilo Leo. Tutti invitati a partecipare all’ultima performance di Lucilla, della quale resta il cadavere «congelato in un eterno presente per incarnare l’angoscia della post-modernità: l’orrore del cambiamento». Costringendo gli spettatori della morte fiction a confrontarsi con la morte vera, anche se spettacolorizzata in un’azione artistica: «Clotilde punta il telecomando verso Lucilla e preme. L’apparente rigidità del corpo si scioglie all’improvviso. Come azionato da una molla interna, con uno scatto precluso ad arti vivi, il cadavere si solleva».

Una cosa di destra? L'omaggio a Jacopetti (di Luciano Lanna)

Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di giovedì 26 novembre 2009
È senza dubbio il risultato di una battaglia nostra - del Secolo per intenderci - e dell'impegno dell'assessore capitolino alla Cultura, Umberto Croppi. Come a smentire quegli ambienti che amano crogiolarsi nel mito incapacitante di un'egemonia culturale che nonostante tutto non consentirebbe iniziative fuori dai suoi recinti. Stasera infatti alla Casa del Cinema del Festival internazionale del film di Roma viene festeggiato il regista Gualtiero Jacopetti, che il 4 settembre scorso ha compiuto novant'anni. L'iniziativa, "Omaggio a Jacopetti", organizzata appunto in collaborazione con l'assessorato alle politiche culturali e alla comunicazione del Campidoglio, viene oltretutto presentata come un'appendice alla kermesse cinematografica romana. Ci sarà lui, il cineasta toscano che da tempo vive a Roma, e alle 20 verrà trasmesso L'importanza di essere scomodo, un film-documentario inedito firmato da Andrea Bettinetti e che racconta la vita e l'opera dell'autore di Mondo Candido e Africa addio. Quindi il pubblico avrà la possibilità di ascoltare lo stesso Jacopetti intervistato dalla critica cinematografica Piera Detassis, che è anche il direttore artistico del Festival di Roma. E, al termine della serata-maratona, ci sarà la proiezione di Operazione ricchezza, un film jacopettiano girato nel 1983 e rimasto inedito, ma ora restaurato e disponibile in digitale.
«Io uomo scomodo? Potrebbe sembrare - ha detto ieri il regista in conferenza stampa - un atteggiamento da vittima che non mi appartiene. Scomodo forse lo sono stato, ma verso me stesso». È vero, il vittimismo non gli è mai appartenuto. «Per il primo film sono partito con l'amore per l'Africa che sognavo - ha spiegato - come luogo d'avventura. C'era la voglia di vederla. Chi partiva per l'Africa sapeva di affrontare una missione da esploratori. L'Africa di allora si stava trasformando e io avevo voglia di constatare questo cambiamento. Arrivai lì senza una tesi. Il film nasceva da un'esplorazione. E accadevano cose. Ma l'epoca era quella, degli anni Sessanta, discostarsi dalla verità era pericoloso...». Da cui la demonizzazione e la messa al bando del regista: «Sono stato attaccato come razzista e fascista perchè ho osato raccontare la verità. Ma in sostanza in quel film veniva ritratta la realtà senza indulgere a compromessi...».
Umberto Croppi, classe 1956, da testimone cinefilo ha spiegato di aver tanto amato Mondo Candido: «Quando uscì non avevo ancora vent'anni ma lo percepii come un film profetico, basato com'è sulla trasposizione nel tempo del Candide di Voltaire e su cui scorrono le grandi ideologie del Novecento. Nel '74 Jacopetti aveva già capito che la crisi stava per arrivare e si sarebbe trascinata via quelle ideologie. È straordinaria la scena finale in cui il protagonista, ormai vecchio, vede andar via sulla rotta di un fiume i simboli dell'ideologismo novecentesco. Su un altro piano, la sua tecnica della ripresa con telecamera a mano, oggi quasi abituale, come altri espedienti di regia hanno rivoluzionato il modo di vedere e fare i film. Jacopetti sicuramente non era un politically correct. Africa addio, come tutti i suoi documentari rappresentavano atti di coraggio civile». Anche per questo la scelta di festeggiare pubblicamente una lunga vita e una carriera interrotta anni fa appare come l'occasione per riscoprire quel patrimonio, e anche come un atto di riparazione alle polemiche che in alcuni casi sfociarono in calunnie e linciaggio.
Fatto sta che mentre negli anni Sessanta il cinema italiano continuava a cavalcare il neorealismo, Jacopetti con la telecamera in mano trasformava il documentario (e non solo) in un racconto cinematografico provocatorio, affrontando temi importanti e scatenando polemiche incandescenti. Lui comunque ci tiene a precisare una cosa: «Non sono animato da nessuna voglia di rivincita». La lamentazione e le recriminazioni non appartengono infatti al suo stile. Anche perché, polemiche a parte, Gualtiero è stato un precursore nel giornalismo e nel cinema italiano, come hanno attestato recentemente i giudizi di Aldo Grasso o Antonio Ricci. E la sua stessa vita è stata una grande e bella avventura. Va ricordato, oltretutto, che cinquant'anni fa molti scrissero che il personaggio de La dolce vita di Fellini interpretato da Marcello Mastroianni, «un giornalista di destra», si diceva nel film, era stata ispirato tout court dalla figura di Jacopetti. Giornalista prima che regista, dicevamo: aveva iniziato facendo amicizia con Leo Longanesi e Indro Montanelli, lui ancora studente universitario. Poi l'incontro con Luigi Barzini jr. che prima lo porta al Corriere della Sera, poi nella redazione della Settimana InCom. «L'Italia - dirà di quel periodo - era allora un immenso dormitorio con la censura democristiana e una borghesia ipocrita pronta a scandalizzarsi per un nonnulla. E io mi divertivo a mettere in risalto la cattiveria e la mancanza di cultura diffuse...». I suo cinegiornali erano infatti quasi una sorta di anticipazione di Striscia la notizia.
Lo ha spiegato bene proprio Piera Detassis: «L'intuizione di Jacopetti fu quella di evitare il documentario piatto e fedele, utilizzando invece in modo nuovo e spregiudicato il montaggio, sia visivo che sonoro, e marcando i toni sarcastici e ironici del commento fuori campo». Un taglio che si ritroverà anche nei suoi film - oltre a quelli già citati anche Mondo cane, La donna del mondo e Addio zio Tom - ma che sconcerterà conformisti e benpensanti. Tanto che ancora oggi, del suo rapporto col cinema italiano dell'epoca, Jacopetti dice: «Lo trovavo molto provinciale, raccontava storie che difficilmente varcavano le Alpi. Il nostro Sordi non era comprensibile oltre l'Italia. E traspariva la volontà di farsi riconoscere nel conformismo e di adeguarsi, cosa che mi dava fastidio. Nel neorealismo c'era soprattutto questa voglia di riconoscersi politicamente. Avrei potuto adeguarmi, ma io non avevo voglia di farlo...».
Sottolinea oggi la Detassis: «La sua scomodità è per noi motivo di interesse. Non parlo di sdoganamento di Jacopetti ma credo che la polemica intorno al suo lavoro, accusato di essere fascista, ha in realtà condizionato il suo valore. A noi interessa adesso che si rivedano i suoi film e si conosca il suo lavoro anticipatore». Jacopetti ci tiene a distinguersi da colleghi come Michael Moore: «Parte da una tesi e fa di tutto per dimostrarla. Ma per quello il suo non è più un documentario». Quanto al suo inedito Operazione ricchezza, Jacopetti sorride: «Lo girai in Venezuela, dove risalii un fiume che nasce da una cascata che fa un salto di mille metri la più alta del mondo che nasce da un crepaccio nascosto. Rimasi incantato da quello che un fiume poteva generare. Ma non lo ricordo per niente, lo vedrò con un po' di panico in questa serata...».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.