Dal Secolo d'Italia di venerdì 12 febbraio 2010
No, non siamo proprio d'accordo con Il Foglio dove ci si compiace di una presunta «delusione di leggere Guccini in cerca di amori e trovare soltanto lagne». E dove si arriva a dare anche del «lamentoso» a quello che può invece essere considerato uno dei migliori scrittori degli ultimi vent'anni. Ma noi, si sa, siamo gucciniani impenitenti oltre che fratelli minori di chi ha fatto il Sessantotto o si è entusiasmato per la Chiesa conciliare, e non possiamo quindi pensarla come chi preferisce ricostruirsi un'immaginario altro rispetto a quello comune e condiviso degli italiani di questi ultimi quarant'anni. Perché, per dirla tutta, quest'autobiografia di Francesco Guccini intitolata Non so che viso avesse. La storia della mia vita (Mondadori, pp. 225, € 18,00) ce la siamo letta tutta d'un fiato, ripercorrendo sull'onda delle note e dei testi gucciniani la biografia e la visione del mondo di un autore che è in buona parte anche la nostra. A un certo punto del libro c'è un episodio che dà la chiave di lettura di tutto. Un amico modenese di Guccini in un opuscolo sull'epopea beat di quei ragazzi emiliani racconta di due giovani capelloni degli anni '60 che si chiedono, l'un l'altro nel loro dialetto: «Et un bit tè?», «No, mè a sun un hippy». Commenta Guccini: «C'era in questo breve dialogo, in quasto lampo di genio, tutta la saggezza contadina di base di noi giovani d'allora che ci sognavano rivoluzionari ma che in fondo erano brava gente, provenienti da famiglie piccolo-borghesi, sognanti di fare qualcosa di nuovo ma radicati bene, profondamente, dentro quelle radici».
Per cui, tanto per sgombrare il campo dagli equivoci, lasciamo parlare direttamente Francesco: «Mi piace definirmi - precisa - appartenente alla famiglia dei cantastorie, dai quali ho ereditato la tecnica nella costruzione dei versi. A lungo sono stato considerato il cantautore politicizzato per eccellenza, una specie di equivoco...». Sì, proprio un equivoco, nel quale non è però mai caduto chi negli anni ha ascoltato davvero le sue canzoni o letto i suoi libri. Si pensi a Radici, l'album del 1972 che è un po' il lavoro il quale ha scoperchiato il suo pensiero profondo: «Qui il passato - scrive Guccini - come l'appartenenza a una storia che ti fa comunque da background culturale sembra la garanzia dell'oggi senza soluzione di continuità». In quel clima generale - l'Italia degli anni di piombo e delle ideologie totalizzanti, dei manicheismi politici espressi in forma di banali (e spesso tragici) slogan - rivendicare esplicitamente l'appartenenza a una tradizione popolare, collocarsi in continuità rispetto ai propri avi, recuperare modelli ritenuti superati come le ballate medievali era senz'altro una scelta coraggiosa e non conformista. «È probabilmente questo - annota l'italianista Alberto Bertoni nella seconda parte del libro - il motivo profondo della sua durata nel tempo e del gradimento intergenerazionale di cui gode: egli infatti ha saputo sempre evitare di soffermarsi sulla parte effimera dell'esistenza privata e sociale, interrogando piuttosto "il solito silenzio senza fine" che abita ognuno di noi».
Sì, perché il Francesco Guccini che energe da queste pagine è quello che i suoi fan conoscono da sempre: «Io, figlio di una casalinga e di un impiegato / cresciuto fra i saggi ignoranti di montagna / che sapevano Dante a memoria e improvvisavano di poesia / io, tirato su a castagne e a erba spagna / io, sempre un momento fa campagnolo inurbato / due soldi d'elementari e uno di università...». Settant'anni il prossimo giugno, nato a Modena, ma cresciuto a Pàvana nei suoi primi anni di vita, poi di nuovo modenese, quindi bolognese, e adesso di nuovo pavanese, Guccini è soprattutto un raccontatore di storie. Sua mamma, Elsa Prandi, scomparsa a 95 anni lo scorso settembre, quando qualcuno le chiedeva se era felice d'avere un figlio cantautore rispondeva sempre: «Be', cosa vuole mai, noi avremmo preferito che fosse diventato professore di storia...». Professore o meno, però, tutta la sua vita è stata quella di raccontare storie, prima con le canzoni poi con i romanzi e i racconti. «Raccontare se stesso - annota ancora Bertoni - e raccontare le persone, o raccontare se stesso attraverso le persone. La verità, per Guccini, deve essere cercata nei particolari delle singole vite e delle singole vicende, mai negli universali e negli slogan delle parole d'ordine collettive, perché le nostre, come la sua, sono in tutto e per tutto «storie misteriose scolpite nei sassi...». All'inizio c'è il mulino a Pàvana della famiglia Guccini - mugnai sin dal 1600 - e la scoperta dei fumetti e della lettura: «Ogni volta che potevo, leggevo: anzi, fin dal primo libro che ho letto prima di andare a scuola, Pinocchio, la mia gioia più grande era leggere e il mio terrore più grande era rimanere senza leggere». E dal leggere allo scrivere il passo non è poi stato lungo...
