Dal Secolo d'Italia di martedì 23 marzo 2010
Teoria e tecnica della demolizione del diverso: laddove il diverso era il ragazzo di destra. Tutto il secondo Novecento è stato caratterizzato, in letteratura, da un gioco al massacro di una certa componente libertaria, irregolare e fuori schema. Il cliché del giovane violento, intollerante e lunare, espressione d'una subcultura marginale, ha inquinato l'ispirazione degli artisti, soddisfacendo al limite la superba smania di distruzione dei santi patroni dell'egemonia culturale. L'obbiettivo non era ovviamente il giovane liberale o moderato: "quella" destra, snob e ben istituzionalizzata, vellicava il due per cento, era l'espressione del distratto impegno di una minoranza di grandi professionisti. In quel caso davvero si poteva glissare. L'obiettivo era il giovane missino. E il giovane missino, quando e se appariva in un romanzo, era sempre un subumano. Un subumano o un antropoide sfortunato. Valgono in questo senso gli accenni ai fasci borgatari in Una vita violenta di Pasolini. Oppure gli accenni in Occidente di Ferdinando Camon.
Una delle poche eccezioni, ma tardiva, apparsa insomma nel 2003, è stata quella del credibile, stralunato, vero e ludico Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi, libro padre della fortunata traduzione cinematografica di Daniele Luchetti, Mio fratello è figlio unico. Pennacchi e Luchetti sono riusciti in un'impresa solo apparentemente elementare, considerati i precedenti: quella di normalizzare (umanizzare) i ragazzi di destra nati dopo il 1943. Umanizzare, sì. Per raccontare il clima culturale che ci siamo appena lasciati alle spalle, senza particolare rimpianto, possiamo tornare a sfogliare una dimenticata, ma non rimossa, opera prima. Si tratta de Il fascistibile (Bompiani, 1973, all'epoca lire 1800, in copertina: Automi repubblicani di George Grosz) dello scrittore e giornalista, ex Adn Kronos, Giulio Castelli, classe 1938. Il libro, leggiamo in quarta di copertina, finiva per «proporre una sorta di delirio plausibile, di estremo interesse letterario e sociologico»: insomma, un mezzo trattato di antropologia alla Nigel Barley, i destri come i Dowayo del Camerun. Perchè? Leggiamo ancora questa, sempre in quarta: «A livello psico-sociologico, il protagonista è incapace di cogliere qualche contraddizione nel suo sviluppo privato oppure in quello della collettività, e già questo basterebbe a renderlo un fascista inconsapevole. A livello culturale, la sua mente è ingombra di miti quali l'Aristocrazia, la Virilità, la Virtù in accezione arcaica, pagana, esoterica, greco-romana, cioè dei relitti degradati di una cultura tutta borghese e tramontata».
Insomma: la risposta alla «legittima e inquietante domanda di come si possa diventare fascisti» era chiara; si trattava per lo scrittore di un divertente mix di ignoranza, arcaismo, stupidità e borghesia. No, non parisiana, né longanesiana. Non è la borghesia elitaria, né quella paradossale e brillante delle vecchie zie. È quella gretta, conservatrice, meschinuccia, bottegaia. Quella che è difficile non disprezzare. Nessun accenno alla destra capace d'esser sintesi di cosmopolitismo, esotismo e nazionalismo; nessun accenno alla destra capace di innovare e rivoluzionare l'arte contemporanea; nessuna traccia dell'eredità di Malaparte, Pirandello, Maccari, Marinetti, D'Annunzio, Bottai, Rosai, Slataper, di Longanesi o di Mario Tobino, o al limite (almeno!) di Giuseppe Berto; nessun rispetto per chi accettava con orgoglio d'essere minoranza pur di difendere i suoi ideali, nel nome d'una patria pure da tutti condivisa; manco l'ombra del ricordo delle conquiste sociali, nemmeno il sospetto di quelle spirituali; neanche uno sbuffo di comunitarismo, neanche un sussurro d'altruismo. Così, ammettiamolo, era facile disintegrare i destri: la confusa macchia nera sembrava lo stimma della stupidità, e della prepotenza. La tecnica della distruzione