Dal Secolo d'Italia di giovedì 11 marzo 2010
Era scritto a chiare lettere nelle tavole a fumetti di Benito Jacovitti che l'avremmo rimpianto, prima o poi. Che avremmo rimpianto la sua irriverenza e il suo disincanto surreale. A cominciare dalla sua ironia nei confronti di una certa politica. A differenza delle ideologie forti, a differenza anche del pensiero debole, la sua vocazione da irregolare aveva capito l'essenziale: che la partitocrazia cattocomunista, circondata da una cucciolata di piccoli partiti folkloristici e uggiolanti, avrebbe immancabilmente tradito e deluso gl'italiani, così come la volontà di potenza tra le due guerre, prima del grande ribaltone, li aveva lasciati in mutande. Jacovitti non fu un seguace ma un allegro eretico del qualunquismo, come Guglielmo Giannini, il fondatore dell'"Uomo qualunque", giornalista e commediografo, nonché portatore di monocolo, aveva battezzato una weltanschauung vecchia come il mondo. Ma Jacovitti, diversamente da Giannini, aveva capito l'essenziale anche della critica alla partitocrazia, cioè che costa più di quanto renda e che anche il qualunquismo, alla lunga, è politica. Non a caso Goffredo Fofi ha accostato Jacovitti agli scrittori che ci hanno spiegato la grande truffa italiana del secondo dopoguerra, «con occhio acutissimo e con più profonda saggezza di altri, troppo ideologici: Savinio, Alvaro, Brancati, Moravia, Flaiano». Ai quali potremmo aggiungere anche Leo Longanesi, Stefano Vanzina, Federico Fellini o Mino Maccari...
Come anche il grande Achille Campanile, come Giovanni Mosca, come Giovannino Guareschi, Jacovitti era sì un umorista ma anche un po' un filosofo. Erano gli anni dell'engagement, dell'impegno politico d'abord, di Jean-Paul Sartre e delle ideologie politiche tutte in spolvero, sciccose e lustrinate come sciantose, e anche Benito Jacovitti s'impegnò, ma nella direzione esattamente opposta a quella corrente: là dove tutti rivendicavano un'identità, lui mise ogni identità in burletta, senza salvarne nessuna, compreso il qualunquismo, di cui sbertucciò il linguaggio studiatamente osceno («Viva il fondatore dell'Uomo Qualunque! Viva le cloache massime! Viva Cambronne e la nettezza urbana!»)
Mentre gli altri sfilavano incolonnati, marciando al "passo di parata" e agitando bandiere come «gli abitanti di Flittburg, capitale della Flittonia» nel fumetto intitolato Pippo e il dittatore, Jacovitti viaggiava leggero. Non aveva bandiere da difendere, a parte i salami senzienti e le lische di pesce che si nascondevano nelle sue pagine come thugs dadaisti a caccia di vittime sacrificali, né sapeva marciare a "passo di parata". Disegnava, in compenso, grandi baffi su tutte le Gioconde. Suo padre, che l'aveva battezzato Benito, era certamente un fascista, ma lui nel 1940, quando cominciò a disegnare professionalmente, aveva meno di diciassette anni e già era più che fascista... un irregolare. Era cioè un qualunquista antemarcia. Con un'intera epoca storica in anticipo su Guglielmo Giannini, che fondò prima il settimanale L'Uomo qualunque e poi l'omonimo movimento politico solo alla fine del 1944, il giovane Jacovitti in realtà diffidava della politica fin dal 1940. Quando disegnò per il giornaletto cattolico il Vittorioso la storia di Pippo e gli inglesi, la prima avventura di Pippo, Pertica e Palla, già non riusciva a prendere sul serio nemmeno la guerra che era sul punto di scoppiare. Gli inglesi, che per la propaganda nazionalista erano da "stramaledire", nelle sue pagine figuravano come dei pupazzetti innocui, com'erano degl'innocui pupazzetti, sui quali ironizzare non meno che sugl'inglesi, anche i suoi eroi. Nelle storie del giovane Jacovitti, dove non c'erano ariani né ebrei, dove non c'era una sola parola che suonasse retorica o caramellosa, le apocalittiche e minacciose scempiaggini del conformismo dell'epoca non trovavano spazio, se non per essere messe alla berlina. Flitt, il dittatore di Flittonia, non salutava a braccio teso, come Hitler e Mussolini, e nemmeno a pugno chiuso come Stalin, ma facendo le corna, come un imbecille. E Baldus Gregorovius, «paladino di tutte le libertà», nemico giurato di Flitt, preparava per il «popul de Flittonia» un regime identico in tutto e per tutto, «passo di parata» e campi di concentramento compresi, a quello che voleva abbattere.
