Nel crepuscolo della repubblica, tra fantasmi reali o temuti di Hitler e Kerensky, una speranza viene dai giovani, che da sabato presidiano le piazze, picchetti spontanei della Costituzione; e dal ritrovarsi di molti adulti nelle figure di due scrittori politici coetanei (1910) che fin dall’inizio contestarono il concepimento contro natura di una repubblica metà sovietica e metà papalina. Aggrappati alla trincea laica della liberaldemocrazia e del radicalismo progressista, che resisteva tra quelle due metà, e tentava di condizionarle con sortite audaci e un po’ disperate, i due scrittori del secondo dopoguerra erano diversi fra loro: Ennio Flaiano il demolitore caustico («Il fascismo si divide in due correnti, i fascisti e gli antifascisti») e Mario Pannunzio il centrista anglosassone, costruttore di un’alternativa che sembrava follia: rompere il “blocco sovietico” in Italia staccando i socialisti dai comunisti e portarli nel blocco di governo, che perciò stesso avrebbe perso le stimmate dell’egemonia clericale.
Un’audacia paragonabile, per tempra morale, a quella che un secolo prima aveva concepito il nostro Risorgimento (Il Mondo di Pannunzio nacque nel 1949, giusto cent’anni dopo la sconfitta di Carlo Alberto nella “brumal Novara” e l’eroica riaffermazione dello Statuto piemontese, unica costituzione liberale rimasta in Europa).
È corretto che la storia della terza forza laica, coaugulata da Pannunzio nella trincea del Mondo e dei suoi “convegni” programmatici, e quella del suo risultato che fu l’apertura a sinistra, parta dall’esatta descrizione dello scrittore senese: che non fu solo un «precursore di una politica postideologica», come scrive Il Secolo d’Italia in due fitte pagine di Roberto Alfatti Appetiti (“Anche noi rivendichiamo quel Mondo”), ma lo fu perché era integralmente antitotalitario.
È questa perduta categoria dell’“antitotalitario” che stamattina Massimo Teodori spiegherà e che testimonieranno Antonio Maccanico, presidente dell’anno pannunziano, e Nello Ajello, collaboratore del Mondo, dopo l’introduzione di Gianfranco Fini: che ha voluto l’incontro pubblico nella Sala della Lupa.
Spiegherà la definizione che di Pannunzio dette Vittorio Gorresio, anche lui venuto dal primo trust di cervelli “pannunziani” Risorgimento Liberale (1945-49): «Intransigentemente anticomunista in nome della libertà, intransigentemente antifascista in nome dell’intelligenza, intransigentemente anticlericale in nome della ragione».
Il Mondo dura diciassette anni, dal 1949, dopo la vittoria assoluta della Dc il 18 aprile, al 1966, vigilia della “contestazione giovanile”. L’idea del settimanale matura nel fuoco dello “scontro di civiltà” del 18 aprile, quando lo scrittore si dedica ad animare il Manifesto anticomunista “Europa cultura e libertà” dei liberali Croce e Einaudi, del repubblicano Parri, del socialista democratico Silone e del cattolico Gaetano De Sanctis, uno dei dodici professori che avevano rinunciato alla cattedra per non giurare fedeltà a Mussolini. Si delineava così quel blocco culturale fuori di tutte le chiese (anche di quella del vecchio partito liberale) che si contrapporrà al blocco degli intellettuali organici del Pci, e farà di Pannunzio, dice Teodori, «ciò che Albert Camus era in Francia rispetto a Jean-Paul Sartre». Donde l’Associazione italiana per la cultura, di Silone e Chiaromonte, espressione dell’internazionale antitotalitaria di Dewey, Russell, Jaspers, Orwell, Huxley, Maritain, Koestler, Aron, Schlesinger, Croce, Arendt.
«Non a caso il primo articolo di Croce sul Mondo fu una recensione al 1984 di Orwell: il libro di riferimento alla critica antitotalitaria dell’Urss».
Ma di quell’anticomunismo, come dell’antifascismo e dell’anticlericalismo, Il Mondo diede un’interpretazione liberale, così come del liberalismo offriva la versione anglosassone. Il dibattito sul comunismo (non sui comunisti, di cui riconosceva la passione), lo affidò a uomini di sinistra, Calamandrei, Rossi, Jemolo, Silone, Valiani, Salvemini. Allo stesso modo, distinguendo fra i cattolici e il totalitarismo ecclesiastico di larga parte delle gerarchie, faceva luce innanzitutto sull’imbroglio lessicale inventato da queste, che «chiamano laicista tutto ciò che semplicemente è laico e chiamano laico quel che rientra nell’orizzonte accettato dalla gerarchia». Idee cartesiane, chiare e distinte: dunque il rifiuto di far blocco coi comunisti in funzione antifascista (Cln), coi fascisti in funzione anticomunista (operazione Sturzo), coi clericali in difesa del centrismo degasperiano (Gedda). Centrismo in cui credette fino a sostenere nel 1953 un premio di maggioranza sproporzionato (“legge truffa”), nella speranza di renderlo autosufficiente rispetto alle crescenti opposizioni socialcomunista e monarcomissina. Fu quello il primo errore dei laici di terza forza, che indebolirono il centrismo per renderlo troppo forte. Il secondo fu, di fronte alla necessità di trasformare il centro, ormai indebolito, in un più largo centrosinistra, la supervalutazione della conversione riformista dei socialisti dopo la rivoluzione ungherese del 1956. Il centrosinistra, cioè la collaborazione col partito di Nenni, Lombardo, Pertini, Basso, Pieraccini (cui aveva già “aperto” L’Espresso di Benedetti e di Scalfari, nato nel 1955), da noi non passò le acque in una Bad Godesberg socialdemocratica; e così il centrosinistra non si depurò mai dalla componente massimalista, che finiva col favorire il Pci e la destra: fino a quando il Psi stesso subì la modificazione genetica del craxismo, che lottava per una terza forza di governo non programmatica, com’era stata quella di Pannunzio, ma pragmatica e di potere. Al punto da scivolare in tangentopoli e nel berlusconismo. Eppure Craxi s’era posto nella scia di Pannunzio, proclamando (1976): «Il socialismo non è la distruzione della democrazia liberale. Esso accoglie del liberalismo l’ispirazione antistatalista e antiburocratica, e la sviluppa andando oltre il liberalismo stesso ». Parole che, se non restano parole, possono essere riprese oggi dal Partito democratico.
Federico Orlando
Nessun commento:
Posta un commento