domenica 11 aprile 2010

Le leggende verosimili di Clarence Clemons, il big man del rock (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale dell'11 aprile 2010
Mai prendere le cose alla lettera, nel rock. Potrebbe essere tutto rigorosamente vero, dalla storia che si racconta in una canzone all’aneddoto che si sfodera in un’intervista, eppure non sarebbe questo, il tratto saliente. Il legame con la vita reale resterebbe nulla di più che una coincidenza. In un processo di tribunale la verità dei fatti è determinante. In un processo artistico non conta nulla. E il rock è proprio questo: un processo artistico permanente, che non si limita a prendere spunto dall’esistenza ma si amalgama con essa fino a diventare un tutt’uno. La vita ci mette l’energia, quella iniziale della giovinezza o quel po’ che ne rimane in seguito. Il rock la converte in una percezione più precisa e più stabile. La incornicia in un’avventura da ricordare, in qualcosa di specifico che puoi rievocare ogni volta che lo desideri. Gli stati d’animo passano. La forza di un brano, di un album, di un’intera discografia, ti accompagna per sempre.
Clarence Clemons, universalmente noto col suo soprannome di Big Man, è il sax della E Street Band, il gruppo storico di Bruce Springsteen. Non solo uno strumentista, cosa che del resto non si può dire nemmeno di nessuno degli altri, e non solo un amico di vecchissima data, conosciuto ancora prima di pubblicare l’album d’esordio nell’ormai lontanissimo 1973, ma una figura importante del suo immaginario personale, sia sul palco che fuori. Clarence è nero, Bruce è bianco. Clarence è gigantesco, con la sua poderosa struttura di ex giocatore di football americano. Bruce è snello, e prima di scoprire il body building e di sorprendere tutti con la sua nuova immagine ai tempi di Born in the U.S.A. era addirittura smilzo. Clarence rappresenta la forza esplicita e appariscente. Bruce quella che rimane nascosta e che resta in dubbio fino all’ultimo momento, finché non esplode. Clarence e Bruce sanno entrambi, e lo sanno dall’inizio, che in loro due c’è un carisma particolare. Una saggezza a lungo termine. Un potere sugli altri. Una predestinazione a correre su qualunque strada senza schiantarsi mai, neanche quando la velocità è eccessiva e la traiettoria è sbagliata.
Bruce si è raccontato mille volte: non solo nei suoi tantissimi brani ma anche nei lunghi monologhi srotolati dal vivo e nelle innumerevoli interviste rilasciate in tutti questi anni. Dove non si è espresso direttamente, poi, a riempire ogni quadratino del mosaico hanno provveduto i biografi, più o meno solleciti e benevolenti e attendibili. Il suo passato è a disposizione di tutti, dispiegato in ogni sorta di mappa e di giornale di bordo. La rotta di ciascun viaggio è stata ricostruita nei minimi particolari, al punto che un fan ben documentato potrebbe snocciolare minuzie che egli stesso, Bruce, ha probabilmente dimenticato. Hey, Boss, con quale pezzo hai aperto il “The River Tour”, nel 1980? Dài, ti aiuto: era ad Ann Arbor, nel Michigan. La sera che ci fu il duetto con Bob Seger. Sì, insieme avete fatto Thunder Road, ma come hai cominciato?
Per Clarence è il contrario. Finora non si sapeva quasi niente. E bisognava immaginare quasi tutto. Bruce era lo sciamano ciarliero che non solo officia il rito ma non esita a parlarne. Clarence era lo sciamano silenzioso che fa quello che deve e che ritiene superflue le spiegazioni. Bruce canta: e le parole sono altrettanto importanti della musica. Clarence suona: e il suo fiato, il suo respiro, il suo spirito, sono tutti nelle note che fuoriescono dal sax. Bruce si sbraccia in prima linea. Clarence si staglia sullo sfondo. Bruce è in piena luce, anche quando non sembra. Clarence è sul confine tra la luce e l’ombra. Bruce ha bisogno di farsi capire, e si dà da fare perché questo avvenga. Clarence confida che ci arriviamo da soli. E non è certo un caso, dunque, che questo libro, che fatalmente si intitola Big Man e che si muove a metà strada tra biografia e romanzo (“Storie vere e racconti incredibili”, ammonisce il sottotitolo), appaia soltanto adesso, quando mancano un paio d’anni al suo settantesimo compleanno e nessun chiarimento su ciò che è accaduto in precedenza può essere confuso con un tentativo di giustificazione. O, men che meno, con uno spot auto celebrativo. Auto assolutorio.
«I soli fatti – scrive Springsteen nella brevissima introduzione, densa e illuminante come una canzone ben riuscita – non potrebbero mai svelare i misteri di Big Man. Detto questo, potrei giurare che in queste pagine le storie non vere siano soltanto un paio. Le altre sono tutte avventure che possono e sarebbero potute accadere al mio grande amico».
Proprio così. Tutte avventure che possono o sarebbero potute accadere. La credibilità non dipende dai testimoni. Dipende dal protagonista. I testimoni, sempre ammesso che ne siano capaci, registrano gli avvenimenti. Il protagonista ne individua il senso. A volte lo afferra a posteriori. Altre volte lo conosce da prima. E quando lo conosce da prima, allora non ha più molta importanza che quel singolo episodio, o quel singolo dettaglio, si siano verificati davvero. La vita reale, per chi sia abbastanza grande e sincero da aver smesso definitivamente di sfuggire alle proprie responsabilità, è solo un’altra faccia dell’immaginazione. Alcune delle cose che si sono immaginate si ha la fortuna di metterle in scena nel mondo. Alcune altre bisogna accontentarsi di sceneggiarle nella propria mente. E di raccontarle. Di anticiparle, forse. Come cantava Fiorella Mannoia in Quello che le donne non dicono, con lo splendido testo di Enrico Ruggeri, «se diciamo una bugia è una mancata verità, che prima o poi succederà».
Big Man (Arcana, pag. 345, € 22) gioca a carte scoperte, del resto. Clemons e Don Reo – il coautore che firma il libro e che aggiunge a quelli di Clarence i propri ricordi e le proprie impressioni, in un continuo e azzeccato contrappunto che poggia su un’amicizia che si dipana da più di trent’anni – affermano chiaramente che ci sono delle parti più o meno inventate, quelle che nel testo vengono definite “leggende”, e che solo il rimanente «si basa tutto su fatti reali, riportati esattamente come sono accaduti». Eppure, il sapore è quasi sempre lo stesso. Fatti reali e invenzioni. Ricordi e fantasie. Scaffali diversi dello stesso magazzino. Ingredienti eterogenei della stessa alchimia.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.

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