Intervista a cura di Antonio Rapisarda
Dal Secolo d'Italia di mercoledì 16 giugno 2010
La cicatrice ha scelto di portarla nero su bianco sull'avambraccio. "Nick Fante. Dead from alcohol" recita quel tatuaggio molto visibile, in ricordo del fratello scomparso e piegato dall'alcolismo. Lui invece di nome fa Dan Fante, e in dote porta il talento e i demoni di suo padre, uno dei più grandi cantori di quella epopea che è stata l'America polverosa e visionaria del Novecento, il cantastorie del "secolo americano": John Fante. In mezzo ai due una terra che ha visto percorrere prima le scarpe consumate e i sogni di John, figlio di immigrati italiani e della miseria, e che adesso riecheggia nelle miserie post-moderne narrate da Dan. Le stesse che, come è stato con Nick, rischiavano di trascinare giù anche lui...
Vita avventurosa, mille lavori stravaganti, la strada come scrivania, la vita come sceneggiatura. E poi il vortice del vizio e il racconto come cura. Perché tra le tante cose che accomuna i Fante, l'alcol sta alla scrittura come la capacità di commuovere sta alla lucida follia con cui dissacrano. E Buttarsi (edizioni Marcos Y Marcos, pp. 269, € 16,50) la terza opera di Dan che viene tradotta in italiano, in fondo è questo: l'ennesimo tentativo di rialzarsi e ricominciare nonostante l'America. La stessa terra che ha quasi misconosciuto l'opera letteraria del padre (per poi amarlo, grazie a Charles Bukowski, dopo la scomparsa), riecheggia distorta e febbricitante nelle storie raccontate del figlio. Il ritorno in scena per Bruno Dante - l'alter ego dell'autore, come Arturo Bandini lo fu per il padre - è in grande stile: Los Angeles tirata a lucido, limousine e sesso. Ma il trucco si svela presto: perché dietro a muscoli di plastica e strisce di coca, si celano solitudine, incomunicabilità e disprezzo. In mezzo alla disillusione di una società che conosce il declino del tardo-impero c'è lui, Bruno, un'anarca che attraversa il "bosco" di un'America amara ma che resta lo scenario nel quale tentare di tutto per cercare - come confessa lui stesso - «di fare la sola cosa che mi aveva sempre salvato da me stesso: scrivere». Eccolo, un individualista libertario dalle lontane radici italiane (e abruzzesi) a bordo di macchine di lusso che cerca la propria strada in un mondo, è proprio il caso di dirlo, di vere rovine... Pochi meglio di lui riescono a raccontare il declino dell'american dream, l'altro volto del "sogno". Per cui, in un impeto vitalista, sceglie anche questa volta di calarsi in un girone che più di dannati sembra un limbo animato da anime dopate inconsapevoli della "chiamata". E a modo suo come Dante Alighieri, incontrerà il suo Virgilio in «quell'anziana editrice e poetessa dalla grande mente e dalla miccia corta» che proprio un attimo prima del nulla lo salva. Tra Dan Fante e il suo personaggio non vi è quasi linea di demarcazione. Perché se Bruno è vivo lo si deve al fatto che Dan ce l'ha fatta. Come John Fante infatti, il figlio si butta nella vita e ne accetta regole feroci e contraddizioni: che il più delle volte significano sconfitte ma per una vittoria alla faccia del baratro ne vale la pena. E questa lacerazione ha contagiato per trasmissione anche Dan che non ha nulla del compiaciuto e mollaccione figlio di una celebrità. Ma che dal padre ha preso il gusto per la vanità e l'arte di annoiare la morte. Quando lo incontri scopri che la parlata di Dan è lenta, dinanzi a una scrittura che rapisce invece per la velocità. E i suoi sono frammenti beat da un mondo che lui ricompone con la calma serafica di chi l'ha scampata più di una volta. «Mi manca solo un bicchiere e poi divento Bruno Dante», ha confessato ai quindici (!) appassionati che accalcavano la libreria romana della Minimum fax a Trastevere. Perché Dan-Bruno è ancora in cerca di storie da raccontare: la salvezza non è infatti eterna. E noi, poco prima che ciò possa accadere, lo abbiamo trattenuto...
