domenica 11 aprile 2010

Andy Capp, eroe per caso di un mondo normale...

Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale dell'11 aprile 2010
L’Inghilterra? Non è un paese per ideologi. Destra e sinistra finiscono per assomigliarsi. Fin troppo, a parere di alcuni. Nessuna rendita di posizione da amministrare in nome di vecchie e gloriose eredità. I governi di Margaret Thatcher risalgono a più di vent’anni fa. Gli scontri tra ammiratori e detrattori della lady di ferro sarebbero ormai anacronistici. Laburisti e conservatori sono costretti a fare un passo in avanti: a rischiare ogni volta il loro capitale di credibilità rilanciando con proposte e contenuti. Meglio se nuovi. Meglio se efficaci. «Speranza, ottimismo e cambiamento» – le parole d’ordine di David Cameron, leader nominalmente conservatore ma con sana vocazione riformista – da sole non bastano e lui lo sa. L’involuzione della sinistra british e l’appannamento del decisionismo blairista, del resto, dovrebbero aver fatto scuola. Non c’è da fare affidamento sul voto d’appartenenza, l’elettore inglese non si attarda in posizioni di retroguardia e soprattutto non sceglie (solo) col cuore. Valuta e poi si schiera, senza tanti romanticismi. Paese di bipolarismo maturo, per dirla con gli analisti politici. L’alternativa è bella che pronta. O di qua o di là. O semplicemente altrove. In politica come in ogni altro angolo dell’immaginario anglosassone di oggi e di ieri, materia d’esportazione a non finire. Ce lo conferma la storia recente: da una parte i visi puliti e il sound morbido dei Beatles e dall’altra quei fratellastri sporchi e cattivi dei Rolling Stones con tanto di linguaccia sventolata a mo’ di segno distintivo. Senza farsi mancare una terza via: il movimento musicale dei punk, nato oltremanica negli anni Settanta. Che lì formidabili lo furono sul serio. Da Sid Vicious e i suoi Sex Pistols all’immarcescibile monarchia con codazzo di parrucconi e rigogliosa – si fa per dire – produzione di gossip. Da Lady D. a Camilla Parker Bowles, dal principe Carlo ai rampolli della casa reale, il paese è saldamente al centro della scena mondiale. Tanto che un toast bruciato nella residenza di campagna dell’ex premier Blair è evento sufficiente a richiamare vigili del fuoco e prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo. Corsi e ricorsi storici: dalla trasgressiva minigonna di Mary Quant alle performance televisive esilaranti quanto innocue di Mister Bean. Nel caso della giovane stilista inglese, nata l'11 febbraio 1934, c’è la conferma che la rivoluzione possa camminare non solo sulle gambe degli uomini ma anche e forse più velocemente su quelle (scoperte) delle donne. E Mr. Bean, buon ultimo, è tra i protagonisti dell’umorismo globale, sempre con chiara impronta british. Il tutto all’insegna delle diversità, vero e proprio motore di una società dinamica che non si alimenta in unanimismi di facciata. A dividersi, infatti, ci si divide. Soprattutto nello sport, perché i vessilli del tifo non temono infeltrimenti e c’è da consolarsi in fretta per l’esclusione delle squadri inglesi dalle semifinali di Champions League.
Ne sa qualcosa Andy Capp, icona britannica per humor ma nello stesso tempo universale, tanto da essere stato paragonato proprio ai Beatles e ai Rolling Stones e persino, lui così insofferente a ogni convenzione, al cambio della guardia di Buckingham Palace. Perché questo ambasciatore alquanto irregolare del made in England, all’apparenza esperto solo in scommesse sui cavalli e sulle corse dei cani, biliardo, lancio delle freccette e piccioni viaggiatori, quando non rimane a poltrire sull’amato divano, scende in campo. Come suol dirsi: quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare. Parliamoci chiaro: fuggire le responsabilità è un conto, fuggire le passioni un altro. Come spettatore è, per usare un eufemismo, vivace. Non si sottrae se c’è da menare le mani, salvo tornarsene sconsolato e sbronzo dopo una sconfitta. Per questo Andy è ancora oggi più che mai il beniamino dalle tifoserie, senza distinzione di fede: l’amore genuino quanto sfegatato per il pallone, rotondo o ovale che sia, fa sì che il suo nome sia spesso presente su stendardi e striscioni issati persino nelle curve di casa nostra.Quando gioca, invece, le sue partite durano pochissimo e non perché non ce la faccia fisicamente. È troppo insofferente, semmai, per rispettare le regole e adeguarsi alle decisioni altrui. Si arrabbia ogni volta e finisce regolarmente per prendersela con l'arbitro, l'odioso Percy, che - guarda caso - è la stessa persona che riscuote la pigione del suo appartamento. Lo apostrofa con male parole, lo insegue per tutto il campo e infine lo stende, facendosi espellere. Non male per un cinquantenne. Già, l'esordio - nel mondo immaginario delle nuvole parlanti, non nella massima divisione, la premier league - risale a più di mezzo secolo fa. È nell'agosto del 1957 che il personaggio creato da Reginald Smythe - scomparso dodici anni fa, il 13 giugno del 1998 - fece la sua prima apparizione sull'edizione locale (nord) del Daily Mirror (pochi mesi di "gavetta" per poi essere lanciato, il 14 aprile dell'anno successivo, su quella nazionale) nelle celebri strisce di Andy e Flo (Carlo e Alice nella versione italiana, dal 1960 ospitata da La settimana enigmistica e sempre apprezzata da migliaia di devoti lettori). I numeri parlano da soli: le sue vignette sono state pubblicate su 1.700 giornali in 48 paesi. Un successo internazionale: nel 1963 la coppia sbarca negli States - sul Chicago Sun Tribune - e, per tornare a noi, dal 1967 anche sulla prestigiosa rivista Eureka della editoriale Corno diretta da Luciano Secchi-Max Bunker, a cui hanno fatto seguito le raccolte nei caratteristici brossurati dall'elegante formato, i Comics Box. E ancora oggi è noto ovunque, sia pure con nomignoli diversi: così è diventato Tuffa Victor in Svezia, Jan Met de Pet nei Paesi Bassi ed An'Dicap in Ghana.
