sabato 20 marzo 2010

Soldato blu, dalla parte degli indiani (Marco Iacona)

Articolo di Marco Iacona
Dal Secolo d'Italia di sabato 13 marzo 2010
L’atmosfera è forse da vicenda hippy con qualche chiazza un po’ osé, ma siamo fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, quando il Vietnam è già diventato la cattiva coscienza degli americani che sognano la libertà, la pace e con esse due grandi “ritorni”: quello alla natura e quello dello spirito. E null’altro meglio della cultura indiana – lo sappiamo bene – è in grado di rappresentare quelle comunità dello spirito che si contrappongono agli stili di vita (e di morte) dei cittadini occidentali. Parliamo di un film mai passato di moda sugli indiani d’America – Soldato blu (Soldier Blue) – che quest’anno compie quarant’anni e che nei Settanta si poteva considerare il non plus ultra dell’alternativo. Il film che ha inaugurato un modo di fare letteratura cinematografica diverso dal consueto perché sensibile alle vicende degli sconfitti (in questo caso degli indiani), che non hanno mai potuto raccontare una storia veramente degna di questo nome. Soldato blu tratta infatti la questione del rapporto fra colonizzatori stelle-e-strisce e colonizzati amerindi schierandosi dalla parte di questi ultimi (o meglio: non presentandoli com’era quasi sempre stato fino a quel momento come dei barbari guerrafondai) e con esso ovviamente il terna della prepotenza e degli abusi fisici e morali, delle ragioni dei deboli spesso oscurare, equivocate o distorte, e addirittura del fascino delle cultura cosiddette “primitive” ma in realtà orgogliosamente libere e pacifiche.
Un tema eterno e universale, dopotutto, ripreso in una sostanza non troppo diversa (cambiano luoghi e personaggi ovviamente, ma il significato rimane quello), sia dal film del 1988 di John Milius Addio al re, fra i più significativi e ricordati del regista di St. Louis, ma anche dall’ultramoderno Avatar, in questi giorni nella sale cinematografiche italiane. Come a dire che ieri, oggi e poi nel 2154 dopo Cristo (periodo nel quale è ambientato il film di James Cameron) è ancora possibile stare dalla parte delle culture libere che si oppongono alla violenza e allo sfruttamento qualunque essi siano. Ci sarà sempre qualcuno insomma a raccontarci che il diritto di vivere in armonia e di opporsi alle brutalità dei conquistatori è fra i più nobili che ci siano... Possiamo allora dire senza tema di smentita che Soldato blu e con esso libri come Seppellite il mio cuore a Wounded Knee dello storico Dee Brown (il titolo è ispirato al luogo di un massacro indiano nel dicembre del 1890), e pellicole western che di solito vengono affiancate a Soldato blu, come Un uomo chiamato cavallo con Richard Harris e Il piccolo grande uomo con Dustin Hoffman (anche questo uscito proprio in quel 1970), non hanno seminato nel vuoto anche perché, fin dagli anni Sessanta, è parsa in netta ascesa la sensibilità verso i racconti biografici e i destini spesso orribili dei nativi d’America.
C’è da ricordare per esempio l’episodio della consegna del premio Oscar del 1973 al miglior attore, alla quale assistettero milioni di spettatori. E il vincitore (vincitore per la seconda volta dopo Fronte del porto), era Marlon Brando per Il padrino di Francis Ford Coppola. Il noto attore decise però di rinunciare al suo premio per protesta e per solidarietà a favore dei nativi d’America, avendo il coraggio di denunciare per bocca di una giovane attrice apache certo razzismo hollywoodiano. In quei giorni era anche in corso una rivolta indiana contro il governo americano proprio a Wounded Knee… Tutto ciò accadeva all’interno della nobile cultura anticonformista che in alcune sue pagine svalutava certo indiscriminato e luccicante progressismo a vantaggio delle minoranze indiane, umiliate e private dei loro diritti fondamentali.
Anche lo spunto per il nostro Soldato blu viene da un massacro indiano, datato questo novembre 1864, quando settecento cavalleggeri americani attaccarono un pacifico villaggio di Cheyenne a Sand Creek uccidendo cinquecento indiani, molti dei quali donne e bambini (è la strage cantata da De André in Fiume Sand Creek). La trama del film è però semplice semplice, incorniciata fra violenze, massacri e immagini “forti”, che non lasceranno indifferenti neanche gli spettatori scafati del terzo millennio. A volte sembra perfino la sceneggiatura di uno dei libri più famosi di Ernst Jünger: Nelle tempeste d’acciaio, con sangue, crudeltà, paure, scene surreali e tutto quel che ne segue. Protagonista di Soldato blu è però una donna libera e coraggiosa (i tempi stanno cambiando rapidamente e gli anni Sessanta e Settanta sono anche quelli dove, soprattutto all’estero, si tenta di celebrare la libertà femminile) Kathy Lee – in realtà la modella, fotografa e attrice Candice Bergen – che è una bionda newyorkese tanto bella quanto sicura di sé, ex moglie di “lupo pezzato” capo indiano Cheyenne, che deciderà di difendere una cultura non sua, quella degli indiani d’America appunto, fino alle conseguenze più impensabili. Cercherà di proteggere i campi indiani devastati dai soldati conquistatori che bramano terre che non gli appartengono. Soldati assetati di sangue, spietati e imbarazzanti a un tempo, a volte colti da veri e propri deliri a sfondo razziale. Toccherà al debole ed emotivo “soldato blu” Honus Gant (cioè l’attore Peter Strauss), scampato a un precedente massacro, il