E in questa autobiografica, fingendo di parlare d'altro, Guccini dice tutto di sé. C'è Pàvana col mulino degli avi, i nonni, le nonne, il prozio Enrico - l'Amerigo della canzone - e i bisnonni, il bosco, il fiume, la montagna. Poi Modena, odiata e amata, piccola città bastardo posto. Quindi Bologna, l'eletta, in via Paolo Fabbri. E poi gli altri luoghi e i loro aneddoti: le osterie, le balere, dalla via Emilia al West, l'amore per le chitarre e per l'ottava rima. Quelle osterie, soprattutto, dove non c'è ideologia ma Italia condivisa: «Quei clienti di variopinta idea, come quel tale, l'unico proprietario liberale mai conosciuto che il 1° maggio voleva andare a lavorare per protesta. O un altro che quando era un po' su, estraeva un portafoglio e sussurrava. "Sa chi salverebbe ancora l'Italia?", e mostrava la foto di "Lui, lui, quell'altro, insomma, Benito"». E non c'è solo questo. Chi lo sapeva che la prima bibliotechina del piccolo Francesco era fatta per intero da "libri fascisti"? C'era scritto sopra Biblioteca della Gil (Gioventù italiana del littorio) e si trattava di libri che un vecchio funzionario del Pnf del suo paese, preoccupato dell'arrivo degli americani, diede frettolosamente alla mamma di Guccini perché se ne sbarazzasse. Lei non lo fece e Francesco andò a immergersi nel Piccolo alpino e in testi sulla guerra d'Africa, sui voli transoceanici di Italo Balbo e via dicendo...
E chi sapeva, prima di questo libro, che nel 1956, colpito dalla repressione sovietica della rivolta ungherese, un Guccini sedicenne insieme ai suoi più stretti amici fonda a Bologna un "movimento laico indipendente", presieduto dal futuro giurista Gladio Gemma, ispirato a posizioni laiche e non comuniste e ospitato nella sede del moderato Psdi? Come siamo sicuri che nessuno sapesse finora che uno dei primi due ad ascoltare (e apprezzare) La locomotiva oggi è diventato un militante leghista. C'è questo e tanto altro in queste pagine in prima persona. C'è tra l'altro il fatto che Guccini è stato l'unico, nel 1969, a dedicare una canzone alla Primavera di Praga. «Io non sono mai stato - disse a suo tempo a Edmondo Berselli - un estremista, non è nella mia cultura. E neanche comunista, perché il Pci allora era il partito dell'Urss, figurarsi...».
E chi ricordava che il primo vero concerto di Francesco fu, nel dicembre del '68, alla Cittadella d'Assisi, organizzato dai cattolici: «Quelli - ricorda - che avevano fatto trasmettere a Radio Vaticana Dio è morto, allora censurata dalla Rai. Tirava aria di '68, erano i tempi della Messa beat o qualcosa di simile, ero abbastanza giovane e curioso... Andai ad Assisi in pullman, con un gruppo di bolognesi». E proprio quella sua canzone, scritta nel 1965 e incisa dai Nomadi, è un simbolo degli anni Sessanta. La Rai, di fronte a un brano che citava Nietzsche nel titolo e si ispirava all'Urlo di Allen Ginsberg, fece come con le canzoni di Fabrizio De André: censura. Nel frattempo, però, la canzone si avviava a diventare un inno della giovane generazione, appassionando tutti: i cattolici, gli irregolari di destra, i contestatori di sinistra. Lo racconta adesso lo stesso Guccini nell'ultimo numero della rivista cattolica Vita e Pensiero, da poco in libreria, nell'articolo Dio (non) è morto, la ricerca continua: «Avevo venticinque anni - scrive - e stavo studiando all'università di Bologna, i primi sit-in e il '68 erano alle porte, era mia intenzione scrivere qualcosa di generazionale».