Libertario autentico, Andy Capp rappresenta meglio di tanti "viventi" l'altro '68, quello anglosassone. Nessuna velleità ideologica di stampo marxista, nessuna satira a sfondo sociale, neanche una minima concessione ai luoghi comuni del politicamente corretto. Ogni retorica è bandita. Nessun pedagogismo per le masse, piacevolmente condannate a rilassarsi nell'ignoranza. Sì, perché se Andy è visceralmente amato dal pubblico dei lettori di fumetti - che, si sa, per la critica ideologica (dell'epoca e, ahinoi, attuale) è incolto e qualunquista - è detestato, altrettanto sinceramente, dalle femministe. Eppure anche lui, va detto, ha i suoi buoni sentimenti. Potremmo dire, a sua discolpa, che è persino favorevole alla famiglia allargata, ma solo se le cameriere che sbircia con avidità potessero essere considerate a tutti gli effetti componenti della famiglia. Malgrado sia spesso e volentieri, molto volentieri, ubriaco, però, non dimentica che Flo (la moglie brontolona con la quale forma una coppia perennemente in crisi ma irriducibilmente indissolubile) potrebbe piombare lì da un momento all'altro, afferrarlo per il bavero della giacca e riportarselo a casa prima che ne combini qualcuna delle sue. È lei a tirare la carretta, sempre pronta ad accudire quel marito sciagurato e irresponsabile, di cui è - nonostante tutto - innamorata e gelosa.
Non c'è in lui rabbia né frustrazione per la sua condizione di "precario" ante litteram e non è certo il prototipo del sindacalista o del militante politico animato dal sacro fuoco della giustizia sociale. La lotta di classe non è una causa che lo possa appassionare. Non ne fa un mistero: della società se ne frega e ne è ricambiato. Con reciproca soddisfazione. Dell'ordine costituito rifiuta i condizionamenti, le convenzioni imposte, rifiutandosi di lasciarsi inghiottire nell'ingranaggio consumistico. Non è un fallito o almeno non si sente tale. Non recita la parte dell'outsider per appagare una qualche vanità intellettuale o, al contrario, per crogiolarsi nell'autocommiserazione. Non gli mancano forza e capacità, la sua indolenza è spudoratamente sincera, consapevole quando determinata. Il disprezzo altrui è il prezzo che paga (senza farsene un cruccio) per aver scelto di "ribellarsi al sistema". No, non si sente in colpa, a modo suo è felice, un po' come il nostro ragionier Ugo Fantozzi, il simpatico travet interpretato da Paolo Villaggio a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta.
Ivo Germano, docente universitario e sociologo dell'immaginario, lo ha descritto così: «Di professione "fancazzista", scettico per vocazione, Andy Capp insegna come a zero ore lavorative corrispondano miliardi di secondi di buona vita. Come illustra un vecchio albo del 1968, il cui titolo recita "Andy Capp il disoccupato più felice al mondo", Andy fugge il lavoro piuttosto che cercarlo, con una determinazione per certi versi ammirabile. Ancora oggi è antipedagogico e impolitico, rappresentando sempre e solo se stesso. Maestro di nessuno, è a mezza via fra Ernst Jünger e Antonio Pennacchi, fra l'anarca e il "fasciocomunista". Uno come lui sarebbe di casa a un bar sport di Latina scalo, perché lì ci si accapiglia, spezzando il pane e il companatico della diatriba, ma fottendosene bellamente dei dibattiti sull'egemonia culturale e sul peso delle ideologie. Lì si vive e basta: in bella o brutta copia».
