lunedì 1 marzo 2010

"Dalla parte dei vinti", la bruciante invettiva di Buscaroli (di Annalisa Terranova)

Attraversare il '900 con Piero Buscaroli
Articolo di Annalisa Terranova
Dal Secolo d'Italia di sabato 27 febbraio 2010
Il libro è di quelli che lasciano un segno, indelebile. Per le testimonianze, ma ancora di più per lo stile del racconto: le memorie di Piero Buscaroli, in ogni caso, sono un'occasione per riflettere andando oltre la superficie della storia italiana. In oltre cinquecento pagine, l'autore, nato nel 1930, giornalista e scrittore raffinato, cultore di Bach, Brahms e Mozart, anti-antifascista non pentito, spiega il suo specialissimo modo di essere Dalla parte dei vinti (Mondadori, pp. 520, € 24,00), non certo isolandosi bensì trovandosi in tante occasioni là dove la "storia si forma", anzi precipitandosi verso quell'orribile vortice che ha travolto destini individuali e di popolo, una storia cominciata con una "fornace di sentimenti" dimoranti in un tredicenne che assiste alla catastrofe dell'8 settembre e conclusa, senza abiure, con la contemplazione del crollo delle menzogne resistenziali. L'itinerario è ricostruito appunto in questo lunghissimo diario autobiografico, che offre lezioni e spunti preziosi. Recensendolo sulle pagine del Foglio Camillo Langone attribuisce a Buscaroli una potente arte di odiare: «Odia gli antifascisti e anche parecchi fascisti e vari neofascisti, odia i vivi e odia i morti, odia i singoli e le nazioni...».
Sinceramente, non ci sembra questa la chiave interpretativa più efficace. Buscaroli parla come uno che detesta questa Repubblica perché ha nutrito una passione anche troppo profonda per l'Italia, per la rettitudine, per la bellezza, per l'arte, per le caratteristiche che fanno di un uomo un gentiluomo, a cominciare dal culto del Babbo latinista e delle imprese dello zio Mario, che il 30 novembre 1941 portò in volo il primo aeroplano italiano a reazione. Non parla da sconfitto, non trasmette i suoi rancori personali, semmai esercita un aristocratico senso di distacco, pieno di fierezza. Difficile non ammirarlo: «Mi volgo all'Italia, dove sono cittadino coatto, non più figlio attivo e fedele...». C'è in più, nelle sue memorie, un'ansia di rettificare le colossali bugie di comodo con cui l'Italia si è congedata dal suo recente passato, per la quale il lettore non può che provare gratitudine e attenzione, poiché si tratta di "correzioni" di un testimone oculare.
Buscaroli visse con turbamento, per esempio, l'assassinio nel 1944 da parte delle bande partigiane dell'amico Alberto Tescola, diciassettenne allievo ufficiale della Gnr, che lo aveva iniziato al culto di Bach e di Beetohoven. «La mamma di Alberto mi chiamò a casa "per parlare di lui", e mi donò i suoi libri di musica, le edizioni tedesche di Bach e di Beethoven, che ancora adopero». Da lì in poi visse con un senso di nausea l'epilogo della guerra, indisponibile, oggi come allora, a mescolare i suoi destini con quelli di chi, proprio nella sua terra, a Imola, diede il via a operazioni di macelleria che solo a decenni di distanza assumono le vere proporzioni che ebbero, all'epoca, per i protagonisti. «Non la chiamai una "guerra fratricida", non li vidi mai e non li vedo neppure ora come fratelli. L'idea di essere "italiano", come loro, mi divenne insopportabile...». I partigiani erano e restano per lui «le talpe senza uniforme» che venivano fuori dalle tane per «punire» i "nemici del popolo". Linguaggio scomodo perché non consegnato alla neutralità del lessico storografico, che a sua volta si nutre di convenzioni, anch'esse mutevoli e non certo valide in eterno. In ogni caso, Buscaroli esige precisione, e fa bene, come quando ricorda a Massimo Cacciari, figlio di una sua cugina, che lo zio Cesare Momo, ricordato dal sindaco di Venezia in un'intervista, non fu «fucilato dai partigiani durante la guerra», come asserisce Cacciari, ma ucciso a guerra finita insieme ai ragazzi della Monterosa cui avevano garantito una vita da prigionieri in cambio della resa. Così come pretende precisione sul 25 luglio, confutando gli alibi di Dino Grandi, amico di famiglia dei Buscaroli, al quale scrive nel '66: «Giudico lei, signor Conte, come l'altro Conte, il genero, e tutti i soci, fucilati e scampati, per quello che avete fatto; e non per aver "tradito il Duce", come ripetono i fascisti cretini, ma per aver consegnato l'Italia al Badoglio, che la consegnò ai tedeschi inglesi e americani... L'Italia res nullius fu opera vostra, del Re e Badoglio, la cui vile fuga travolse ogni morale». La lettera fu scritta da Buscaroli a Grandi perché quest'ultimo aveva chiesto l'intercessione di Prezzolini a proposito di un carteggio inedito che smontava la retorica sul 25 luglio come mossa ineluttabile per salvare il salvabile e che fu riproposto dal Borghese.
