martedì 29 giugno 2010

Requiem per il calcio italiano: da Giorgio Forattini a Massimo Fini

L'insuccesso degli azzurri: procuratori e telecamere hanno sgonfiato il pallone, è il business che comanda
Dal Secolo d'Italia di martedì 29 giugno 2010
Non sarà la morte della patria ma poco ci manca. L’insuccesso azzurro costa. Dalla promessa (svanita) dei calciatori di devolvere alle celebrazioni per l’unità d’Italia parte dei premi, all’invenduto merchandising tricolore: migliaia di bandiere che non si affacceranno da finestre e balconi. Duro colpo per il made in Italy, con i nostri tifosi a vagare come orfani inconsolabili nel palinsesto televisivo. Persino Fabio Capello è stato abbattuto dal fuoco tedesco. Berlino sembra lontana anni luce. Più che campioni del mondo, i nostri sono ormai «campioni dell’altro mondo». Così Giorgio Forattini ha titolato la sua contestata vignetta: undici bare (azzurre) su un campo da gioco. «Contro la Slovacchia – ha spiegato il disegnatore romano – ho visto undici cadaveri. Non volevo augurare la morte ai giocatori ma descrivere la morte, sportiva, della nostra nazionale». Ineccepibile...
E di morte del calcio ha scritto anche Massimo Fini nell’ultimo numero del mensile da lui fondato e diretto, La Voce del Ribelle. «Fine del calcio e di un mondo in generale», ha titolato l’editoriale. Se una volta il calcio era «l’unico spazio rimasto al sacro in una società completamente materialista, un rito in cui i valori simbolici, sentimentali e identitari prevalevano su tutto il resto», adesso è il business a farla da padrone. Procuratori e tv gestiscono la fabbrica dei calciatori. Dallo stadio come luogo di aggregazione interclassista a mero spettacolo servito a domicilio per i più abbienti. Da festa comunitaria a voyeurismo in alta definizione. Come altro definire la telecamera Sky puntata sulla panchina per seguire in diretta le smorfie dell’allenatore? «Il calcio, come previdi in un articolo sul Giorno del lontano 1982 – conclude Fini – morirà per overdose, gonfiato per esigenze televisive. Metafora, anche qui, del mondo occidentale». E come accade in ogni dramma che si rispetti, non sono mancate punte di esilarante comicità, sia pure inconsapevole. Dalla riesumazione di Ringhio Gattuso, mito incapacitante, ad alcune interviste, come quella a Cannavaro. A disastro compiuto, fa sorridere che a chiedere di puntare sui giovani sia uno che s’è tenuto ben stretta la maglia, la fascia e i ricchissimi contratti pubblicitari. Malgrado le ultime stagioni vissute tra Madrid e Torino avessero dimostrato all’intero mondo l’inadeguatezza dell’ex pallone d’oro a giocare a certi livelli. Meno che a Lippi, of course.  
Roberto Alfatti Appetiti
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