Articolo di Giovanni Tarantino
Dal Secolo d'Italia di giovedì 17 giugno 2010
Non a caso per noi italiani è stata definita la partita del secolo. È l'icona di un periodo, un evento di portata generazionale. Il segno della notte in cui l'Italia reagiva al trauma della sconfitta di 25 anni prima. Oltretutto battendo la Germania. Una fotografia, scattata al momento peggiore per quelle che sembravano essere le sorti della Nazionale italiana di calcio, sembra sintetizzare tutto: Gianni Rivera che sembra sbattere contro un palo e il portiere Albertosi, con sguardo maligno, poco dietro, lo osserva. Movenze teatrali ed esistenziali alimentavano le speranze di una nazione, il 17 giugno del 1970, il giorno in cui si giocò Italia-Germania 4-3...
Una semifinale del Mondiale messicano, la finalissima col Brasile di Pelè sarebbe stata persa per 4-1, ma la frame del torneo sembra quasi fare da sfondo a tutto il resto. Il 1970 è l'anno del primo scudetto del Cagliari, l'anno del debutto di Rischiatutto di Mike Bongiorno sul "Secondo programma", in radio la fa da padrone una nuova trasmissione con Arbore e Boncompagni, Alto gradimento. A Sanremo vince Chi non lavora non fa l'amore di Adriano Celentano, mentre i Beatles si sciolgono. Entra in vigore lo Statuto dei lavoratori e si svolgono le prime elezioni regionali in Italia; è l'anno del "naufragio" dell'Apollo 13, della morte di Nasser e Charles De Gaulle. L'anno della morte di Jimi Hendrix e Janis Joplin, che appena l'anno prima avevano dominato le scene di Woodstock. È l'anno degli Aristogatti e di Lo chiamavano Trinità. E proprio nel bel mezzo di questo 1970 la Nazionale di calcio, in un afoso pomeriggio di giugno, ci fece "tornare" nella storia.
Erano gli anni in cui si affacciava al calcio una generazione cresciuta con la colonna sonora dei Beatles e i Rolling Stones. Gianni Rivera, ad esempio, era l'emblema di quei giocatori che cominciavano ad alzare la testa e a parlare delle proprie problematiche, tramite il "sindacato dei calciatori". E proprio Rivera, l'"abatino" di breriana memoria, è il simbolo di Italia-Germania 4-3, o italiagermaniaquattroatrè, così come è passata alla storia. Rivera, regista della Nazionale di Valcareggi e protagonista della celebre staffetta ai Mondiali messicani con Mazzola, ricorda con nostalgia il momento clou dell'incontro, quei passaggi dei tempi supplementari rimasti indelebili nella memoria collettiva nazionale: «Stavamo vincendo 3 a 2 - dice l'ex Golden boy - ma tutte le volte che ci concentravamo in difesa si rischiava troppo perché i tedeschi attaccavano in massa. Sul corner di Libauda l'incubo: Seeler colpisce alla sinistra di Albertosi, dietro c'ero io sulla linea. Arriva il solito Müller, smarcatosi da Rosato, e ci mette la testa. Albertosi è battuto, purtroppo anche io. Lui mi aveva gridato che il pallone era mio. Ci ho pensato migliaia di volte, non ho mai trovato la spiegazione. La Germania si porta sul 3 a 3, Albertosi mi offende, inutile ripetere cosa mi dice. Vado a centrocampo per battere nuovamente, con una sofferenza nel cuore insopportabile. Sembrava che noi funzionassimo solo quando c'era da attaccare, mentre in difesa… Boninsegna salta Shulz, Riva si porta via alcuni avversari. Davanti a me la porta: Meier, il portiere tedesco, mi sembra enorme. Mi arriva il passaggio da Boninsegna, perfetto. Ho paura di mandarla in alto, oppure troppo a destra. O troppo a sinistra. Invece calcio bene e rimango lì, assortito, a guardare il gol più lungo della mia vita, quello del 4 a 3. È un'eternità, che finisce quando vedo gonfiare la rete. Non ho sbagliato e penso: siamo in finale». Attimi vissuti con incedere esistenziale dai protagonisti in campo, così come dai tanti spettatori assiepati davanti alle tv quella sera.
