Rubrica settimanale "La domenica nel pallone"
Dal Secolo d'talia di martedì 23 febbraio 2010
La sua ultima raccolta di poesie è fresca di tipografia: A spese mie (Il fondo, pp. 106, € 12,60). Eppure Miro Renzaglia, poeta romano della classe ’57, è stato a un passo dal farsi calciatore professionista. «Sì, negli anni 70 sono stato un discreto portiere di calcio – ci racconta – e se avessi avuto una testa monomaniaca, devota in assoluto all’ultima religione attendibile della modernità, avrei potuto figurare sugli album della mitica Panini. Ma ero troppo irrequieto per limitare la mia curiosità a una sola sfera dell’essere: preferii salire su molti destrieri e non cavalcare un’unica tigre. Così mi ritagliai uno spazio nei campionati minori. Mi piaceva tutto di quel ruolo: l’irregolarità della divisa (all’epoca quasi sempre nera); il numero sulla schiena (l’uno); la trasgressione di poter usare le mani; il privilegio della responsabilità di non potersi concedere errori; la sua leggendaria e un po’ mitica hybris del coraggio; le metafore che gli venivano coniate addosso. Fra queste, una mi ha sempre esaltato nell’immedesimo: estremo difensore».
Dalle “colonne” de il Fondo, il periodico online che ha fondato e dirige, Renzaglia affronta i nodi più spinosi dell’attualità con la “spericolatezza” testata sui campi: «Al calcio giocato, come Camus, devo quasi tutto quello che so di me. Per questo, quando lo sento descrivere come la mania di 22 uomini in mutande che corrono dietro a un pallone, unita a quella di altre migliaia di persone che assistono sugli spalti, m’incazzo fortemente. Il calcio è come la vita e nella sua forma più elevata diventa un’arte. Quello che faceva Maradona a un pallone con i piedi vale quello che sapeva fare Jimi Hendrix con le mani su una chitarra: sapere apprezzare entrambi nella stessa misura, è una questione di educazione a vedere il bello dove e quando si manifesta».
Ne I rossi e i neri (edito da Settimo Sigillo nel 2002), Renzaglia ricostruisce la sua “formazione” tra i campetti di calcio e l’escalation di violenza politica che culminerà nell’attentato in cui ha rischiato la vita. «Quando mi spararono, sul finire degli anni 70, era un sabato sera: l’indomani avrei dovuto giocare una partita di campionato. La giocarono lo stesso i miei compagni di squadra, la vinsero, me la dedicarono e poi si organizzarono per l’assistenza e la vigilanza al mio capezzale. Loro, che non erano nemmeno fascisti: non i miei camerati. Evidentemente, funzionava assai meglio il vincolo di solidarietà di squadra di quello squadrista».
Dalle “colonne” de il Fondo, il periodico online che ha fondato e dirige, Renzaglia affronta i nodi più spinosi dell’attualità con la “spericolatezza” testata sui campi: «Al calcio giocato, come Camus, devo quasi tutto quello che so di me. Per questo, quando lo sento descrivere come la mania di 22 uomini in mutande che corrono dietro a un pallone, unita a quella di altre migliaia di persone che assistono sugli spalti, m’incazzo fortemente. Il calcio è come la vita e nella sua forma più elevata diventa un’arte. Quello che faceva Maradona a un pallone con i piedi vale quello che sapeva fare Jimi Hendrix con le mani su una chitarra: sapere apprezzare entrambi nella stessa misura, è una questione di educazione a vedere il bello dove e quando si manifesta».
Ne I rossi e i neri (edito da Settimo Sigillo nel 2002), Renzaglia ricostruisce la sua “formazione” tra i campetti di calcio e l’escalation di violenza politica che culminerà nell’attentato in cui ha rischiato la vita. «Quando mi spararono, sul finire degli anni 70, era un sabato sera: l’indomani avrei dovuto giocare una partita di campionato. La giocarono lo stesso i miei compagni di squadra, la vinsero, me la dedicarono e poi si organizzarono per l’assistenza e la vigilanza al mio capezzale. Loro, che non erano nemmeno fascisti: non i miei camerati. Evidentemente, funzionava assai meglio il vincolo di solidarietà di squadra di quello squadrista».
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