Come il qualunquismo generale del secondo dopoguerra, che prima di finire travolto dalla politica politicante, un giorno alleandosi con i monarchici e le vecchie barbe reazionarie, un altro giorno cercando il dialogo con Palmiro Togliatti, difese la parte tutto sommato meno ingenua e pecorona dell'opinione pubblica, anche Jacovitti dimostrò di saperla lunga, e di vedere lontano. È vero che anche tra le fila dei qualunquisti, in tempi d'epurazione e di giustizia sommaria, s'erano effettivamente rifugiati molti ex fascisti, come strillavano fingendo indignazione gli avversari di Giannini, per lo più politici e giornalisti invidiosi delle sue tirature e dei suoi successi parlamentari (giornalisti e politici che a loro volta avevano dato riparo a intere legioni di ex fascisti, mai per spirito d'umana solidarietà ma sempre ripromettendosene futuri vantaggi elettorali). C'erano fascisti e fascismo ovunque: l'Italia, dopotutto, era stata una potenza fascista solo fino a pochi mesi prima. Ma di fascista, nelle tavole del giovanissimo Benito Jacovitti, non c'era proprio nulla, qualunque cosa ne dica Goffredo Fofi nella prefazione a una straordinaria antologia che raccoglie, sotto un titolo che strizza l'occhio a Happy Xmas (War Is Over) di John Lennon, le storie del "primo Jacovitti" da noi conosciuto: Eia Eia Baccalà. La guerra è finita (Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, pp. 181, € 23,00).
C'era magari qualche banalità imparata a scuola, come ci si può aspettare da uno studente che avrebbe dato la maturità soltanto due anni più tardi, ma era soprattutto a queste banalità che Jacovitti (una specie di "giovane Holden" dell'Italia che usciva dalla guerra mondiale per entrare nei labirinti senza fine della guerra civile) non portava rispetto. Non c'era niente di sacro, né di serio, tanto meno la politica salvifica dei partiti che si contendevano il dominio delle anime, per l'autore di Battista l'ingenuo fascista, fumetto smagato, anch'esso molto in anticipo sui tempi. Niente gli metteva paura, nemmeno «gli aerei ciccioni da bombardamento», che nella prima tavola di Pippo e la pace, una storia del 1945, «stanno per raggiungere la capitale di Topagna». Pippo e la pace, seguito d'una storia intitolata Pippo e la guerra, è un fumetto divertente anche se il suo tema non è la pace, naturalmente, ma la guerra; e non una guerra di fantasia, come nei fumetti sulla guerra mondiale che avrebbero invaso, qualche anno più tardi, tutte le edicole, ma la guerra vera, anche troppo, una guerra totale, per di più ancora in corso, compresi gli "aerei ciccioni da bombardamento" in volo sopra tutte le capitali dell'est e dell'ovest, a perdita d'occhio. «Sarà stato un caso - annota comunque Fofi nell'introduzione del libro - se quando riempivamo albi con la collezione di figurine jacovittiane quella più introvabile era "Battista il fascista", da non confondere con quella molto comune di un altro Battista venuto da un'altra storia, "Battista l'aiuto regista"? Il messaggio era chiaro: in un paese dove, almeno in cent'anni, ben pochi erano stati gli antifascisti, ora tutti lo erano e di fascisti non c'era più traccia. Il povero Battista, che capisce sempre troppo tardi dove gira il vento e di conseguenza si mette sempre nei guai, è una vittima delle situazioni e della Storia. Come milioni di altre opersone, in tutto il mondo ex belligerante, sa che nell'aria è rimasta, con la guerra fredda, la paura che una terza se ne prepari, definitiva in quanto atomica...». È il momento storico in cui, raccontava Corrado Alvaro nei suoi diari, nei tempi di carestia e di confusione sociale dell'immediato dopoguerra comparve a Roma la scritta murale "Aridatece ed puzzone", e diventò comune dire che "si stava neglio quando si stava peggio". Un clima raccontato anche al cinema con film di successo come Abbasso la miseria con Anna Magnani e La vita ricomincia con la Valli, Vivere in pace con Aldo Fabrizi, Accidenti alla guerra con Nino Taranto o Come persi la guerra con Erminio Macario, «film più popolari che intellettuali - spiega Fofi - e con un'aura assai vicina a Jacovitti».
