Dal Secolo d'Italia di martedì 11 maggio 2010
Eduard Streltsov, un nome che a molti, anche tra i calciofili e addetti ai lavori, dice poco. Protagonista di una storia difficile, quella della sua vita. Si tratta di un calciatore, probabilmente uno dei migliori talenti di sempre espressi dal calcio sovietico. Il «Pelè di Russia», secondo qualcuno: ottimo giocatore con dei difetti intollerabili per il regime. E di fatto non tollerati. Un campione del quale si sa poco o nulla: anche in ragione di questo è grande il merito che va conferito a Marco Iaria, giornalista della Gazzetta dello Sport, che alla vita di Streltsov ha dedicato un libro, dal titolo, emblematico, Donne, vodka e gulag (Limina, pp. 150, euro 19,90). Titolo emblematico perché di fatto questo campione russo poco conosciuto, dal «ciuffo alla teddy boy» era piuttosto incline a certi vezzi occidentali, e a un certo amore per la bella vita fatta di donne e alcool, e poco incline al rigore del regime socialista. Lui che socialista, alla maniera dei sovietici, lo era ben poco e per questo fu costretto a pagare caro. Quello di Iaria è un libro coraggioso, che tuttavia dà conferma dello stato di salute di una certa tendenza, che riscontriamo con piacere, nell'ambito della letteratura sportiva.
Sempre meno agiografici e tesi ad esaltare semplicemente le gesta di questa o quella squadra, alcune pubblicazioni vanno anche oltre, spolverando o riscoprendo addirittura storie di calcio di cui è difficile parlare. In questo caso la storia di questo talento di proporzioni imparagonabili a quelle di certi "fenomeni" del calcio moderno. C'è pochissima produzione d'archivio, in merito alle gesta di Eduard Streltsov, poco "visto" anche a posteriori, a differenza di Pelè, dei Cruyff o Maradona. Nato in Unione Sovietica nel 1937 da una famiglia di operai di un sobborgo moscovita, diventa simbolo della sua squadra, la Torpedo Mosca a soli 17 anni. Un fenomeno, che nel '57 arriva settimo al Pallone d'oro. Soprannominato il "Pelè Russo", Streltsov mostra subito caratteristiche comportamentali che lo differenziano da tanti suoi colleghi e connazionali. Fantasioso alla maniera di George Best, estroverso, amante del colpo di tacco (ancora oggi chiamato colpo alla Streltsov) e una confidenza estrema con il gol. In una amichevole contro la Svezia segna addirittura tre reti a soli 17 anni. Ma anche un pericolo per i governanti della Russia dell'epoca.
Un talento straordinario come il suo sarebbe dovuto servire per dare lustro alla società sovietica: il giovane doveva essere l'emblema dello sport comunista, come nella tradizione che si è tramandata fino alla caduta del muro di Berlino. In tutti gli sport, comprese le discipline olimpiche, l'Urss si è sempre potuta fregiare del rigore e della disciplina esemplare dei propri atleti. Ma il ragazzo Eduard era troppo allegro e amante della bella vita per recitare un copione che non sentiva suo. Gli si scaglia contro una violenta campagna mediatica. Con la dittatura si scherza poco: contrariamente ai Meroni, ai Best, l'essere irregolare, non allineato è un lusso che non ci si poteva permettere nella Russia degli anni Cinquanta e Sessanta. Capelli poco più lunghi del lecito, che fanno il verso a quelli dei «giovani dell'Occidente», amante di feste e dell'immancabile vodka, Streltsov sembra incarnare più la libertà giovanile che il rigore proletario. Non solo: troppo legato alla sua Torpedo rifiuta imperdonabilmente il trasferimento alla Dinamo Mosca, la squadra del Kgb e poi allo Cska Mosca, squadra dell'esercito. Un atto di ribellione che le alte sfere del Cremlino non poterono tollerare. Questo comportamento, unito anche ad una frase di troppo detta ad una festa al Cremlino, lo portò ad essere accusato ingiustamente di violenza carnale, che Streltsov avrebbe commesso ai danni di una giovane proprio nel corso di quella stessa festa. Arrestato e rinchiuso in uno dei più duri carceri sovietici, il Butirka, Streltsov pagò ancora, aggirato dal Kgb. Qualora avesse confessato il misfatto di cui non era responsabile, sarebbe andato a giocare i Mondiali. Lui si convince e firma quella che risultò essere la più grave delle condanne. Fu mandato in Siberia in un gulag, condannato ai lavori forzati. Uscirà dal campo di lavoro solo nel 1965, per tornare a giocare per la sua Torpedo Mosca. Quando torna sul campo non ha più il look alla maniera degli stiljagi, i teddy boys russi, ma è stempiato, più vecchio, appesantito. Non è più l'agile campione di una volta. Eppure vinse ancora, un titolo nazionale, nel 1965, segnando 12 gol. Collezionò trentotto presenze e 24 gol con la maglia nazionale sovietica e morì vent'anni fa, nel 1990, di cancro, a soli 53 anni, secondo alcune tesi causato dai veleni respirati duranti i lavori forzati nelle miniere siberiane. Gli anni nel gulag lo segnarono sul piano comportamentale: non parlò mai di quell'esperienza e degli otto anni di reclusione. Solo sul letto di morte confessò di essere innocente, di non aver mai fatto niente. Sul punto di morte mostrò una dignità che un regime folle, capace di spezzare e smarrirne il talento, non era riuscito a togliergli.
