Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di martedì 20 luglio 2010
Che la lezione del Novecento non coincida soltanto con il suo volto totalitario è quanto emerge in tutta evidenza da uno straordinario libro a quattro mani che arriva in libreria anche come omaggio di uno dei due autori al filosofo e interlocutore scomparso prematuramente poco più di un anno fa: I filosofi e la vita (Bompiani, pp. 214, € 10,50). Il giornalista Antonio Gnoli dedica infatti il volumetto al coautore Franco Volpi, «uno studioso in cui disciplina tedesca e curiosità mediterranea convivevano», la cui vita è stata stroncata da un incidente in bicicletta all'età di soli 57 anni. Un filosofo morto ancora giovane, ma che in vita ha avuto modo di incontrare i principali "patriarchi" del Novecento, molti grandi vecchi che avevano attraversato, non solo con il pensiero, il secolo più incandescente: Ernst Jünger, Hans-Georg Gadamer, Albert Hofmann o Armin Mohler... Per non dire di Martin Heidegger e di Carl Schmitt, studiati e assimilati in tutta la loro vasta e complessa produzione intellettuale.
Una cosa va sottolineata subito, a scanso di equivoci e anche per scardinare i tanti luoghi comuni sulla (presunta) egemonia della (presunta) sinistra: i testi raccolti in I filosofi e la vita provengono per la maggior parte da articoli apparsi a doppia firma sulle pagine culturali del quotidiano la Repubblica tra il 1995 e il 2008. E con essi Antonio Gnoli si conferma in assoluto come uno migliori giornalisti culturali italiani di questi nostri anni insieme, per fare qualcun altro dei pochissimi nomi, a colleghi come Pierluigi Battista, Stenio Solinas o Filippo Ceccarelli... Con l'insieme di testi e interviste presenti in questo libro, del resto, Repubblica, si conferma come il quotidiano che maggiormente si è spinto sul fronte della cultura (anche politica) meno conformista in circolazione. Una caratteristica che può assimilare le sue incursioni di giornalismo culturale forse solo alla prima stagione del Giornale di Montanelli, lì dove scrivevano Eugène Ionesco e François Feytö, Anthony Burgess e Jean-Francois Revel...
Il libro di Gnoli e Volpi va infatti letto come un viaggio nell'anima profonda e segreta del Novecento: la turbolenta vicenda del secolo scorso, sostengono i due autori, si comprende solo «nella sua luce spirituale, filosofica e letteraria». La scommessa è quella di una "modernità con l'anima", la dimensione per cui Hofmann confessa ai suoi due intervistatori: «La contemplazione è ancora possibile, non c'è contrasto tra le scienze naturali e l'esperienza mistico-religiosa». Volpi, formatosi sulle intuizioni di Schopenhauer e Nietzsche, era infatti convinto che si dovesse andare al cuore della tragedia - e della stessa "ferita" - della modernità, diffidando di tutte le superstizioni che una certa mentalità illuminista aveva diffuso: «Era consapevole - ricorda Gnoli - che la nozione di progresso, di ragione, di calcolo, di individuo avevano fiaccato in modo irrimediabile la tenuta della tradizione, era come se, privandosi di quell'autorevole aura, il mondo contemporaneo fosse piombato in una pragmatica oscurità. Volpi avvertiva in forma acuta i rimpianto di ciò che si era perduto; ma al tempo stesso giudicava grottesche certe nostalgie per il passato». La scommessa, era il suo azzardo, era quella di riuscire a stare sul crinale non come colui che sceglie una parte o l'altra, il rimpianto o l'ottimismo a una dimensione, ma come chi riesce a vivere contemporaneamente entrambe le esperienze. Da qui l'interlocuzione con pensatori come Heidegger e Jünger, Eliade e Cioran, Guénon e Gòmez Dàvila. La metafora privilegiata era quella del "ponte", che fa avvicinare due prospettive diverse, fa dialogare due realtà pur conservandone la differenza. E cosa è stato il miglior Novecento, l'aspetto magico del secolo scorso contrapposto alla sua logica totalitaria, se non l'amalgama delle contraddizioni, una tendenza costitutiva all'ossimoro, alla logica dell'et-et?
Jünger, che era nato nel 1895, spiegava nel 1995 a Gnoli e Volpi che il Novecento si prefigurò con due eventi, la scoperta dei raggi X e l'affare Dreyfus: la possibilità di entrare nella materia precorrendo la fisica atomica e la vittoria dell'opinione pubblica contro un caso giudiziario di persecuzione in nome della realpolitik: «Fin da bambino ho guardato con attenzione a ciò che di nuovo era in corso, intuendo e presagendo ciò che sarebbe accaduto». E anche Gadamer, nato nel 1900 e intervistato alla vigilia dei suoi cento anni, confessava: «L'evento che da bambino più mi impressionò, rammento ancora le lunghe conversazioni a tavola con mio padre, fu il naufragio del Titanic, il primo segnale, la prima avvisaglia che il progresso non avrebbe portato solo rose ma anche spine e dolori...».