Jacovitti comunque fece anche politica a modo suo. Nel '48 realizzò manifesti elettorali per i comitati civici contro le sinistre del Fronte popolare; poi disegnò anche una vignetta per la campagna elettorale del Msi su richiesta del segretario Arturo Michelini, che lui creò gratuitamente, magari per rispetto verso suo padre, missino convinto. Poi, non vennne compreso da Palmiro Togliatti, che arrivò a bollarlo in piena Camera dei deputati come nemico del popolo, per il solo fatto di aver disegnato un mazzo di carte con i baffi di Stalin al posto delle spade.
All'epoca non si parlava ancora, come oggi, di "pensiero condiviso" circa la natura dei conflitti ideologici, anche se fu allora, quando molti ex fascisti, volere o volare, dovettero cambiare cavallo, che se ne posero le basi. Jacovitti, giudicandolo dalle sue tavole, non doveva avere simpatia per questo modo, tutto ideologico, di vedere le cose (nessuno rinuncia alla propria identità e tutti insieme, tenendosi per mano, proclamano in coro una verità comune, di solito involontariamente comica). Agli occhi di Jacovitti l'ideologia, quale che fosse, quella dei vinti come quella dei vincitori, era pappa di gesso, e se ne prendeva ferocemente gioco. Jacovitti non si lasciava incantare dalle autocritiche né dalle esaltazioni reciproche. Rubricava tutte queste penose metamorfosi dell'ideologia alla voce "Eia Eia baccalà". O alla voce "raglia, raglia, giovane Itaglia", che gli costò la sospensione del fumetto antipolitico a puntate che gli era stato commissionato da Linus, il giornalino del Sessantotto caviar.
Come anche il grande Achille Campanile, come Giovanni Mosca, come Giovannino Guareschi, Jacovitti era sì un umorista ma anche un po' un filosofo. Erano gli anni dell'engagement, dell'impegno politico d'abord, di Jean-Paul Sartre e delle ideologie politiche tutte in spolvero, sciccose e lustrinate come sciantose, e anche Benito Jacovitti s'impegnò, ma nella direzione esattamente opposta a quella corrente: là dove tutti rivendicavano un'identità, lui mise ogni identità in burletta, senza salvarne nessuna, compreso il qualunquismo, di cui sbertucciò il linguaggio studiatamente osceno («Viva il fondatore dell'Uomo Qualunque! Viva le cloache massime! Viva Cambronne e la nettezza urbana!»)
Mentre gli altri sfilavano incolonnati, marciando al "passo di parata" e agitando bandiere come «gli abitanti di Flittburg, capitale della Flittonia» nel fumetto intitolato Pippo e il dittatore, Jacovitti viaggiava leggero. Non aveva bandiere da difendere, a parte i salami senzienti e le lische di pesce che si nascondevano nelle sue pagine come thugs dadaisti a caccia di vittime sacrificali, né sapeva marciare a "passo di parata". Disegnava, in compenso, grandi baffi su tutte le Gioconde. Suo padre, che l'aveva battezzato Benito, era certamente un fascista, ma lui nel 1940, quando cominciò a disegnare professionalmente, aveva meno di diciassette anni e già era più che fascista... un irregolare. Era cioè un qualunquista antemarcia. Con un'intera epoca storica in anticipo su Guglielmo Giannini, che fondò prima il settimanale L'Uomo qualunque e poi l'omonimo movimento politico solo alla fine del 1944, il giovane Jacovitti in realtà diffidava della politica fin dal 1940. Quando disegnò per il giornaletto cattolico il Vittorioso la storia di Pippo e gli inglesi, la prima avventura di Pippo, Pertica e Palla, già non riusciva a prendere sul serio nemmeno la guerra che era sul punto di scoppiare. Gli inglesi, che per la propaganda nazionalista erano da "stramaledire", nelle sue pagine figuravano come dei pupazzetti innocui, com'erano degl'innocui pupazzetti, sui quali ironizzare non meno che sugl'inglesi, anche i suoi eroi. Nelle storie del giovane Jacovitti, dove non c'erano ariani né ebrei, dove non c'era una sola parola che suonasse retorica o caramellosa, le apocalittiche e minacciose scempiaggini del conformismo dell'epoca non trovavano spazio, se non per essere messe alla berlina. Flitt, il dittatore di Flittonia, non salutava a braccio teso, come Hitler e Mussolini, e nemmeno a pugno chiuso come Stalin, ma facendo le corna, come un imbecille. E Baldus Gregorovius, «paladino di tutte le libertà», nemico giurato di Flitt, preparava per il «popul de Flittonia» un regime identico in tutto e per tutto, «passo di parata» e campi di concentramento compresi, a quello che voleva abbattere.