Sempre meno agiografici e tesi ad esaltare semplicemente le gesta di questa o quella squadra, alcune pubblicazioni vanno anche oltre, spolverando o riscoprendo addirittura storie di calcio di cui è difficile parlare. In questo caso la storia di questo talento di proporzioni imparagonabili a quelle di certi "fenomeni" del calcio moderno. C'è pochissima produzione d'archivio, in merito alle gesta di Eduard Streltsov, poco "visto" anche a posteriori, a differenza di Pelè, dei Cruyff o Maradona. Nato in Unione Sovietica nel 1937 da una famiglia di operai di un sobborgo moscovita, diventa simbolo della sua squadra, la Torpedo Mosca a soli 17 anni. Un fenomeno, che nel '57 arriva settimo al Pallone d'oro. Soprannominato il "Pelè Russo", Streltsov mostra subito caratteristiche comportamentali che lo differenziano da tanti suoi colleghi e connazionali. Fantasioso alla maniera di George Best, estroverso, amante del colpo di tacco (ancora oggi chiamato colpo alla Streltsov) e una confidenza estrema con il gol. In una amichevole contro la Svezia segna addirittura tre reti a soli 17 anni. Ma anche un pericolo per i governanti della Russia dell'epoca.
Un talento straordinario come il suo sarebbe dovuto servire per dare lustro alla società sovietica: il giovane doveva essere l'emblema dello sport comunista, come nella tradizione che si è tramandata fino alla caduta del muro di Berlino. In tutti gli sport, comprese le discipline olimpiche, l'Urss si è sempre potuta fregiare del rigore e della disciplina esemplare dei propri atleti. Ma il ragazzo Eduard era troppo allegro e amante della bella vita per recitare un copione che non sentiva suo. Gli si scaglia contro una violenta campagna mediatica. Con la dittatura si scherza poco: contrariamente ai Meroni, ai Best, l'essere irregolare, non allineato è un lusso che non ci si poteva permettere nella Russia degli anni Cinquanta e Sessanta. Capelli poco più lunghi del lecito, che fanno il verso a quelli dei «giovani dell'Occidente», amante di feste e dell'immancabile vodka, Streltsov sembra incarnare più la libertà giovanile che il rigore proletario. Non solo: troppo legato alla sua Torpedo rifiuta imperdonabilmente il trasferimento alla Dinamo Mosca, la squadra del Kgb e poi allo Cska Mosca, squadra dell'esercito. Un atto di ribellione che le alte sfere del Cremlino non poterono tollerare. Questo comportamento, unito anche ad una frase di troppo detta ad una festa al Cremlino, lo portò ad essere accusato ingiustamente di violenza carnale, che Streltsov avrebbe commesso ai danni di una giovane proprio nel corso di quella stessa festa. Arrestato e rinchiuso in uno dei più duri carceri sovietici, il Butirka, Streltsov pagò ancora, aggirato dal Kgb. Qualora avesse confessato il misfatto di cui non era responsabile, sarebbe andato a giocare i Mondiali. Lui si convince e firma quella che risultò essere la più grave delle condanne. Fu mandato in Siberia in un gulag, condannato ai lavori forzati. Uscirà dal campo di lavoro solo nel 1965, per tornare a giocare per la sua Torpedo Mosca. Quando torna sul campo non ha più il look alla maniera degli stiljagi, i teddy boys russi, ma è stempiato, più vecchio, appesantito. Non è più l'agile campione di una volta. Eppure vinse ancora, un titolo nazionale, nel 1965, segnando 12 gol. Collezionò trentotto presenze e 24 gol con la maglia nazionale sovietica e morì vent'anni fa, nel 1990, di cancro, a soli 53 anni, secondo alcune tesi causato dai veleni respirati duranti i lavori forzati nelle miniere siberiane. Gli anni nel gulag lo segnarono sul piano comportamentale: non parlò mai di quell'esperienza e degli otto anni di reclusione. Solo sul letto di morte confessò di essere innocente, di non aver mai fatto niente. Sul punto di morte mostrò una dignità che un regime folle, capace di spezzare e smarrirne il talento, non era riuscito a togliergli.
Giovanni Tarantino è nato a Palermo il 23 giugno 1983. Lavora a E-Polis e collabora con il Secolo d’Italia, si è laureato in Scienze storiche con una tesi dal titolo Movimentisti. Da Giovane Europa alla Nuova destra.
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