della minoranza passava per la semplificazione, per la menzogna, per lo snaturamento della realtà, per l'omissione di tutto quel che poteva risultare sensato. Il fascistibile diventava il debosciato, il debole di identità, il vizioso, l'ultraviolento. Il fascistibile era tutto quello che amavi odiare. Riscopriamo, allora, l'avatar destro ideato e dipinto da Castelli. Sentite qua. Luca Visentin, da Schio, qualche goccia di sangue gotico o longobardo, un culto per l'antica grandezza romana, è un ragazzo confuso e ribelle. Vagheggia la repubblica platonica e il paradiso di Maometto allo stesso tempo. È uno che ama andare controcorrente. Un anticonformista. Un affamato di giustizia, senza grande autocontrollo. È angosciato dall'autodistruzione dell'umanità, e dalle catastrofi ecologiche. Tuttavia - incredibile - non crede nel paradiso in terra del filosofo-profeta Karl Marx. E questo è evidentemente imperdonabile. Se uno non crede in Carlo, è un bigotto o un qualunquista. E quando uno è qualunquista, è praticamente un fascista tout court. Nel senso peggiore.
Luca, studente fuoricorso di Lettere, si sente il simbolo di valori eterni: «Di un ritorno ciclico, da un momento di irrazionale disordine alla reintegrazione dell'ordine con tutti i suoi diritti». Crede nell'azione individuale. Crede di poter incarnare la giustizia. Una volta incarnata, sente di doverla esercitare, magari a bordo della sua moto. Broom. Nel pieno d'una cotta adolescenziale per Deila, e poi per Barbara, e poi per Diana, si scontra con le donne, sembra incapace di amarle davvero; al limite sa possederle, e non sempre, e in ogni caso non sa affascinarle. E poi non capisce il femminismo. E forse ha un po' il debole per i maschi, difficile capirlo. Vive da solo, e non ha mai preso ordini da nessuno. Quando si ritrova in mezzo a una rapina, mostra indifferenza ai banditi, per provocarli: ce le prende. Muso viola, labbro gonfio, tre denti spezzati. Qualcuno apprezza il suo eroismo, il suo spirito indipendente, il suo altruismo. Ma sono caratteristiche poco popolari, l'eroismo soprattutto.
Luca allora che fa, da bravo destro sinistrato? Va in palestra. Passa poco tempo e quei banditi vengono pizzicati, ma in tribunale le cose non vanno come dovrebbero, un avvocato riesce a umiliarlo. Il nostro amico rimedia un minimo di risarcimento, ma l'amarezza è grande. Amorazzi, e poi il grande passaggio dalla palestra al poligono di tiro di Tor di Quinto. Ci voleva, per squalificarlo, un po' di insensata passione per le armi. E ci voleva anche qualche battuta del genere: «Ammetteva che nella sua adolescenza c'erano state masturbazioni depressive, smanie da femmina, letture di Kafka. Ma dopo aveva incominciato a mettere nella sua libreria storie di samurai». Certo. Il registro scelto da Castelli era quello d'un entomologo, non dell'antropologo. E questo entomologo ogni tanto è miope, ogni tanto è daltonico. Diciamo così. Il tono è quando compassionevole, quando grottesco, quando umiliante. Sempre comunque caricaturale. L'ambizione di raccontare la storia di chi a suo dire non voleva essere identico alla maggioranza relativa dei suoi coetanei è encomiabile. Ma la voglia di farlo a forza di cliché è un'occasione perduta. Quattro anni più tardi di questo Il fascistibile, nel 1977, i missini che Castelli proprio non s'aspettava - due per tutti: il campano Generoso Simeone - professore di lettere e operatore culturale purtroppo scomparso - e il laziale Umberto Croppi, oggi brillante assessore alla Cultura della Giunta Alemanno, già protagonista della rinascita della Vallecchi - davano vita all'esperienza dei Campi Hobbit. Nata proprio per distruggere gli schemi precostituiti, tutti i cliché e i pregiudizi, insegnò l'arte della metapolitica a tanti ragazzi: giornalisti, scrittori, musicisti e operatori culturali di primo piano, oggi, allora dimostravano che certi luoghi comuni erano forse proprio castelli. Di sabbia.
