martedì 4 maggio 2010

Le "primarie di Lippi": campioni? no, grazie

Dal Secolo d'Italia di martedì 4 aprile 2010
«Si vede che Lippi è del Partito democratico. Convocare in nazionale Iaquinta e Quagliarella invece di Miccoli è come puntare su Boccia anziché Vendola per le Regionali pugliesi». Così Emilio Marrese ha commentato le «primarie» del Ct viareggino per lo stage della Borghesiana che si terrà a Roma oggi e domani. Il “graffio” del giornalista di Repubblica – che dal 5 maggio torna in libreria con Rosa di fuoco. Romanzo di sangue, pallone e piroscafi (Pendragon, pp. 354, € 15), un noir che ha tra i protagonisti un calciatore del Barcellona degli anni Trenta – non è la prima voce critica nei confronti del “conservatorismo” lippiano, metafora di un’Italia autoreferenziale e incapace di aprirsi al rinnovamento.
«Una nazionale da Villa Serena», l’aveva definita Paolo Condò sulla Gazzetta dello Sport. Altro che largo ai giovani. Perché se è vero che per le scelte definitive c’è ancora tempo – l’11 maggio gli azzurrabili, compresi romanisti e interisti (ai quali la duegiorni è stata risparmiata in vista della finale di coppa Italia che si disputerà domani), diventeranno 30 e tra loro ci saranno i 23 che faranno le valigie per il Sud Africa – sembra ormai irrevocabile la determinazione dell’allenatore ad avvalersi soprattutto dei reduci dei mondiali tedeschi. A partire dal capitano: Fabio Cannavaro, 37 anni suonati. Con lui piazzato davanti alla difesa, la Juventus ha stabilito il record negativo di gol subiti in campionato dalla Vecchia Signora. Lippi, tuttavia, aveva già messo le mani avanti: «Si può essere convocati anche se si gioca male nel proprio club». Il leitmotiv rimane quello consueto, per giocare a certi livelli ci vuole esperienza: «Il mondiale si gioca con sette partite in un mese e non abbiamo bisogno per forza di una nazionale di ventiquattrenni», ha ripetuto il commissario tecnico.
Quel che preoccupa, in realtà, non è soltanto l’età ma anche lo stato di forma dei suoi “vecchietti”. Alcuni dei quali hanno mestamente seguito buona parte del campionato dalla panchina. In casa Juve, che con i suoi nove convocati offre il maggior contributo di giocatori, Zaccheroni nelle ultime settimane ha preferito il più giovane e dinamico De Ceglie a Grosso, l’eroe di Berlino. Legrottaglie da titolare si è fatto rincalzo. Camoranesi, quando gioca, sembra indispettito, insofferente, distratto.
L’esperienza della Confederations Cup dello scorso anno, del resto, dovrebbe aver insegnato qualcosa. Per la prima volta abbiamo perso con l’Egitto. Il Brasile ci ha liquidati con un secco tre a zero. Eppure, anche in quella occasione, Lippi difese i suoi. E sul concetto di gruppo, sull’importanza dello spirito di squadra, è tornato nei giorni scorsi: «Il campione è un gallo nel pollaio, una primadonna che non mette le sue qualità al servizio della squadra – ha spiegato – mentre un fuoriclasse è un talento che si realizza mettendosi a disposizione dell’obiettivo». Però, aggiungiamo noi, è il campione spesso e volentieri a fare la differenza. Non si vince ai punti come nella boxe e non ci può sempre affidare fideisticamente alla lotteria dei rigori. È indispensabile disporre di chi ha nel proprio repertorio il colpo del KO. Qualche nome? Balotelli, Cassano e Miccoli – il più talentuoso dei nostri ragazzi e i due funamboli che stanno guidando Sampdoria e Palermo alla conquista di una prestigiosa qualificazione in Champions – farebbero la felicità di qualsiasi altra nazionale ma oggi e domani rimarranno a casa.
Intendiamoci: quattro anni fa abbiamo applaudito e portato in trionfo Lippi e la sua truppa per aver spazzato via, di vittoria in vittoria, l’ombra di calciopoli che aleggiava sulla credibilità del nostro calcio. In quel 10 luglio del 2006, col popolo in festa al circo Massimo di Roma, nello striscione sventolato da Buffon e altri compagni di squadra ci scappò persino una celtica. Ghiotta occasione per le solite polemiche pretestuose. L’onore del nostro calcio, però, era salvo. Sì, nell’Italia intristita dal governo Prodi portarono un lampo di gaiezza e accogliemmo i campioni del mondo come eroi moderni.
Corsi e ricorsi storici. A leggere certe intercettazioni telefoniche sembra di essere ripiombati all’indietro: arbitri e dirigenti sportivi che tubavano con imbarazzante spudoratezza. Fatte le dovute proporzioni, la chiamata in correità che Luciano Moggi ha rivolto alle altre società sportive sembra perdersi nello stesso imbarazzato silenzio con cui l’aula di Montecitorio il 3 luglio del 1992 accolse il j’accuse di Bettino Craxi quando scoppiò tangentopoli. Che ci si trovi di fronte (o meno) a una nuova calciopoli, è presto per dirlo, ma una cosa è certa: la salute del nostro calcio non è più quella di un tempo e non si tratta di un problema solo della nazionale. Non è un caso se nelle competizioni europee le squadre italiane – Inter a parte, ma lì, come ha sottolineato lo stesso Lippi, gli italiani sono merce rara – sono state rispedite a casa senza troppi complimenti. Le nostre società non spendono più come un tempo né investono, come dovrebbero, sui giovani. Dei 500 ventenni delle formazioni Primavera presenti nell’annuario Panini 2005-2006 soltanto 12 sono arrivati in serie A. Sul mercato i dirigenti preferiscono acquistare un “usato sicuro” e il “prodotto” più economico è il trentenne: navigato, svincolato dal club, con pretese contenute e disponibile a contratti brevi. Epoca di saldi, di sogni in liquidazione, verrebbe da dire. Ma noi vogliamo crederci, a chiunque sarà affidato l’arduo compito: riportateci sul tetto del mondo, please.

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