Tutti ricordano, ancora oggi, dov'erano e con chi guardarono quella partita epocale. Nel 2001 Nando Dalla Chiesa l'ha raccontata in La partita del secolo. Storia di Italia-Germania 4-3 (Rizzoli). Partendo dalla feroce repressione preolimpica degli studenti il 3 ottobre 1968 a Città del Messico, sede due anni più tardi della gara dell'Atzeca, Dalla Chiesa racconta in prima persona la storia di una generazione divisa tra sport e politica, fede calcistica e dubbi ideologici. Un piccolo romanzo di formazione con un finale «sessantottino»: quel 4-3 anarchico come rivincita liberatoria e rivoluzionaria sulla prudenza catenacciara e democristiana, la storia di «una generazione che andò all'attacco e vinse (quella volta)». Tutto grazie al gol «sconocchiato e sgraziato» di «Ciabatta Schnellinger», che con il suo beffardo 1-1, all'ultimo minuto dei tempi regolamentari, visto al momento come una disgrazia, regalò invece la gioia dei supplementari. Stesso leit motiv interpretativo del film Italia-Germania 4 a 3 di Andrea Barzini (1990), dove una rimpatriata tra amici reduci della stagione del'68 termina con la visione della partita del mito vent'anni dopo. Adesso in Era l'anno dei Mondiali, curato da Paolo Verri e scritto a più mani dai rappresentanti della nazionale di calcio degli scrittori italiani, è contenuto un racconto di Alessandro Persinotto proprio sul Mondiale 1970, in cui l'autore ricorda: «La tv era quasi sconosciuta; nessuno si sognava, d'estate, di rimanere in casa a guardare il baluginare di quelle forme grigiastre. In paese, d'estate, si correva fuori appena finita la cena, senza aspettare Carosello. Di solito, allora, i padri si preoccupano per i figli. Ma di padri preoccupati per i figli, quel 17 giugno 1970 ce ne sono pochi». Si capisce bene con quale attesa l'Italia si presentò dinnanzi alla televisione per assistere a quella partita. È significativo quanto ha scritto Francesco Merlo in un suo bellissimo articolo-amarcord su Repubblica: «Diciamo la verità: sino alla fine degli anni Sessanta l'Europa per noi era un mondo di sogno, andarci in aereo era ancora un privilegio, vi avevamo esportato contadini immusoniti dalla batosta della riforma agraria e, nonostante la crescita vertiginosa del prodotto interno lordo, non riuscivamo a liberarci dal ruolo di "straccioni geniali". Insomma per sentirsi uguale e occidentale, l'Italia aveva bisogno di una grande affermazione e la ebbe con il calcio, battendo lo squadrone dei panzer del football, della solidità di Borsa e banche, della disciplina e della rinascita vera. Un'impresa storica dunque e non solo un raro evento gioioso nel Paese che meno di sei mesi prima, con la bomba di Piazza Fontana, era precipitato nella violenza e nella paura».
Ma anche dinnanzi ad analisi del genere c'è chi esprime dissenso. Beppe Furino, unico rappresentante della Juventus a quella spedizione azzurra, che all'Atzeca sedeva in tribuna, non è d'accordo: «È una partita che molti ricordano per il risultato eclatante, ma che per novanta minuti non è stata nulla di che. Poi, ai supplementari, le cose andarono come sappiamo, con quei tanti gol che si seguirono rapidamente e avvenne di tutto. Tuttavia non ho mai capito questa carica simbolica che sia stata data a quella partita. Ricordo il grande orgoglio per avere vinto quella partita da parte mia, ma erano già gli anni del boom economico, l'Italia era in buona salute, non era un Paese povero che doveva riscattarsi».
Del tutto differente è l'analisi di un giornalista sportivo come Italo Cucci, che in questi giorni, in Sudafrica, sta seguendo il nuovo Mondiale: «Sicuramente si trattò di un riscatto. L'apice di quella fase di rinascita sarebbe stato raggiunto nell'82, con un presidente della Repubblica che festeggiò al Santiago Bernabeu e un presidente del Consiglio avvolto nel tricolore a Piazza di Spagna. Italia-Germania 4 a 3 è una partita che giunge in un momento particolare della nostra storia perché quello che viene ricordato come il '68 da noi, in effetti, fu il '70. La vittoria di quella semifinale generò un'esplosione collettiva di gioia. Le bandiere, i festeggiamenti, iniziarono senz'altro da lì. C'è da fare un'altra valutazione: la bandiera, il tricolore, solitamente visti come icone di destra, furono decantati successivamente da tutti. L'orgoglio non fu più soltanto retorica ma fondamento: all'Atzeca c'è una targa, tutt'oggi, dove si dice che lì si giocò la più grande partita di calcio di tutti i tempi». Dato che la dice lunga sull'affetto che gli italiani, ancora oggi, riservano alla propria Nazionale: «Per un Paese spesso perdente come il nostro - prosegue Cucci - Italia-Germania riaccese la fiaccola dell'entusiasmo, come poi è accaduto nell'82 e quindi nel 2006. Così come la rivincita di un'altra Italia, quella che vinse nel '34 e nel' 38, con in mezzo le Olimpiadi del '36. In fondo nel '900 la Nazionale è stato l'unico punto fermo di questo Paese: lo dimostrano ancora i 20 milioni di spettatori per la partita contro il Paraguay». Le riflessioni di Cucci, peraltro, sono perfettamente in sintonia con quelle di Giano Accame, che nel suo Socialismo tricolore (1982) sottolineò proprio come l'onda lunga del tifo per la Nazionale di calcio sia stata una sorta di collante per il Paese negli anni tra il 1970, l'anno di "Italia-Germania 4-3", e l'82, anno della straordinaria vittoria al Mundial di Spagna, emblema della consacrazione di un intero Paese che, finalmente, per dirla alla Nando Martellini, poteva gridare di gioia: «Campioni del Mondo! Campioni del Mondo! Campioni del Mondo!».
Giovanni Tarantino
Nessun commento:
Posta un commento