Come si fa, insomma, a dire - lo leggevamo ieri sul Foglio - che «Guccini non scuce niente di niente a parte la solita storia della vita semplice con il burro fatto in casa, un paio di articoli di quando faceva il giornalista alla Gazzetta dell'Emilia e gli esordi come cantante di balera»? Per dirlo bisognerebbe non aver mai ascoltato le sue canzoni - che so, Il pensionato, Eskimo, L'avvelenata, Canzone delle colombe e del fiore, Cirano - o non aver mai letto un suo romanzo. Lo sanno che nel 2004 un testo gucciniano è stato proposto come traccia per l'esame scritto di italiano alle prove di maturità? Oppure che nel '92 Francesco è stato insignito del Premio Eugenio Montale e che, nel '94, un suo testo è stato inserito da Enzo Siciliano nel terzo volume dei Racconti italiani del Novecento? No, per loro Guccini è uno stereotipo. Chissà, se lui avesse previsto tutto questo...
Per cui, tanto per sgombrare il campo dagli equivoci, lasciamo parlare direttamente Francesco: «Mi piace definirmi - precisa - appartenente alla famiglia dei cantastorie, dai quali ho ereditato la tecnica nella costruzione dei versi. A lungo sono stato considerato il cantautore politicizzato per eccellenza, una specie di equivoco...». Sì, proprio un equivoco, nel quale non è però mai caduto chi negli anni ha ascoltato davvero le sue canzoni o letto i suoi libri. Si pensi a Radici, l'album del 1972 che è un po' il lavoro il quale ha scoperchiato il suo pensiero profondo: «Qui il passato - scrive Guccini - come l'appartenenza a una storia che ti fa comunque da background culturale sembra la garanzia dell'oggi senza soluzione di continuità». In quel clima generale - l'Italia degli anni di piombo e delle ideologie totalizzanti, dei manicheismi politici espressi in forma di banali (e spesso tragici) slogan - rivendicare esplicitamente l'appartenenza a una tradizione popolare, collocarsi in continuità rispetto ai propri avi, recuperare modelli ritenuti superati come le ballate medievali era senz'altro una scelta coraggiosa e non conformista. «È probabilmente questo - annota l'italianista Alberto Bertoni nella seconda parte del libro - il motivo profondo della sua durata nel tempo e del gradimento intergenerazionale di cui gode: egli infatti ha saputo sempre evitare di soffermarsi sulla parte effimera dell'esistenza privata e sociale, interrogando piuttosto "il solito silenzio senza fine" che abita ognuno di noi».
Sì, perché il Francesco Guccini che energe da queste pagine è quello che i suoi fan conoscono da sempre: «Io, figlio di una casalinga e di un impiegato / cresciuto fra i saggi ignoranti di montagna / che sapevano Dante a memoria e improvvisavano di poesia / io, tirato su a castagne e a erba spagna / io, sempre un momento fa campagnolo inurbato / due soldi d'elementari e uno di università...». Settant'anni il prossimo giugno, nato a Modena, ma cresciuto a Pàvana nei suoi primi anni di vita, poi di nuovo modenese, quindi bolognese, e adesso di nuovo pavanese, Guccini è soprattutto un raccontatore di storie. Sua mamma, Elsa Prandi, scomparsa a 95 anni lo scorso settembre, quando qualcuno le chiedeva se era felice d'avere un figlio cantautore rispondeva sempre: «Be', cosa vuole mai, noi avremmo preferito che fosse diventato professore di storia...». Professore o meno, però, tutta la sua vita è stata quella di raccontare storie, prima con le canzoni poi con i romanzi e i racconti. «Raccontare se stesso - annota ancora Bertoni - e raccontare le persone, o raccontare se stesso attraverso le persone. La verità, per Guccini, deve essere cercata nei particolari delle singole vite e delle singole vicende, mai negli universali e negli slogan delle parole d'ordine collettive, perché le nostre, come la sua, sono in tutto e per tutto «storie misteriose scolpite nei sassi...». All'inizio c'è il mulino a Pàvana della famiglia Guccini - mugnai sin dal 1600 - e la scoperta dei fumetti e della lettura: «Ogni volta che potevo, leggevo: anzi, fin dal primo libro che ho letto prima di andare a scuola, Pinocchio, la mia gioia più grande era leggere e il mio terrore più grande era rimanere senza leggere». E dal leggere allo scrivere il passo non è poi stato lungo...