È comunque «un'alchimia di mescolanze e contrapposizioni» che delinea il Novecento prescelto da questi "patriarchi". Così, il giovane Jünger si confrontava con esponenti della destra come Edmund Schultz ma anche con Ernst Niekisch o Bertolt Brecht, recensiva von Salomon e scriveva delle memorie di Trotzky; leggeva con entusiasmo Nietzsche ma apprezzava le categorie marxiane di interpretazione della storia. Analogamente non è stata proprio una certa sinistra intellettuale italiana (Cacciari, Marramao, lo stesso Pierangelo Schiera che aveva curato con Gianfranco Miglio la prima raccolta italiana di scritti schnittiani per il Mulino) a sdoganare nel dibattito pubblico il cattolico ed "epurato" Carl Schmitt? Armin Mohler ricorda anche che «quando nel 1968 le giovani generazioni riscoprirono il pensiero di Schmitt lui ne fu profondamente contento. Schmitt si schierò subito coi nuovi adepti e dichiarò che lo spazio per i conservatori in Germania era ormai esaurito...». Non solo: sempre nel '68 gli studenti contestatori tedeschi invitarono Alexandre Kojève, che spiegò al loro leader Rudi Dutschke che dopo Berlino sarebbe andato a Plettenberg: «A trovare Carl Schmitt, l'unico pensatore con cui oggi in Germania valga la pensa discutere». D'altronde, lo stesso Gadamer, considerato un conservatore, a differenze di Adorno, che ebbe problemi con gli studenti, dialogò con i sessantottini: «Si trattava di comprendere le esigenze di rinnovamento veicolate dalla protesta studentesca e di mediare, non di opporre loro un atteggiamento oltranzista di chiusura...».
Ciò che accomuna i pensatori presentati che fanno da cornice a I filosofi e la vita è sostanzialmente una visione della filosofia come avventura. Il libro si delinea come un percorso di storia delle idee, un intarsio di intrecci reali, di incontri con uomini straordinari. «Ho seguito solo il mio pensiero», disse una volta Schmitt. Per spiegare: «Sono un avventuriero intellettuale. Solo così si formano pensieri e conoscenze. Sono pronto ad accollarmi il rischio, e comunque il mio conto l'ho pagato». E l'avventura del miglior '900 è quella che procede, appunto, per incontri con uomini, libri, filosofie. In piena guerra una lettera di Schmitt raggiunge l'amico Jünger sul fronte del Caucaso: «La storia dell'umanità è un attraversamento dei quattro elementi. Ora siamo nel fuoco». Gli autori che nomina - Bruno Bauer o Tocqueville («aveva capito tutto già nel 1835!») - sono altrettante porte segrete per entrare le labirinto dell'altro Novecento. Come la sua grande passione per Guénon, proseguita sino e oltre quel '68 in cui venne a contatto con un gruppo di suoi discepoli di Basilea. «In questi giorni - scriveva sempre Schmitt a Jünger il 12 dicembre 1937 - è stato qui un singolare italiano, il barone Julius von Evola. Sa molte cose e mi ha detto, nella conversazione, di considerare come inizio della modernità il processo di Filippo il Bello contro i Templari...». Così anche Armin Mohler, che di Schmitt fu discepolo e di Jünger il segretario privato, autore di «un testo che negli anni è diventato un "cult" della destra, La rivoluzione consevatrice, ricordava a Gnoli e Volpi che durante un viaggio a Roma conobbe alcuni evoliani i quali gli dissero che Evola avrebbe voluto conoscerlo: «Poiché il mattino seguente dovevo ripartire, combinammo un incontro che era quasi notte, ed Evola mi ricevette in pigiama. Nonostante le circostanze, fu una conversazione interessante, durante la quale parlò quasi sempre lui. E alla fine mi disse: "Lei è infinitamente migliore nello scritto che nell'orale"...».
E sono molti altri gli autori che quali "patriachi" privilegiati potrebbero aiutarci a penetrare il Novecento misterioso, soprattutto nel suo volto alternativo alla fenomenologia spersonalizzante e totalitaria. Si va da Kàroly Kerényi, Aldous Huxley e Carl Gustav Jung, con cui si confrontò Hofmann, a Aby Warburg e Erwin Panowsky, da Mircea Eliade a Edmund Husserl. D'estrema attualità, infine, l'invito a far propria la prospettiva di Rémi Brague sulla questione dell'identità. Molte componenti, sostiene il filosofo francese, hanno confluito storicamente nella formazione dell'Europa: il mito e il pensiero greco, la romanità, il cristianesimo, la cultura germanica, l'influsso arabo musulmano e quello bizantino, la presenza ebraica: «La nostra identità è nata dalla stratificazione di molte componenti e non coincide con nessuna di esse in particolare». Quindi più che identità dovremmo parlare a suo dire di «attitudine a saper ricevere e trasmettere, a trovare ciò che è proprio soltanto attraverso ciò che è altro e straniero». Un'identità eccentrica, ai confini con il meticciato culturale, la quale definisce una tradizione «immune dalle tentazioni integraliste». Ma che è il nostro destino.
Luciano Lanna
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