Andy Capp ha rappresentato la coscienza critica della cultura dominante degli anni Settanta. La sua popolarità nel periodo in cui "tutto era politico" ci dà la misura di quanto la tanta decantata occupazione militare degli spazi culturali da parte della sinistra scricchiolasse e come la divisione tra cultura alta, ideologica, e bassa, popolare, fosse artificiale. Come altri personaggi dell'immaginario di quegli anni, ad esempio i super eroi, disconosciuti e snobbati dalla cultura ufficiale, Andy Capp è un ribelle anarco-individualista: se Capitan America portava in dote il valore dell'eroismo, Andy esaltava l'eroismo della normalità, l'elogio del vivere tranquillo e disincantato, senza troppi impicci moralistici. Agnostico com'è, le risposte se le trova da solo, ché quelle del Vicario, il pastore della parrocchia di Andy che cerca in ogni modo di ricondurlo sulla buona strada, tentando di farlo smettere di bere e di preoccuparsi di più del suo matrimonio. L'unico dogma di Andy, se possiamo definirlo tale, è la libertà dell'individuo - ovvero di se stesso - prima di ogni altra cosa. Che poi non sarebbe neanche male se la destra (quella nuova, intendiamo, che guarda ai diritti civili senza complessi) facesse proprio della difesa delle libertà individuali una priorità.
Ma torniamo a Andy. «Il mio migliore amico», lo definiva Reginald Smythe e non solo perché quel suo figliolo di carta l'aveva reso ricco e soprattutto gli aveva consentito di potersi dedicare a tempo pieno ai fumetti. C'era un bel po' di se stesso in quella canaglia indolente e burbera: «Mi piace tornare a casa e non fare nulla» diceva, quasi a giustificare anche quel suo figliolo di china così ostinatamente sfaccendato. Per sdebitarsi nei confronti della sua gallina dalle uova d'oro, Smythe, ammalato di cancro ai polmoni, negli ultimi tempi tolse di mano a Andy l'immancabile mozzicone "salvandolo" da analogo destino e rendendolo immortale. Sì, perché - cosa abbastanza rara per un autore, per definizione "geloso" delle proprie creature - acconsentì a che altri dopo di lui continuassero a disegnarne le storie. Esaurite le cospicue scorte di strip inedite - con le quali l'editore è andato avanti per oltre un anno - nessun diluvio, ma tante strisce ancora, curate da Roger Mahoney e Roger Kettle e da chissà chi altro. Oltre a Andy, Smythe ha lasciato altri "eredi": Buster, il figlio di Andy Capp, creato nel 1960 per una rivista per ragazzi, e Mandy, "nata" sul Daily Millor nel 1997 e presentata dall'editore - se non altro perché il "papà" non è Smythe - come «figlia illegittima di Andy Capp». Diventerà anch'essa una striscia quotidiana ma niente di lontanamente paragonabile al successo intramontabile di Andy Capp, che negli anni Ottanta conoscerà una nuova stagione di popolarità, tanto da diventare personaggio televisivo e ispirare uno spettacolo musicale itinerante che da Manchester arriverà sino in Finlandia. Con tanto di florido merchandising ispirato a lui e persino una statua di bronzo realizzata nella città dell'Inghilterra nord-orientale in cui questo mito moderno "vive" - e che poi è la patria del suo autore - ovvero ad Hartlepool.
Un adorabile cialtrone, ecco cos'è. Al pari di altri personaggi letterari e cinematografici come l'Arturo Bandini di John Fante, il compagno di sbronze Henry Chinaski di Charles Bukowski, il giovane Holden di J. D. Salinger, l'Alex Portnoy di Philip Roth, il Barney Panofsky di Mordecai Richler e, perché no?, di Homer Simpson, Peter Griffin e persino di Shrek, che non si vergogna di essere un orco, anzi emette peti e rutti a tutto spiano. E irriverente è anche Andy, almeno quanto inaffidabile. Non sarà certo un campione di bon ton, Andy, ma prenderlo «ad allarmante modello di una vera e propria sindrome paranoide collettiva dei giovani marginali per lo stile di vita aggressivo, maschilista, sciovinista, qualunquista, tendenzialmente xenofobo, cosmicamente alieno da ogni forma di acculturazione» - come ebbe a sostenere Valerio Marchi, sociologo di sinistra e studioso dell'estrema destra europea, scomparso prematuramente nel 2006, nel suo La sindrome di Andy Capp. Cultura di strada e conflitto giovanile (Nda press, 2004) - ci appare un tantino esagerato. «Ma quale cattivo maestro - tuonò Antonio Pennacchi, chiamato in causa da Ivo Germano - Andy Capp è un finto burbero ma ha un cuore d'oro, un po' come l'Accio Benassi del mio romanzo Il fasciocomunista. Per vent'anni ho portato il suo stesso cappello, l'inseparabile berretto da portuale calcato sugli occhi, poi l'ho cambiato con uno a tesa larga ma gli resto fedele come a un vecchio amico». Già, come non immedesimarsi in lui? Chi di noi non ha mai provato insofferenza per la "suocera" urlante, non a caso mai disegnata in viso e mai gratificata con un nome, pettegola, maligna, sempre pronta a criticare il "povero" Andy? Chi di non passerebbe volentieri la vita comodamente sdraiato su un divano a oziare, lontano da Brunetta? Chi dice il contrario o mente o - per dirla con Pennacchi, che in questi giorni è appena tornato in libreria con il romanzo Canale Mussolini (Mondadori, pp. 460, € 20,00) - «è un sociologo, la cui unica ragion d'essere è trovare impedimenti alla vita degli altri».

Nessun commento: