Articolo di Federico Zamboni
Per parecchi anni era sembrato impossibile, che “Ghigo” Renzulli e Piero Pelù si rappacificassero e tornassero insieme. La loro rottura era stata traumatica, come nei peggiori divorzi. E, come nei peggiori divorzi, c’era stato il pessimo strascico di una battaglia legale sull’attribuzione della “casa coniugale”. Sul diritto dell’uno o dell’altro a utilizzare ancora il nome, o il marchio di fabbrica, della band che avevano fondato insieme, all’inizio degli anni Ottanta, e che insieme avevano guidato per quasi vent’anni, stemperandone via via l’energia e l’originalità degli inizi e passando da una potente mistura artigianale a un preparato ancora efficace, a suo modo, ma standardizzato nella formula e a corto di ingredienti.
L’epilogo di Infinito, nel 1999, era stato addirittura imbarazzante: l’impatto viscerale di un tempo si era ridotto a un’immediatezza calcolata. Il desiderio di piacere (e di piacere a quante più persone possibili) aveva smesso di essere una legittima e leale aspirazione del cuore ed era diventato un obiettivo inderogabile stampato nel cervello. Quella che sembrava la stazione di arrivo ideale, con tutta quella gente ad acclamarli e a cantare in coro, non era altro che un binario morto. O il punto di raccordo con una ferrovia fittizia, come quella di un parco dei divertimenti: vai di qua, vai di là, torni al punto di partenza. Non è un viaggio. È un giretto. Non è un’avventura. È un passatempo. Vai di qua, vai di là. Non vai in nessun posto.
Oggi lo riconoscono anche loro: «Il nostro ultimo disco insieme è quello che ha venduto di più, ma è anche il meno bello. È il più pop, ed è stato costruito a tavolino, senza complicità. Il periodo migliore è quello di Terremoto, Spirito e El diablo (gli anni dal 1990 al 1994 – Ndr). Poi, quando abbiamo cominciato con l’elettronica è diventato tutto più noioso». Infatti. La grande forza del rock non è in quello che si vede, ma in quello che si intuisce. In quello che c’è sotto la superficie di un ritmo scandito o di una melodia accattivante. La grande forza del rock è nella sua innocenza. Nella sua attitudine adolescenziale a non preoccuparsi delle conseguenze. Sorride perché è allegro, non per apparire socievole. Urla perché è incazzato, non per impressionare i passanti. Okay: muore dalla voglia di essere amato. Ma amato sul serio e per quello che è. Non per quello che si aspettano gli altri. E men che meno per quello che cercano di imporgli.
L’epilogo di Infinito, nel 1999, era stato addirittura imbarazzante: l’impatto viscerale di un tempo si era ridotto a un’immediatezza calcolata. Il desiderio di piacere (e di piacere a quante più persone possibili) aveva smesso di essere una legittima e leale aspirazione del cuore ed era diventato un obiettivo inderogabile stampato nel cervello. Quella che sembrava la stazione di arrivo ideale, con tutta quella gente ad acclamarli e a cantare in coro, non era altro che un binario morto. O il punto di raccordo con una ferrovia fittizia, come quella di un parco dei divertimenti: vai di qua, vai di là, torni al punto di partenza. Non è un viaggio. È un giretto. Non è un’avventura. È un passatempo. Vai di qua, vai di là. Non vai in nessun posto.
Oggi lo riconoscono anche loro: «Il nostro ultimo disco insieme è quello che ha venduto di più, ma è anche il meno bello. È il più pop, ed è stato costruito a tavolino, senza complicità. Il periodo migliore è quello di Terremoto, Spirito e El diablo (gli anni dal 1990 al 1994 – Ndr). Poi, quando abbiamo cominciato con l’elettronica è diventato tutto più noioso». Infatti. La grande forza del rock non è in quello che si vede, ma in quello che si intuisce. In quello che c’è sotto la superficie di un ritmo scandito o di una melodia accattivante. La grande forza del rock è nella sua innocenza. Nella sua attitudine adolescenziale a non preoccuparsi delle conseguenze. Sorride perché è allegro, non per apparire socievole. Urla perché è incazzato, non per impressionare i passanti. Okay: muore dalla voglia di essere amato. Ma amato sul serio e per quello che è. Non per quello che si aspettano gli altri. E men che meno per quello che cercano di imporgli.
Renzulli e Pelù se l’erano dimenticati, come accade quasi sempre col passare degli anni. E col crescere del benessere. Vedevano i vantaggi e sorvolavano sul resto. Era la classica trappola del successo, e loro c’erano caduti in pieno. Tutte quelle cose attraenti e tutti quegli applausi... Cosa poteva mai esserci di sbagliato? La sicurezza li aveva inebriati. Li aveva storditi. Avevano cominciato a chiedersi se fosse davvero indispensabile dividere il trionfo per due. Renzulli poteva concentrarsi sulle musiche, che erano soprattutto sue, e dirsi che erano loro la chiave di volta. Prendi i Deep Purple. Ian Gillan se n’era andato e loro erano rimasti in piedi. Erano rimasti in auge. Child in Time o Smoke on the Water erano grandiose in se stesse, a prescindere dal cantante. Pelù, a sua volta, poteva pensare al pubblico dei concerti, che aveva occhi soltanto per lui, e dirsi che un grande interprete finisce con l’essere il vero artefice della riuscita finale. Prendi i Queen. Freddie Mercury era morto e non c’era stato verso di sostituirlo, neanche con un talento indiscutibile come George Michael.
Renzulli e Pelù si sbagliavano entrambi. Ancora una volta, come per innumerevoli altri a cominciare dai Beatles, la forza dei Litfiba non era nei singoli ma nel loro amalgama. Renzulli era un ottimo costruttore di auto da corsa. Pelù era un ottimo pilota. Renzulli alla guida non funzionava. Pelù alla progettazione nemmeno. Renzulli si è illuso di poter cambiare pilota, ma si è ritrovato con l’equivalente di un autista. Un cantante, Gianluigi “Cabo” Cavallo, che è anche dotato ma che in questo caso si è ridotto a fare la figura dell’imitatore. Pelù si è illuso di potersela cavare da solo e ha fatto la fine dei meccanici dilettanti, che cercano di supplire alla scarsa potenza del motore col vecchio trucco delle marmitte espanse. Il rombo non è male. La velocità è quella che è. E sull’affidabilità lasciamo perdere.
Così, alla fine, i due hanno capito che era meglio ripensarci. Dieci anni di separazione potevano bastare, se c’era ancora una minima intenzione di alzare il tiro e di provare a rinverdire i fasti del passato. L’impossibilità a tornare insieme si è rovesciata nella smania di riunirsi. L’amore era diventato odio ed è tornato a essere amore. O giù di là. La pallina che si era arrestata sul nero ha fatto un piccolo, minimo, decisivo saltino e si è spostata sul rosso. Magari sarebbe successo anche prima, ma il casinò aveva chiuso i battenti e la roulette era rimasta immobile e negletta, a ricoprirsi di polvere. È bastato darle un colpetto, leggero come una carezza, e il risultato è cambiato. Pelù ha chiesto a Renzulli se avesse voglia di scrivergli un pezzo per il nuovo album e Renzulli ha detto di sì. La pallina è scivolata dolcemente sul rosso. Il rosso vince, mesdames et messieurs. Il rosso paga.
L’annuncio ufficiale è arrivato a dicembre. Piero e Ghigo hanno fatto la pace. I Litfiba si riuniscono. Dapprima un tour, la cui parte iniziale si è srotolata nei giorni scorsi, e dopo un nuovo album. Un trionfo annunciato, almeno per quanto riguarda i concerti. Tutto esaurito e pubblico entusiasta. Pelù al centro della scena a ipnotizzare tutti col suo magnetismo fin troppo consapevole. Renzulli più defilato a godersi il suo ruolo ritrovato di alter ego dell’idolo osannato dalla folla. Per ora è un gioco da ragazzi, potendosi avvalere di brani strafamosi e di un’attesa quasi spasmodica da parte dei fan. I nodi verranno al pettine in seguito, quando si tratterà di scrivere (di tentare di scrivere) qualcosa di nuovo che regga il confronto con le cose migliori di un tempo. Ma per ora non importa. Per ora è una festa. E come in ogni festa ci si diverte tanto di più quanto meno si sta a riflettere su quello che c’è stato prima. O su quello che arriverà dopo.
Renzulli e Pelù si sbagliavano entrambi. Ancora una volta, come per innumerevoli altri a cominciare dai Beatles, la forza dei Litfiba non era nei singoli ma nel loro amalgama. Renzulli era un ottimo costruttore di auto da corsa. Pelù era un ottimo pilota. Renzulli alla guida non funzionava. Pelù alla progettazione nemmeno. Renzulli si è illuso di poter cambiare pilota, ma si è ritrovato con l’equivalente di un autista. Un cantante, Gianluigi “Cabo” Cavallo, che è anche dotato ma che in questo caso si è ridotto a fare la figura dell’imitatore. Pelù si è illuso di potersela cavare da solo e ha fatto la fine dei meccanici dilettanti, che cercano di supplire alla scarsa potenza del motore col vecchio trucco delle marmitte espanse. Il rombo non è male. La velocità è quella che è. E sull’affidabilità lasciamo perdere.
Così, alla fine, i due hanno capito che era meglio ripensarci. Dieci anni di separazione potevano bastare, se c’era ancora una minima intenzione di alzare il tiro e di provare a rinverdire i fasti del passato. L’impossibilità a tornare insieme si è rovesciata nella smania di riunirsi. L’amore era diventato odio ed è tornato a essere amore. O giù di là. La pallina che si era arrestata sul nero ha fatto un piccolo, minimo, decisivo saltino e si è spostata sul rosso. Magari sarebbe successo anche prima, ma il casinò aveva chiuso i battenti e la roulette era rimasta immobile e negletta, a ricoprirsi di polvere. È bastato darle un colpetto, leggero come una carezza, e il risultato è cambiato. Pelù ha chiesto a Renzulli se avesse voglia di scrivergli un pezzo per il nuovo album e Renzulli ha detto di sì. La pallina è scivolata dolcemente sul rosso. Il rosso vince, mesdames et messieurs. Il rosso paga.
L’annuncio ufficiale è arrivato a dicembre. Piero e Ghigo hanno fatto la pace. I Litfiba si riuniscono. Dapprima un tour, la cui parte iniziale si è srotolata nei giorni scorsi, e dopo un nuovo album. Un trionfo annunciato, almeno per quanto riguarda i concerti. Tutto esaurito e pubblico entusiasta. Pelù al centro della scena a ipnotizzare tutti col suo magnetismo fin troppo consapevole. Renzulli più defilato a godersi il suo ruolo ritrovato di alter ego dell’idolo osannato dalla folla. Per ora è un gioco da ragazzi, potendosi avvalere di brani strafamosi e di un’attesa quasi spasmodica da parte dei fan. I nodi verranno al pettine in seguito, quando si tratterà di scrivere (di tentare di scrivere) qualcosa di nuovo che regga il confronto con le cose migliori di un tempo. Ma per ora non importa. Per ora è una festa. E come in ogni festa ci si diverte tanto di più quanto meno si sta a riflettere su quello che c’è stato prima. O su quello che arriverà dopo.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.
1 commento:
grazie per aver pubblicato il mio video.
se ai lettori interessa ricordo che sul mio blog ho un post che raccoglie tutti i video che ho girato durante la serata milanese della loro reunion:
http://dasnibba.blogspot.com/2010/04/i-miei-concerti-litfiba-forum-di-assago.html
rock on!!
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