Dan, "Buttarsi" che cos'è per te? Un viaggio nei bassifondi di un'America la cui immagine di sogno s'è rovesciata?
È decisamente una visione del fallimento del sogno americano. Ciò che sta capitando a Bruno in questa storia è ciò che sta succedendo in America. La decadenza economica se vogliamo è come la decadenza che attraversa il mio protagonista. Negli anni '60, diverso tempo fa, mi piaceva pensare alla rivoluzione, ora invece la rivoluzione la stiamo vivendo, è qui. Prima in America e poi in Europa questa accadrà domani e sarà con tutta probabilità un movimento verso il basso. Prepariamoci. Tutto cambierà, lo prometto.
John e Dan Fante. Due "italiani" che riescono a descrivere le lacerazioni di un mondo, quello della tua terra, come pochi hanno saputo e sanno fare.
Penso che gli immigrati, o i figli di immigrati, siano in grado di capire davvero l'assurdità della cultura nei luoghi in cui vivono. Perché hanno visto i loro genitori completamente immersi nella novità e quindi hanno avuto modo di capire come si sono trovati a dover fronteggiare a quella stessa cultura e alle sue contraddizioni. In un certo senso è logico. È un gesto di resistenza.
Rispetto all'Arturo Bandini narrato da tuo padre, il tuo Bruno Dante mi sembra un personaggio più consapevole.
È vero. E penso che lui sia così perché la sua rabbia, e insieme a questo la sua capacità di fronteggiare la cultura statunitense siano molto più forti che in Arturo Bandini. Anche perché adesso negli Usa è davvero tutta una caricatura…
Sia tu che tuo padre non avete mai partecipato al conformismo della cultura progressista e omologata a senso unico. Che posto c'è per scrittori irregolari come voi oggi?
È un'ottima domanda. Penso che un uomo che pensa e che crea debba resistere all'assurdità che lo circonda. Se non lo fa è condannato a essere mangiato, consumato dall'assurdità. C'è tanto nella cultura da cui provengo, ma anche in quella italiana, che è falso. Per cui è necessario riuscire a trovare te stesso in questa falsità. E nel momento in cui lo fai devi gridare ad alta voce. È importante gridare. È importante tenere fede alle proprie opinioni.
Un inno all'individualismo. In fondo ciò che conta è cambiare se stessi…
Certo. Se non sarai consumato dalla tua cultura, ciò alla fine ti renderà più forte. Perché capisci il contrasto. E non hai intenzione di pagare il prezzo della tua adesione a una cultura che senti estranea.
Che cosa ti porta in Italia?
Qui io trovo il mio cuore. In Italia c'è una gentilezza, un dolcezza e una genuinità che è davvero estranea, l'opposto, del modo di vivere americano. Mi trovo molto più a mio agio qui perché c'è molta meno artificialità, non ci sono poi così tanti imbonitori. E poi questo è un posto dove è molto facile essere "pazzi". Ed è "ok" per me. È bello essere pazzi in Italia.
A proposito di pazzi. Ma lo sai che qui da noi accanto a Ezra Pound, Céline sono in tanti a mettere John Fante?
(ride..) Penso che sia in Céline che in Ezra Pound c'è una cosa che anche io condivido: è il senso di alienazione che ci accomuna. È vero, c'è sempre qualcosa da cui ci sentiamo separati. Quando ci si esprime con molta chiarezza ma si è in grado di esprimere qualcosa di potente allora è quello che ci accomuna. Quando sei in grado di trascinare così il lettore significa che sei riuscito a creare qualcosa di unico. C'è da dire che Céline, che leggo con avidità, è troppo depresso per me. Rispetto a Bruno, Céline non ha quella passionalità. Penso di essere più vicino alla poesia di Bukowski. C'è in comune questa profonda essenzialità. Che io chiamo gentilezza e pazzia.
Antonio Rapisarda
(ha collaborato Gianfranco Franchi)
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