E in questa autobiografica, fingendo di parlare d'altro, Guccini dice tutto di sé. C'è Pàvana col mulino degli avi, i nonni, le nonne, il prozio Enrico - l'Amerigo della canzone - e i bisnonni, il bosco, il fiume, la montagna. Poi Modena, odiata e amata, piccola città bastardo posto. Quindi Bologna, l'eletta, in via Paolo Fabbri. E poi gli altri luoghi e i loro aneddoti: le osterie, le balere, dalla via Emilia al West, l'amore per le chitarre e per l'ottava rima. Quelle osterie, soprattutto, dove non c'è ideologia ma Italia condivisa: «Quei clienti di variopinta idea, come quel tale, l'unico proprietario liberale mai conosciuto che il 1° maggio voleva andare a lavorare per protesta. O un altro che quando era un po' su, estraeva un portafoglio e sussurrava. "Sa chi salverebbe ancora l'Italia?", e mostrava la foto di "Lui, lui, quell'altro, insomma, Benito"». E non c'è solo questo. Chi lo sapeva che la prima bibliotechina del piccolo Francesco era fatta per intero da "libri fascisti"? C'era scritto sopra Biblioteca della Gil (Gioventù italiana del littorio) e si trattava di libri che un vecchio funzionario del Pnf del suo paese, preoccupato dell'arrivo degli americani, diede frettolosamente alla mamma di Guccini perché se ne sbarazzasse. Lei non lo fece e Francesco andò a immergersi nel Piccolo alpino e in testi sulla guerra d'Africa, sui voli transoceanici di Italo Balbo e via dicendo...
E chi sapeva, prima di questo libro, che nel 1956, colpito dalla repressione sovietica della rivolta ungherese, un Guccini sedicenne insieme ai suoi più stretti amici fonda a Bologna un "movimento laico indipendente", presieduto dal futuro giurista Gladio Gemma, ispirato a posizioni laiche e non comuniste e ospitato nella sede del moderato Psdi? Come siamo sicuri che nessuno sapesse finora che uno dei primi due ad ascoltare (e apprezzare) La locomotiva oggi è diventato un militante leghista. C'è questo e tanto altro in queste pagine in prima persona. C'è tra l'altro il fatto che Guccini è stato l'unico, nel 1969, a dedicare una canzone alla Primavera di Praga. «Io non sono mai stato - disse a suo tempo a Edmondo Berselli - un estremista, non è nella mia cultura. E neanche comunista, perché il Pci allora era il partito dell'Urss, figurarsi...».
E chi ricordava che il primo vero concerto di Francesco fu, nel dicembre del '68, alla Cittadella d'Assisi, organizzato dai cattolici: «Quelli - ricorda - che avevano fatto trasmettere a Radio Vaticana Dio è morto, allora censurata dalla Rai. Tirava aria di '68, erano i tempi della Messa beat o qualcosa di simile, ero abbastanza giovane e curioso... Andai ad Assisi in pullman, con un gruppo di bolognesi». E proprio quella sua canzone, scritta nel 1965 e incisa dai Nomadi, è un simbolo degli anni Sessanta. La Rai, di fronte a un brano che citava Nietzsche nel titolo e si ispirava all'Urlo di Allen Ginsberg, fece come con le canzoni di Fabrizio De André: censura. Nel frattempo, però, la canzone si avviava a diventare un inno della giovane generazione, appassionando tutti: i cattolici, gli irregolari di destra, i contestatori di sinistra. Lo racconta adesso lo stesso Guccini nell'ultimo numero della rivista cattolica Vita e Pensiero, da poco in libreria, nell'articolo Dio (non) è morto, la ricerca continua: «Avevo venticinque anni - scrive - e stavo studiando all'università di Bologna, i primi sit-in e il '68 erano alle porte, era mia intenzione scrivere qualcosa di generazionale».
Come si fa, insomma, a dire - lo leggevamo ieri sul Foglio - che «Guccini non scuce niente di niente a parte la solita storia della vita semplice con il burro fatto in casa, un paio di articoli di quando faceva il giornalista alla Gazzetta dell'Emilia e gli esordi come cantante di balera»? Per dirlo bisognerebbe non aver mai ascoltato le sue canzoni - che so, Il pensionato, Eskimo, L'avvelenata, Canzone delle colombe e del fiore, Cirano - o non aver mai letto un suo romanzo. Lo sanno che nel 2004 un testo gucciniano è stato proposto come traccia per l'esame scritto di italiano alle prove di maturità? Oppure che nel '92 Francesco è stato insignito del Premio Eugenio Montale e che, nel '94, un suo testo è stato inserito da Enzo Siciliano nel terzo volume dei Racconti italiani del Novecento? No, per loro Guccini è uno stereotipo. Chissà, se lui avesse previsto tutto questo...
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
1 commento:
anche io sono un fan...per cui un mio commento no farebbe testo! :-)
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