martedì 26 gennaio 2010

Stefano Re Cecconi: «La passione di mio padre Luciano servirebbe oggi a una Lazio che ha perso la rotta»

Dal Secolo d'Italia di martedì 26 gennaio 2010
«La verità sulla morte di Luciano non è quella emersa nel processo». A “riaprire” il caso Re Cecconi è Luigi Martini, un passato da deputato di Alleanza Nazionale e soprattutto da terzino sinistro della Lazio campione d’Italia nel ’74. «Sono passati 33 anni – dichiara sul Guerin Sportivo di febbraio – ma ancora mi fa arrabbiare che Luciano passi da ingenuo. Non c’è stato nessuno scherzo. Pioveva, era con Ghedin e il profumiere Fraticcioli. Si stavano riparando camminando raso muro, con il bavero del giubbotto alzato e le mani in tasca. Fraticcioli è entrato per primo, loro dietro. Luciano non ha aperto bocca, ma il gioielliere Tabocchini, pensando fossero rapinatori, ha sparato».
In quel 18 gennaio ’77, all’oscurità della sera se ne aggiunge un’altra più minacciosa: l’ombra del terrorismo, che avvolge una Roma spaventata dall’escalation della violenza politica. Se l’è cercata, hanno commentato i più. Perché una cosa è certa: presentare Re Cecconi come un guascone irresponsabile serviva a lavare la coscienza collettiva. «Lo chiamavamo “il saggio” – ha ricordato invece Felice Pulici, estremo difensore di quella Lazio leggendaria – poiché non perdeva mai il senso della realtà». Una persona riservata, assicura l’amico fraterno Martini.
«Luigi è la persona che conosceva meglio papà e quindi ha pieno titolo a parlare». Stefano Re Cecconi aveva poco più di due anni quando perse il padre. Alla sua famiglia non sono stati risparmiati i peggiori luoghi comuni. Persino in occasione del trentennale dalla morte, un quotidiano titolò: “L’ultima follia dell’angelo biondo”. Sin troppo facile rispolverare l’abusato cliché della Lazio fascista dei pistoleri. L’epopea di quella Lazio sopra le righe, di quegli undici romantici affamati di vita e vittorie, è stata ben raccontata da Guy Chiappaventi in Pistole e Palloni (Limina 2004) e Martini, del resto, non rinnega nulla: né le simpatie di alcuni giocatori per il Movimento Sociale, né l’uso delle armi duranti i ritiri. Dal tiro a segno dietro agli alberghi ai «percorsi di guerra con obiettivi mobili». Non Re Cecconi, che non aveva neanche il porto d’armi.
«Quando si parla di papà – ci dice Stefano – ci si sofferma sull’episodio tragico della morte e sul suo look particolare, i capelli lunghi e biondi, e non si parla del calciatore». Ha ragione. Fu Maestrelli a portare con sé dal Foggia quel centrocampista instancabile, capace non soltanto di fare interdizione ma pronto a ripartire, vero e proprio regista basso in quel calcio totale all’olandese introdotto in Italia dall’allenatore toscano. Se avesse indossato la casacca di club “politicamente” più forti, in nazionale sarebbe arrivato prima. «Eppure papà, malgrado fosse originario del nord – assicura Stefano – era innamorato della Lazio». Amore ricambiato, perché ancora oggi la sua maglia, la n. 8, è un’icona dei tifosi e non soltanto degli “anziani” cresciuti nel suo mito. Lo testimonia l’affetto che il popolo della Tevere – «cui sono abbonato», sottolinea Stefano con orgoglio – gli riserva ogni volta che lo incontra.
Nel 2008 ha scritto un libro, Lui era mio papà (Reality Book, p. 128 € 10) per restituirne la memoria attraverso il racconto di amici, tifosi e compagni. «Re Cecconi non conosceva il significato del verbo arrendersi», scrive nella prefazione Walter Veltroni, che ha voluto Stefano nella Fondazione Sandri in rappresentanza della lazialità, così come Luca Di Bartolomei, figlio di Agostino, dei tifosi giallorossi. Una frase che dice molto di un uomo che, se non fosse diventato calciatore, avrebbe messo lo stesso impegno nel lavoro di carrozziere praticato sin da ragazzino a Sant’Ilario di Nerviano, paesino del milanese il cui stadio, oggi, ne porta il nome.
Re Cecconi non si risparmiava. Martini racconta come anche «le partitelle di allenamento fossero combattute». La squadra era divisa da una rivalità feroce in due clan separati dal lunedì al sabato – un gruppo capeggiato da Chinaglia e Wilson, l’altro da Re Cecconi e Martini – ma la domenica bastava indossare la maglia biancoceleste per mettere da parte ogni contrasto. «Il grande artefice delle vittorie della Lazio – spiega Stefano – fu Maestrelli, che seppe mantenere compatto il gruppo nel nome della lazialità». Valore aggiunto che sembra mancare alla Lazio attuale, in crisi e contestata dai tifosi.
«Quello che manca alla società – conferma Stefano – è una forte spinta di lazialità. Dovrebbe coinvolgere quelle figure che rappresentano la continuità della nostra storia, come ha fatto la Juve con Bettega. Seguendo l’esempio dei club inglesi, inoltre, un settore dello stadio andrebbe riservato ai nostri campioni: da Lovati a D’Amico, da Oddi a Giordano. Non abbiamo una bacheca piena di trofei, la nostra memoria si alimenta attraverso loro. E Lotito lo sentiamo distante». Lontani quanto diversi, i tempi di Umberto Lenzini (nella foto a destra). «Era un presidente legato ai suoi giocatori – ricorda Martini – e avrebbe fatto di tutto per lanciarsi con il paracadute insieme a me e Re Cecconi. Invece che multarci, ci incoraggiava. Potevamo romperci una gamba, ma lui era stregato dalla follia». Ecco, per uscire dalla crisi, la Lazio avrebbe bisogno di ritrovare quella magia, fatta anche di eccessi, che nasceva dall’amore: per una città, per una squadra, per il calcio.



1 commento:

Anonimo ha detto...

Ma scusate, sul luogo della tragedia, c'era anche Pietro Ghedin. Calciatore e compagno di squadra di Re Cecconi. In tutti questi anni, non ho sentito una sola dichiarazione, una sola frase che aiutasse a capire ...