Come il qualunquismo generale del secondo dopoguerra, che prima di finire travolto dalla politica politicante, un giorno alleandosi con i monarchici e le vecchie barbe reazionarie, un altro giorno cercando il dialogo con Palmiro Togliatti, difese la parte tutto sommato meno ingenua e pecorona dell'opinione pubblica, anche Jacovitti dimostrò di saperla lunga, e di vedere lontano. È vero che anche tra le fila dei qualunquisti, in tempi d'epurazione e di giustizia sommaria, s'erano effettivamente rifugiati molti ex fascisti, come strillavano fingendo indignazione gli avversari di Giannini, per lo più politici e giornalisti invidiosi delle sue tirature e dei suoi successi parlamentari (giornalisti e politici che a loro volta avevano dato riparo a intere legioni di ex fascisti, mai per spirito d'umana solidarietà ma sempre ripromettendosene futuri vantaggi elettorali). C'erano fascisti e fascismo ovunque: l'Italia, dopotutto, era stata una potenza fascista solo fino a pochi mesi prima. Ma di fascista, nelle tavole del giovanissimo Benito Jacovitti, non c'era proprio nulla, qualunque cosa ne dica Goffredo Fofi nella prefazione a una straordinaria antologia che raccoglie, sotto un titolo che strizza l'occhio a Happy Xmas (War Is Over) di John Lennon, le storie del "primo Jacovitti" da noi conosciuto: Eia Eia Baccalà. La guerra è finita (Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, pp. 181, € 23,00).
C'era magari qualche banalità imparata a scuola, come ci si può aspettare da uno studente che avrebbe dato la maturità soltanto due anni più tardi, ma era soprattutto a queste banalità che Jacovitti (una specie di "giovane Holden" dell'Italia che usciva dalla guerra mondiale per entrare nei labirinti senza fine della guerra civile) non portava rispetto. Non c'era niente di sacro, né di serio, tanto meno la politica salvifica dei partiti che si contendevano il dominio delle anime, per l'autore di Battista l'ingenuo fascista, fumetto smagato, anch'esso molto in anticipo sui tempi. Niente gli metteva paura, nemmeno «gli aerei ciccioni da bombardamento», che nella prima tavola di Pippo e la pace, una storia del 1945, «stanno per raggiungere la capitale di Topagna». Pippo e la pace, seguito d'una storia intitolata Pippo e la guerra, è un fumetto divertente anche se il suo tema non è la pace, naturalmente, ma la guerra; e non una guerra di fantasia, come nei fumetti sulla guerra mondiale che avrebbero invaso, qualche anno più tardi, tutte le edicole, ma la guerra vera, anche troppo, una guerra totale, per di più ancora in corso, compresi gli "aerei ciccioni da bombardamento" in volo sopra tutte le capitali dell'est e dell'ovest, a perdita d'occhio. «Sarà stato un caso - annota comunque Fofi nell'introduzione del libro - se quando riempivamo albi con la collezione di figurine jacovittiane quella più introvabile era "Battista il fascista", da non confondere con quella molto comune di un altro Battista venuto da un'altra storia, "Battista l'aiuto regista"? Il messaggio era chiaro: in un paese dove, almeno in cent'anni, ben pochi erano stati gli antifascisti, ora tutti lo erano e di fascisti non c'era più traccia. Il povero Battista, che capisce sempre troppo tardi dove gira il vento e di conseguenza si mette sempre nei guai, è una vittima delle situazioni e della Storia. Come milioni di altre opersone, in tutto il mondo ex belligerante, sa che nell'aria è rimasta, con la guerra fredda, la paura che una terza se ne prepari, definitiva in quanto atomica...». È il momento storico in cui, raccontava Corrado Alvaro nei suoi diari, nei tempi di carestia e di confusione sociale dell'immediato dopoguerra comparve a Roma la scritta murale "Aridatece ed puzzone", e diventò comune dire che "si stava neglio quando si stava peggio". Un clima raccontato anche al cinema con film di successo come Abbasso la miseria con Anna Magnani e La vita ricomincia con la Valli, Vivere in pace con Aldo Fabrizi, Accidenti alla guerra con Nino Taranto o Come persi la guerra con Erminio Macario, «film più popolari che intellettuali - spiega Fofi - e con un'aura assai vicina a Jacovitti».