compito – vieppiù impossibile – di contenere i “furori” della donna nel corso di un viaggio verso un accampamento militare, abbracciandone in un certo senso anche la causa. Con parole nude è questa la trama – lo scheletro potremmo dire – di un film che dà l’idea della leggenda (peraltro indiscutibile) nata per caso. In sé e per sé Soldato blu diretto da Ralph Nelson, regista di origini norvegesi morto da più di vent’anni e ispirato a una novella dal titolo Arrow in the Sun (a tutt’oggi non conosciutissima) del 1969 di Theodore V. Olsen, un romanziere anch’esso poco noto morto nel 1993, andrebbe infatti giudicato come un prodotto “medio” senza grandi velleità di partenza, tutto sommato non particolarmente piacevole, costruito – quello sì – con stimolanti influenze di grado per cosi dire alternativo. Il fatto che quella indiana fosse di per sé una comune “civiltà” (il western classico non l’aveva quasi mai disegnata così) e in più anche da difendere (impensabile fino ad almeno un decennio prima), unito alla valorizzazione del coraggio e dell’intelligenza pratica della protagonista femminile, serve a denunciare, esasperandole in un confronto impari, le debolezze e il fallimento del maschio bianco e occidentale (la cui “bandiera” nel film viene sventolata oltre che da soldati senza onore anche da un mercante privo di scrupoli), e con esso in un certo senso dell’antico eroe come lo avevamo conosciuto fino a quel momento.
Si tratta di una novità – e lo resta senz’altro – di grande impatto emotivo profondamente legata alle vicende politiche del Nuovo Mondo (e alla contemporanea guerra americana in Vietnam, ovviamente), ai suoi mutamenti sociali e alla capacità di produttori e registi di tradurli per il grande schermo, e di scrivere così un ulteriore paragrafo di una secolare vicenda di tipo realistico… Insomma: l’indiano nemico-brutale da sconfiggere senza chiedersi troppi perché sembra oramai essersi estinto. Selvaggi quanto vogliamo i nativi americani possiedono adesso un loro codice, sono uomini che si offrono per la pace, hanno donne e bambini che nella loro debolezza somigliano a quelli occidentali. Ed è una donna – Kathy – nel suo viaggio attraverso il film – in un film nel film potremmo dire – a portare la fiaccola di un nuovo “corso”; una donna che è stata a contatto con entrambe le “civiltà” ma che sceglie di stare dalla parte degli indiani, dei più deboli. È una rivoluzione che apre le porte al futuro. Una donna peraltro libera da qualsiasi vincolo di dipendenza e del tutto autonoma, promessa sposa a un soldato statunitense – ma per interesse, come lei stessa ha dichiarato – già maritata a un indiano e adesso innamorata del suo compagno di viaggio, il “soldato blu” Honus, la cui libertà di tipo sessuale (altro tema fondamentale negli anni Settanta) è guida verso una libertà fatta di scelte consapevoli e di azioni indipendenti. Argomento di grandissima importanza non lo dimentichiamo. Tutti ricorderanno per esempio la trama del grande film del ’56 di John Ford, con John Wayne come protagonista: Sentieri selvaggi, lì una ragazza – la piccola Debbie – cadeva prigioniera dei Comanche e veniva salvata dai bianchi che finivano per liberarla dallo status di bianca indianizzata. In Soldato blu gli avvenimenti conducono invece a un esito del tutto diverso: una donna non dimentica di essere stata un’indiana sceglie adesso di difendere la “civiltà” alla quale è appartenuta. Finalmente la ragazzina è diventata “adulta” e si è resa conto delle ragioni dei propri compagni di viaggio. Ha cercato così di tramandare, dal presente al futuro, l’attaccamento verso un popolo fiero della propria esistenza e del proprio nobile rifiuto. Un punto di non ritorno davvero. Per tutti. È proprio in quegli anni che dalle nostre parti si ripeteva il detto evoliano «la nostra patria è dove si combatte per le nostre idee». Da cui l’identificazione con le ragioni dei nativi americani, delle popolazioni arabe, poi degli afghani, ora dei tibetani. L’anti-imperialismo trionfava nell’immaginario.
Marco Iacona (nella foto) è dottore di ricerca in pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee, scrive tra l’altro per il bimestrale “Nuova storia contemporanea” e il quotidiano “Secolo d’Italia” per il quale nel 2006 ha pubblicato una storia del Msi in dodici puntate. Ha curato saggi per le Edizioni di Ar, per Controcorrente edizioni e per le Edizioni Mediterranee.
Ha pubblicato 1968. Le origini della contestazione globale (Solfanelli, Chieti 2008) e Il Maestro della Tradizione (Controcorrente, Napoli 2008).

1 commento:

Claudio Ughetto ha detto...

Dal punto di vista strettamente cinematografico, "Soldato blu" è un film bruttino, ideologico e recitato nemmeno troppo bene. Colpì per il punto di vista dalla parte degli indiani e per la cruenta scena finale del massacro nel villaggio. Sicuramente molto più notevole "Piccolo grande uomo", pieno di ironia e con un punto di vista più relativista, pur mostrando giustamente tutto lo schifo dell'imperialismo bianco.
Artisticamente ineguagliabile "Sentieri selvaggi", benché il suo punto di vista sia apparentemente disgustoso. Ford riesce a inquadrare sia il conflitto culturale tra i bianchi e gli indiani, sia l'ossessione fanatica di Ethan e Scar, sia la vita degli uomini di quell'epoca in modo magistrale. Che poi a noi faccia ribrezzo è un altro discorso. Ma gli artisti vanno al di là delle posizioni ideologiche.