Con i vinti Buscaroli si trova a suo agio, certamente di più con loro che con i "figuri" sopravvissuti ipocritamente al disastro. Lo si capisce dal prezioso resoconto del suo incontro con Emmy Goering a Monaco, in una «casa di ombre». Lei, «piccola regina di cuori in mezzo a carte troppo grosse, i re di spade», gli offre un tè, rito da «quiete borghese» se non fosse per alcuni particolari: «Mentre bevo il mio tè, guardo meglio la tazzina, il piatto, la zuccheriera, rivolto il piatto e m'accorgo di trovarmi tra le mani una gemma di Meissen. Malaparte avrebbe paragonato le due spadine incrociate all'azzurro di certe vene sottili sotto una carnagione pallida. Emmy sorride: lo guardi, lo guardi bene. È la sola cosa che ci è rimasta delle collezioni di Hermann. Lo presero per un qualunque vasellame di casa e lo lasciarono lì...». Lo si comprende ancor meglio, il suo rispetto per la nobiltà della sconfitta, dai resoconti dei colloqui a Tokyo nel 1966 con Moriaki Shimizu, rappresentante dell'armata imperiale a Roma durante la guerra, una figura che gli fa immaginare il vecchio Giappone come «una Prussia asiatica»: è Shimizu che gli racconta che i samurai salutandosi si dicevano tra loro "Ci rivediamo a Yasukuni Jinjya", il tempio shinto dei caduti in guerra: «Ora - racconta Shimizu - è proibito tributare al vecchio tempio un culto ufficiale. Il signore Macartur, sa quel grande gentiluomo e teologo di Far West, ha detto che tutta l'antica religione giapponese è falsa, proibito onorare il tempio... La Costituzione che gli americani ci hanno dato (io la chiamo la costituzione di Al Capone) vieta al Giappone di avere una religione ufficiale...». In quel tempio Buscaroli trascorre alcune ore, avvolto da «un'oasi silente, ritmata da portici». Dal soggiorno giapponese nascono, nelle memorie, l'omaggio all'ambasciatore Hidaka, cui Mussolini concesse la sua aultima udienza come primo ministro a mezzogiorno del 25 luglio, al generale Tomoyuki Yamashita, l'artefice della vittoria di Singapore impiccato a Manila come "criminale di guerra", allo scrittore Yukio Mishima: «Guai a chi nasce in ritardo o in anticipo. Sarà costretto a lottare vanamente contro il suo tempo, sprecherà il suo talento, romperà la spada a furia di sbatterla sulle rocce, sarà dannato e soccomberà. Mishima l'aveva capito. Perciò scelse di sopprimersi in qualche modo che equivalesse a gettare un seme».
Tra le tragedie della guerra e del dopoguerra l'autore riannoda i fili dei vinti del suo «larario privato». E fra tutti spiccano in particolare due geni vilipesi: Furtwängler e Pound. Il primo, sublime direttore dell'orchestra del Reich, sperimentò dopo la guerra «come la proclamazione, da parte dei vincitori, della responsabilità collettiva e totale dei vinti, altro non fosse se non la propaganda nazionalsocialista applicata a rovescio». Anima sensibili alle sofferenze dell'Occidente scriveva nei suoi appunti che ci sono uomini «scrocconi giocherellanti dell'uman genere, sfacciati, impudenti, cinici» che non sanno «che cosa fosse, che cosa ancora sia, l'Europa». L'Italia fu la prima nazione a riaprire i suoi teatri a Furtwängler che per la Rai diresse in dieci serate, dal 28 ottbre al 28 novembre 1953, l'Anello del Nibelungo. Buscaroli incontrò Pound a Ravenna nel 1966, insime a Olga Rudge: un «profeta vivente». «La testa candida di Pound scintillava di chiari riflessi di alluminio, il viso appariva seghettato, lavorato, benissimo inciso come gli anni non potrebbero soli, senza la mola del pensiero, il trapano della curiosità, il rovello dell'ira, del dolore... Richiamava alla mente certi tipi da Cappella Sistina, posture accigliate e rapaci appollaiate negli angoli, barbe aguzze, barbe fluenti, e bocche e mani in atto di ammonire, di benedire, di predire, di maledire». Nelle memorie di Buscaroli infine si rintraccia l'ingiustizia per la pietà negata a vittime ignorate, consegnate all'oblio, come i due milioni di russi che si trovarono nelle mani degli alleati occidentali alla fine della guerra e che furono riconsegnati ai sovietici dagli inglesi con un «incomparabile atto di viltà». Tra loro anche i Croati "restituiti" a Tito e la "nazione" cosacca emigrata che Churchill condannò all'estinzione. Prima del 1972 della loro sciagurata sorte non si seppe mai nulla.
