martedì 20 luglio 2010

Mel Gibson e il tramonto dei teo-con (di Gianfranco Franchi)

Articolo di Gianfranco Franchi
Dal Secolo d'Italia di martedì 20 luglio 2010
Ad affermarlo è il New York Times per il quale siamo ormai nei giorni del tramonto della destra teo-con. I duri e puri del fondamentalismo ultrareligioso perdono infatti la loro icona cinematografica, Mel Gibson. E Frank Rich, uno degli editorialisti di riferimento del quotidiano Usa, legge e interpreta la sua recente, non inattesa, nuova débâcle con grande personalità: «La buona notizia su Gibson è che il giorno del giudizio per l'attore e regista è arrivato in parallelo con il declino della destra cristiana. Gibson è stato semplicemente un sintomo e il beneficiario di un momento storico ormai seppellito...».
Un momento storico caratterizzato dal trionfo delle crociate morali-religiose, sostiene Rich. E oggi, che «gli ayatollah di una certa destra religiosa sono finiti in carcere e sono morti», l'integralista wasp involontariamente famoso anche per certe battute razziste e sessiste si ritrova costretto ad abbandonare Hollywood, meditando un mesto ritorno nelle sue fattorie australiane, al fianco della comprensiva ex moglie, madre dei suoi sette figli, Robyn Moore. Già: la sua relazione extraconiugale con la modella Oksana Grigorieva, con tanto di nuova figlia, è terminata con una squalificante telefonata intrisa di razzismo, violenza e volgarità (la signora è degna, bontà divina, di «essere stuprata da un branco di negri»). E l'uomo che gli ossessionati dal moralismo e dal valorismo d'accatto reputavano paradigma politico-culturale, è finito sostanzialmente in archivio. Bye-bye Mel. Gibson sul viale del tramonto, allora, assieme ai suoi sostenitori teo-con. Anche qui in Italia, qualche anno fa, si sbizzarrivano - ricordate? - stanchi ma prepotenti epigoni dei loro omologhi statunitensi, pontificando e predicando, savonarolidi: integralisti d'un moralismo più sbandierato che sostanziale, custodi di valori naturalmente fondamentali e irrinunciabili, cristiani pur nell'ateismo di fondo (neanche episodico). E adesso, mogi mogi, si vanno rintanando nell'ombra, meditando forse, disinvolti, nuove e prevedibili metamorfosi.
Nel cinema occidentale, intanto, scintillano l'estro e il talento dell'altro regista statunitense di punta: espressione d'una destra ben diversa, libertaria, dialettica e democratica, campione di una pietas e d'una fratellanza nei confronti del nemico che Gibson non poteva nemmeno vellicare, Clint Eastwood continua a stupire, spiazzare e sedurre il pubblico, rinnovandosi con intelligenza e con coraggio, forte d'una umanità solare. Soltanto negli ultimi anni, opponendosi con naturalezza e con granitica tenacia alla volgarità e alla grettezza delle politiche neo e teo-con, il vecchio grande Clint ha dato vita a opere che hanno fatto innamorare i cittadini d'un'altra idea di destra. Quella in cui è naturale riconoscersi. Gran Torino ha raccontato un'altra forma di tolleranza, rispetto e considerazione nei confronti dei "nuovi americani": ha illustrato un sentiero sensato e avvincente di integrazione e assimilazione. E questo senza nascondere le difficoltà, e questo senza negare la fatiscenza dei pregiudizi, e questo senza piegarsi al politicamente corretto. Million Dollar Baby è stato un film che ha saputo fronteggiare il dramma del "Fine vita" mostrando quanto possa essere pietosa la scelta di limitare e cancellare le sofferenze delle persone amate, quando queste sofferenze sono destinate a durare in eterno, distruggendo ciò che rimane dell'anima dell'ammalato: sradicando la speranza, annichilendo ogni forma d'umanità. Il dittico composto da Flags of Our Fathers e dal magistrale Lettere da Iwo Jima, infine, ha saputo interpretare e incarnare con classe e sensibilità non soltanto il senso e i significati del patriottismo, ma tutto il necessario, profondo e assoluto rispetto che si deve portare ai vinti, agli sconfitti. Non alle loro ragioni, badate bene: ma alla loro esistenza, alla loro essenza, al dramma dignitoso e nobile della loro resa. In questi due film Clint ha raccontato esattamente la stessa storia, quella d'una battaglia per la difesa d'un'isola sacra alla cultura nipponica: e l'ha raccontata prima da prospettiva americana, quindi da prospettiva giapponese. La distanza rispetto allo yankie-aussie non poteva, a quel punto, essere più assoluta, netta e incontrovertibile. «Sono un libertario - ha spiegato anni fa Clint Eastwood - e amo l'indipendenza. Venero lo stato mentale di chi rimane indipendente in politica e nella vita».
Una lezione alla quale Clint è rimasto sempre fedele, sino al recente Invictus, declinandosi radicalmente nella destra aperta all'integrazione e ai diritti. Ecco, se la politica contemporanea passa soprattutto attraverso l'immaginario, siamo davvero all'emersione (anche) cinematografica di due destre possibili, e alla sconfitta della versione che tanto ha affascinato gli esponenti nostrani della cosiddetta "destra divina" e le truppe degli "spaghetti teocon". Mel Gibson, che tanto si gloriava dei suoi valori familiari, ha finito per perdere il controllo cadendo ripetutamente in contraddizione con se stesso e con il suo avatar: finendo, paradossalmente, per danneggiare l'immagine di quella religione che tanto ribadiva di amare. E a questo punto non stupisce, tornando a cercare dichiarazioni d'archivio, scoprire che sul Time, nel 2004, il regista statunitense Michael Moore aveva rilasciato una dichiarazione profondamente profetica: «La Passione di Cristo di Gibson si concentra sulle ultime ore della vita di Gesù e trascura il resto dell'insegnamento cristiano, mentre il mio film si collega al resto del suo ministero». Il suo film era Fahrenheit 9/11, atto d'accusa contro l'intervento militare in Iraq. Il presidente Bush, quello che i Radiohead avevano salutato con un sobrio Hail to the Thief, giusto qualche anno prima, complice la scarsa trasparenza della sua elezione, allora aveva commentato, negligente: «Moore è atroce». Atroce, piuttosto, sembra l'eterogenesi dei fini e la lezione di storia e di civiltà impartita ai teo-con in una manciata d'anni. Atroce e sacrosanta. Forse semplicemente necessaria.
Gianfranco Franchi

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