Una delle poche eccezioni, ma tardiva, apparsa insomma nel 2003, è stata quella del credibile, stralunato, vero e ludico Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi, libro padre della fortunata traduzione cinematografica di Daniele Luchetti, Mio fratello è figlio unico. Pennacchi e Luchetti sono riusciti in un'impresa solo apparentemente elementare, considerati i precedenti: quella di normalizzare (umanizzare) i ragazzi di destra nati dopo il 1943. Umanizzare, sì. Per raccontare il clima culturale che ci siamo appena lasciati alle spalle, senza particolare rimpianto, possiamo tornare a sfogliare una dimenticata, ma non rimossa, opera prima. Si tratta de Il fascistibile (Bompiani, 1973, all'epoca lire 1800, in copertina: Automi repubblicani di George Grosz) dello scrittore e giornalista, ex Adn Kronos, Giulio Castelli, classe 1938. Il libro, leggiamo in quarta di copertina, finiva per «proporre una sorta di delirio plausibile, di estremo interesse letterario e sociologico»: insomma, un mezzo trattato di antropologia alla Nigel Barley, i destri come i Dowayo del Camerun. Perchè? Leggiamo ancora questa, sempre in quarta: «A livello psico-sociologico, il protagonista è incapace di cogliere qualche contraddizione nel suo sviluppo privato oppure in quello della collettività, e già questo basterebbe a renderlo un fascista inconsapevole. A livello culturale, la sua mente è ingombra di miti quali l'Aristocrazia, la Virilità, la Virtù in accezione arcaica, pagana, esoterica, greco-romana, cioè dei relitti degradati di una cultura tutta borghese e tramontata».
Insomma: la risposta alla «legittima e inquietante domanda di come si possa diventare fascisti» era chiara; si trattava per lo scrittore di un divertente mix di ignoranza, arcaismo, stupidità e borghesia. No, non parisiana, né longanesiana. Non è la borghesia elitaria, né quella paradossale e brillante delle vecchie zie. È quella gretta, conservatrice, meschinuccia, bottegaia. Quella che è difficile non disprezzare. Nessun accenno alla destra capace d'esser sintesi di cosmopolitismo, esotismo e nazionalismo; nessun accenno alla destra capace di innovare e rivoluzionare l'arte contemporanea; nessuna traccia dell'eredità di Malaparte, Pirandello, Maccari, Marinetti, D'Annunzio, Bottai, Rosai, Slataper, di Longanesi o di Mario Tobino, o al limite (almeno!) di Giuseppe Berto; nessun rispetto per chi accettava con orgoglio d'essere minoranza pur di difendere i suoi ideali, nel nome d'una patria pure da tutti condivisa; manco l'ombra del ricordo delle conquiste sociali, nemmeno il sospetto di quelle spirituali; neanche uno sbuffo di comunitarismo, neanche un sussurro d'altruismo. Così, ammettiamolo, era facile disintegrare i destri: la confusa macchia nera sembrava lo stimma della stupidità, e della prepotenza. La tecnica della distruzione della minoranza passava per la semplificazione, per la menzogna, per lo snaturamento della realtà, per l'omissione di tutto quel che poteva risultare sensato. Il fascistibile diventava il debosciato, il debole di identità, il vizioso, l'ultraviolento. Il fascistibile era tutto quello che amavi odiare. Riscopriamo, allora, l'avatar destro ideato e dipinto da Castelli. Sentite qua. Luca Visentin, da Schio, qualche goccia di sangue gotico o longobardo, un culto per l'antica grandezza romana, è un ragazzo confuso e ribelle. Vagheggia la repubblica platonica e il paradiso di Maometto allo stesso tempo. È uno che ama andare controcorrente. Un anticonformista. Un affamato di giustizia, senza grande autocontrollo. È angosciato dall'autodistruzione dell'umanità, e dalle catastrofi ecologiche. Tuttavia - incredibile - non crede nel paradiso in terra del filosofo-profeta Karl Marx. E questo è evidentemente imperdonabile. Se uno non crede in Carlo, è un bigotto o un qualunquista. E quando uno è qualunquista, è praticamente un fascista tout court. Nel senso peggiore.