Non è tuttavia la passione per la storia che conduce Buscaroli a riannodare queste vicende, ma quella per l'onestà intellettuale. I suoi maestri li elenca lui stesso: «Lorenzo Giusso, il Kulturkritiker d'ogni sapere, Ireneo Fuser l'organista, Ardengo Soffici e Giuseppe Prezzolini fino a Giovanni de Vergottini che m'inoculò diffidenza e sospetto per ogni storiografia che non fosse incardinata nel diritto; fino a Mario Praz, la linea delle epoche, il bello e il brutto, le cose, gli stili». Poi la "cotta" per Leo Longanesi che dirottò la sua incipiente carriera universitaria verso il giornalismo.
Da giornalista Buscaroli viaggia in Cecoslovacchia pochi giorni prima dell'invasione russa nell'agosto del '68: Praga gli appare «una città nera, aggrottata nell'angoscia di un'invasione ostile attesa di giorno in giorno», dove alloggia al «Solidarita, sciagurata costruzione di undici piani che si leva, in una selva di altre compagne di sventura, contro uno sfondo di fumanti ciminiere...» e dove riconosce «gli odori del Patto di Varsavia, un tanfo speciale tutto e soltanto comunista, non l'ordinaria sporcizia del resto del mondo». Per l'autore «la Cecoslovacchia è riuscita a trasformare la parte più amena della Boemia in un deserto malefico. Che i russi vengano a riempire questo deserto generato dall'odio e dalla stoltezza, mi appare una necessità, un atto di amara giustizia».
Da giornalista e direttore del Roma viene convocato dal ministro dell'Interno Paolo Emilio Taviani nel 1974 e dal quale apprende una rivelazione-choc: «Lei dovrebbe intendermi, dico che certe bombe, quelle attribuite alla sinistra, le abbiamo messe noi... noi ministero degli Interni. Mi capisce adesso?». Unita all'altra "confessione", altrettanto sconcertante, sull'inesistenza di un "pericolo fascista". Manovre dell'antica Dc, che fecero rumore quando Buscaroli le rivelò sul Giornale nel 1994, suscitando polemiche e smentite. Anche su questa disgraziata pagina di storia recente, vale il consiglio di Missiroli cui l'autore fa riferimento: «Non si può disturbare troppo i lettori. Non si può dire tutto. Ricorda, non sconcertare il lettore, non dargli di più di un'idea alla volta e, se possibile, neppure quella...». Ma leggendo Dalla parte dei vinti di idee ne affiorano tante, forse troppe, e non tutte benevole, di certo non consolatorie. Sono pagine che graffiano, che lacerano, che non si lasciano accantonare. Il che, a pensarci a bene, è la caratteristica dei libri destinati a restare nel tempo.
Annalisa Terranova è nata a Roma nel 1962, giornalista e scrittrice. Caposervizio al "Secolo d’Italia", è redattrice al mensile "Area" e collabora con varie testate. E' stata tra le fondatrici del Centro Studi Futura ed attiva nella rivista "Eowyn". Ha pubblicato (per le edizioni Settimo Sigillo), Planando sopra boschi di braccia tese ('96), saggio sul movimento giovanile del MSI, e Aspetta e spera che già l’ora si avvicina (2002), dedicato agli eventi di Alleanza Nazionale in rapporto alla svolta di Fiuggi e nel 2007 ha pubblicato Camicette nere. Donne di lotta e di governo da Salò ad Alleanza Nazionale (Mursia).

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