Jacovitti comunque fece anche politica a modo suo. Nel '48 realizzò manifesti elettorali per i comitati civici contro le sinistre del Fronte popolare; poi disegnò anche una vignetta per la campagna elettorale del Msi su richiesta del segretario Arturo Michelini, che lui creò gratuitamente, magari per rispetto verso suo padre, missino convinto. Poi, non vennne compreso da Palmiro Togliatti, che arrivò a bollarlo in piena Camera dei deputati come nemico del popolo, per il solo fatto di aver disegnato un mazzo di carte con i baffi di Stalin al posto delle spade.
All'epoca non si parlava ancora, come oggi, di "pensiero condiviso" circa la natura dei conflitti ideologici, anche se fu allora, quando molti ex fascisti, volere o volare, dovettero cambiare cavallo, che se ne posero le basi. Jacovitti, giudicandolo dalle sue tavole, non doveva avere simpatia per questo modo, tutto ideologico, di vedere le cose (nessuno rinuncia alla propria identità e tutti insieme, tenendosi per mano, proclamano in coro una verità comune, di solito involontariamente comica). Agli occhi di Jacovitti l'ideologia, quale che fosse, quella dei vinti come quella dei vincitori, era pappa di gesso, e se ne prendeva ferocemente gioco. Jacovitti non si lasciava incantare dalle autocritiche né dalle esaltazioni reciproche. Rubricava tutte queste penose metamorfosi dell'ideologia alla voce "Eia Eia baccalà". O alla voce "raglia, raglia, giovane Itaglia", che gli costò la sospensione del fumetto antipolitico a puntate che gli era stato commissionato da Linus, il giornalino del Sessantotto caviar.
Diego Gabutti è nato e vive a Torino. Già redattore al Giornale e al Giorno, ha collaborato e collabora con diverse testate tra cui il Secolo d'Italia. E' autore di due romanzi - Un'avventura di Amedeo Bordiga e Pandemonium (entrambi editi da Longanesi) - e di C'era una volta in America (Rizzoli), saggio-romanzo sul cinema di Sergio Leone, e Millennium. Da Erik il Rosso al cyberspazio. Avventure filosofiche e letterarie degli ultimi dieci secoli (Rubettino)
2 commenti:
La mia conoscenza del grande Jacovitti risale alla seconda metà degli anni '60: dalla prima o dalla seconda elementare il diario di scuola, credo agli inizi scelto da mio padre, fu il famosissimo Diario Vitt.
Gli impegni giornalieri del bravo e diligente alunno Giovanni Fonghini della scuola Elementare E. De Amicis di Viterbo erano accompagnati dalle gustose vignette dell'amico Jacovitti.
Salami tagliati a metà con le gambe, strani lombrichi con il cappellino, altri strani animali, il mitico cowboy Cocco Bill...insomma sussidiario e fumetti.
Da allora il Diario Vitt ha seguito per tanti anni la mia vita di scolaro, forse anche alle medie.
Con il sistema dello scambio ho letto in quegli anni una montagna di giornalini a fumetti e Jacovitti ha contribuito anche lui ad accrescere il mio amore per questi (tempo fa proprio su questo blog commentavo Alan Ford, Max e Bunker, altri grandi personaggi e autori del settore).
Jacovitti era un grande perchè nelle sue vignette satiriche non c'erano mai cattiveria e immagini fuori luogo.
Lui ad esempio, come Vincino dopo il terremoto dell'Aquila dell'aprile scorso,
non avrebbe mai fatto una vignetta con delle bare e testi che accennavano ai tanti morti.
Jacovitti ironizzava sui costumi dell'italiano medio, se vogliamo un pò come Sordi faceva nei suoi film, sempre con una ironia buona, pungente certo, non crudele.
Un titolo emblematico per tutti: EJA EJA BACCALA'; una presa in giro efficace dell'uomo nuovo che sarebbe dovuto nascere dalla "forgia fascista".
Ma gli italici vizi e le cattive inveterate secolari abitudini furono più forti del sogno dell'altro Benito, che sulle ceneri mai spente della romanità,pensò di creare una Italia nuova e nuovi italiani.
Viterbo, 16 Marzo '10
Giovanni Fonghini
Mi ricordo il fumetto jacovitti, erano i primi anni 60 e io ero ragazzo,mio fratello acquistava il giornale A B C e all interno delle pagine vi era il mio fuemntto preferito
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