martedì 16 marzo 2010

Ma non distruggete il mito di Jimi Hendrix con troppi ricicli (Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 14 marzo 2010
Povero Jimi, benedetto da un talento smisurato che gli ha permesso di suonare con una forza inarrestabile che faceva sembrare irrisoria qualsiasi impresa, e maledetto da un destino ottuso che gli ha imposto una vita troppo breve e una morte troppo stupida. Povero Jimi che dopo la sua scomparsa, avvenuta il 18 settembre 1970 a Londra, è stato trasformato in un marchio commerciale da stampigliare ovunque, come se il sigillo della sua ricchissima Banca delle Note Elettriche bastasse a trasformare qualsiasi foglietto di carta in banconote di grosso taglio. Jimi amava le jam-session, convinto che la musica fosse qualcosa che puoi afferrare solo correndo, e le registrava spessissimo, consapevole che le buone idee possono arrivare all’improvviso e che non è il caso di fermarsi a memorizzarle, visto che potrebbero essere a loro volta le avvisaglie (le avanguardie) di altre idee non solo buone ma addirittura eccellenti.
Per lui erano solo tentativi, da accumulare senza troppe pretese e da accantonare senza nessuna remora. Appunti messi giù in fretta, o addirittura scarabocchiati, in attesa di riconsiderarli con calma e di vedere se, tra tutto quello che era venuto fuori, c’era qualcosa che meritasse di essere conservato. Riversato in un brano compiuto. Registrato in un disco completo. Per quelli che ci si sono avventati dopo la sua scomparsa, invece, ognuno di quei nastri era un’ipotesi di guadagno. Ogni nota era una cifra da aggiungere alla colonna dei possibili profitti. Il fascino degli inediti. L’equivoco degli inediti. Non sono quasi mai dei capolavori perduti. Per lo più sono solo dei lavori in corso, che nessuna persona sensata e in buona fede dovrebbe sovraccaricare di valore e di significato. Un abbozzo non è un’opera d’arte un po’ più breve. E le opere d’arte non vanno confuse coi reperti. Né i musei con le case d’aste. Christie’s può mettere all’incanto le scarpine di Marilyn Monroe e trovare il fesso che se le compra. Ma la chitarra di Jimi, senza che ci sia lui a suonarla, è solo un feticcio che ha perso il suo potere. Il totem di un dio che se ne è andato per sempre. Le formule magiche devono essere intere, per dispiegare i loro effetti. Altrimenti sono solo parole vuote. Forse suggestive. Certo inconcludenti.
La vera e imperdibile discografia di Jimi Hendrix è quella che ha curato egli stesso. E che si riduce ai primi tre album di studio: Are You Experienced?, Axis: Bold As Love ed Electric Ladyland. Il resto, con l’eccezione di alcune registrazioni dal vivo, è da prendere più come una documentazione da consultare che come una rivelazione alla quale inchinarsi. Qualcosa in più rispetto al nulla di una parabola che si è spezzata anzitempo, lasciando irrealizzate così tante aspettative. Molto in meno rispetto a quello che avrebbe potuto sopravvenire se la sua vita, e la sua vicenda artistica, fossero proseguite per il tempo necessario a completare l’esplorazione delle loro straordinarie potenzialità.
Poco prima di morire, Hendrix parlò dei suoi programmi per l’avvenire in un’intervista che venne pubblicata dal Melody Maker. «Penso che questa era musicale, aperta dai Beatles, sia giunta alla fine. Qualcosa di nuovo è all’orizzonte e io ci sarò. Voglio suonare di meno la chitarra ed essere piuttosto il regista di un progetto globale. Penso a una big band, ma non nel senso di tre arpe e quattordici violini; piuttosto di un’orchestra di musicisti competenti, che io possa dirigere e per cui possa scrivere. E con la musica dipingeremo immagini della terra e dello spazio. Porteremo lontano chi ci ascolta.» Eccolo, il futuro che non ha mai avuto luogo e che nessuna incisione postuma potrà mai surrogare. Benché fosse un chitarrista straordinario, che è considerato tuttora un esempio insuperato (e non solo in ambito rock), Hendrix non pensava a sé stesso come a un virtuoso ma come a un compositore. La tecnica non aveva alcun senso, intesa come abilità manuale e sfoggio di destrezza. La tecnica era solo il mezzo attraverso il quale ci si appropria delle possibilità insite in un determinato strumento. Oppure, rovesciando la prospettiva, il percorso attraverso cui ci si libera dei propri limiti. E infine, alle estreme conseguenze, del proprio legame con lo strumento nel quale pure si eccelle. La massima padronanza deve essere un presupposto di libertà, non di dipendenza. Come ha ricordato John Morthland, di Rolling Stone, «lui viveva in uno stato di perenne frustrazione e nelle interviste parlava spesso dei suoni che sentiva nella sua mente ma che non riusciva ancora a ottenere».
Può sembrare incredibile. A osservarlo nei filmati dei concerti l’impressione è opposta. È quella di un uomo che si è lasciato alle spalle qualsiasi dubbio e qualsiasi esitazione, se mai li ha avuti. La facilità con cui le sue mani si muovono lascia attoniti, ancora più che ammirati. Persino i migliori, come lo fu Stevie Ray Vaughan, fanno cose meravigliose e con totale sicurezza, ma non con quella mancanza assoluta di sforzo. Gli altri paiono comunque aver bisogno di concentrarsi in quello che stanno facendo. Hendrix sembra capace di spigionare qualsiasi nota, e qualsiasi effetto, con la facilità di un respiro. «Come riuscisse a fare tanto – ha confessato Mike Bloomfield, che era tutt’altro che un principiante – avrei davvero voluto capirlo. Mi puntò la sua chitarra dritta in mezzo agli occhi, e non volli più impugnare la mia per almeno un anno.»
La storia, insomma, era già diventata leggenda mentre ancora si stava svolgendo. E in seguito non ha potuto non ingigantirsi ulteriormente, fino a sconfinare nel mito. Ai primi album se ne sono aggiunti molti altri, in un guazzabuglio di versioni alternative di pezzi già noti, di esecuzioni dal vivo e di brani incisi, sì, ma messi da parte, e non esattamente per caso. Valley of Neptune è solo l’ultimo episodio di questo ripescaggio incessante e non proprio disinteressato. Certamente non il peggiore. Ma neppure così importante come si affanna a sostenere il battage pubblicitario. Sono solo sequenze collaterali di un film che è già stato girato, e chiuso, e visto, tanto tempo fa. È solo la coda della cometa, che brilla grazie all’oscurità circostante ma che non può certo invertire la sua traiettoria e tornare a risplendere come nei giorni migliori.

Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini

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