Luca, studente fuoricorso di Lettere, si sente il simbolo di valori eterni: «Di un ritorno ciclico, da un momento di irrazionale disordine alla reintegrazione dell'ordine con tutti i suoi diritti». Crede nell'azione individuale. Crede di poter incarnare la giustizia. Una volta incarnata, sente di doverla esercitare, magari a bordo della sua moto. Broom. Nel pieno d'una cotta adolescenziale per Deila, e poi per Barbara, e poi per Diana, si scontra con le donne, sembra incapace di amarle davvero; al limite sa possederle, e non sempre, e in ogni caso non sa affascinarle. E poi non capisce il femminismo. E forse ha un po' il debole per i maschi, difficile capirlo. Vive da solo, e non ha mai preso ordini da nessuno. Quando si ritrova in mezzo a una rapina, mostra indifferenza ai banditi, per provocarli: ce le prende. Muso viola, labbro gonfio, tre denti spezzati. Qualcuno apprezza il suo eroismo, il suo spirito indipendente, il suo altruismo. Ma sono caratteristiche poco popolari, l'eroismo soprattutto.
Luca allora che fa, da bravo destro sinistrato? Va in palestra. Passa poco tempo e quei banditi vengono pizzicati, ma in tribunale le cose non vanno come dovrebbero, un avvocato riesce a umiliarlo. Il nostro amico rimedia un minimo di risarcimento, ma l'amarezza è grande. Amorazzi, e poi il grande passaggio dalla palestra al poligono di tiro di Tor di Quinto. Ci voleva, per squalificarlo, un po' di insensata passione per le armi. E ci voleva anche qualche battuta del genere: «Ammetteva che nella sua adolescenza c'erano state masturbazioni depressive, smanie da femmina, letture di Kafka. Ma dopo aveva incominciato a mettere nella sua libreria storie di samurai». Certo. Il registro scelto da Castelli era quello d'un entomologo, non dell'antropologo. E questo entomologo ogni tanto è miope, ogni tanto è daltonico. Diciamo così. Il tono è quando compassionevole, quando grottesco, quando umiliante. Sempre comunque caricaturale. L'ambizione di raccontare la storia di chi a suo dire non voleva essere identico alla maggioranza relativa dei suoi coetanei è encomiabile. Ma la voglia di farlo a forza di cliché è un'occasione perduta. Quattro anni più tardi di questo Il fascistibile, nel 1977, i missini che Castelli proprio non s'aspettava - due per tutti: il campano Generoso Simeone - professore di lettere e operatore culturale purtroppo scomparso - e il laziale Umberto Croppi, oggi brillante assessore alla Cultura della Giunta Alemanno, già protagonista della rinascita della Vallecchi - davano vita all'esperienza dei Campi Hobbit. Nata proprio per distruggere gli schemi precostituiti, tutti i cliché e i pregiudizi, insegnò l'arte della metapolitica a tanti ragazzi: giornalisti, scrittori, musicisti e operatori culturali di primo piano, oggi, allora dimostravano che certi luoghi comuni erano forse proprio castelli. Di sabbia.
Gianfranco Franchi è nato a Trieste nel 1978. Laureato in Lettere Moderne a Roma III, è scrittore, poeta, saggista, giornalista e consulente editoriale. Ma, soprattutto, è uno degli scrittori più fecondi e interessanti nel panorama letterario nazionale. Annovera, tra le sue numerose pubblicazioni, le due caustiche opere Pagano (Il Foglio Letterario, 2007) e Monteverde (Castelvecchi, 2009). Gestisce «Lankelot», uno dei più grandi siti letterari online.
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