lunedì 19 luglio 2010

Solomon Burke, la preghiera blues che accoglie tutti senza imporre dogmi (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 18 luglio 2010
Il canto come puro istinto. Il canto come un respiro che si condensa e diventa suono, affinché anche gli altri, tutti gli altri che vi si imbattono, abbiano una possibilità in più di ricordarsi della sua intrinseca meraviglia. La vita scorre incessantemente. Dentro di noi e tutto intorno. Perché rimanete indifferenti alla sua bellezza? Al suo miracolo?
Solomon Burke non è solo uno dei più grandi e acclamati esponenti del soul, il genere che a partire dagli anni Sessanta reinventò il rhythm'n'blues e che ne aprì le porte anche al pubblico bianco. È anche, e forse soprattutto, un ministro di Dio, nel senso peculiare che assume questa espressione negli Stati Uniti d'America. Dove le chiese, spesso, oscillano fra la maiuscola e la minuscola. Fra il luogo di culto e il punto di ritrovo. Fra il singolo edificio, il cui raggio d'azione è circoscritto a una certa comunità, e l'organizzazione di più ampia portata, che aggiunge un'ennesima variante alle interpretazioni "fai da te" delle Sacre scritture. Un ennesimo rivolo allo sterminato delta del cristianesimo protestante.
Quella di Burke si chiama "House of God for All People and World Wide Center for Life and Truth". Ma c'è da ritenere che il nome sia del tutto secondario. Il succo è che nessuno andrà troppo per il sottile, prima di darvi il benvenuto. Proprio come a un concerto, più o meno. Non ha importanza il motivo esatto per cui siete arrivati fin qui. Ha importanza (potrebbe avere importanza) che non gettiate al vento l'occasione che vi è capitata. Se avete troppi pensieri metteteli da parte. Se avete un cuore, apritelo. Anche solo uno spiraglietto, se non riuscite a fare di meglio. Ci penserà il vecchio Solomon a spalancarlo. Ha fiato da vendere. Ha passione da regalare. Il soffio diventerà vento, il vento uragano. Un uragano benigno. Il vostro spiraglietto si allargherà a dismisura. È inutile resistere. È sciocco resistere. Inchinarsi a Dio non è essere sconfitti. È sconfiggere l'ego. È rinascere a nuova vita. Così dicono i mistici, almeno.

Stando alle cronache familiari, Solomon ha recitato il suo primo sermone ad appena sette anni. Sostanzialmente non ha più smesso. Cantare è una possibilità. Comunicare è un destino. Il suo messaggio, come ha scritto Charles M. Young sulle pagine di Rolling Stone, «è composto da un 99% di ispirazione dettata dal momento e uno scarso 1% di dottrina». Lui conferma: «Non credo nella religione istituzionalizzata. Credo invece nella libertà di culto, perché non ho ancora trovato un gospel che mi dica qualcosa a proposito della necessità di una Chiesa organizzata. E non c'è neanche un gospel che mi dica di pregare la domenica. È una cosa che spiego ogni giorno, anche al telefono. Un sacco di persone mi chiedono: "Ma in che cosa dovremmo avere fede?", e io rispondo: credete solo in tutto ciò che è reale e vi fa stare bene. Qualsiasi cosa vi muova, seguitela».
Il Don Juan di Castaneda affermava una cosa simile: «Seguite solo un sentiero che abbia un cuore». Se a qualcuno sembra ovvio sarà il caso che ci ripensi. Di ovvio non c'è proprio niente. Non è solo un concetto. Non lo si apprende con le orecchie. E non lo si valuta col raziocinio. Come ha scritto Yogananda, nella sua celebre Autobiografia di uno Yogi, «La saggezza non si assimila con gli occhi, ma con gli atomi. Quando la convinzione di una verità non è ancorata solo nel tuo cervello, ma in tutto il tuo essere, allora puoi cautamente avallarne il significato». Cautamente: il contrario dei dogmi. Don Juan avrebbe sorriso.
Don Juan era pieno di sottigliezze. Solomon Burke no, per quello che se ne sa e che egli stesso lascia trasparire. Solomon Burke, variamente celebrato come "il Re del Rock'n'Soul" e come "il Vescovo del Soul" (gira gira le iperboli si ripetono), punta tutto sulla cordialità e sull'immediatezza. Anche sul piano artistico. La facilità con cui canta, e con cui riesce a imprimere forza e verità a ogni brano, agevola il pubblico tanto quanto rischia di confondere la critica. O di renderla superflua. Burke ha un talento smisurato, ma è un talento così istintivo da sembrare incapace di guardare al di là di se stesso. Suscitare emozioni è un dono, non un progetto espressivo. Distendere la voce su qualsiasi ritmo e su qualsiasi melodia è un'attitudine naturale, più che un'abilità consapevole. L'ideale per rivitalizzare ciò che già esiste. Un handicap, di contro, per ripensarlo e per provare a superarlo.
Van Morrison si concede una deliberata esagerazione, quando afferma che «Solomon potrebbe cantare l'elenco del telefono ed essere impeccabile», ma senza dirlo esplicitamente pone un problema reale, che infatti vale anche per un'altra straordinaria cantante come Mina. Il problema del repertorio. Jimi Hendrix avrebbe potuto suonare tutto e accontentarsi di quello: di essere il re degli esecutori. O, se si preferisce, degli interpreti. Jimi Hendrix non si accontentò. Si lanciò all'inseguimento dell'ignoto e provò a vedere se i suoi presagi erano degni di fede. Consciamente o inconsciamente lo aveva capito: essere re presuppone un territorio ben identificato e dei confini precisi. Gli esploratori non sono re. Semmai lo diventeranno in seguito.
Solomon Burke non sa cosa farsene, dell'ignoto. È uno che ha avuto quattro mogli. E che ha 21 figli. E un bel mucchio di nipoti. Uno che ha diverse attività imprenditoriali al di fuori della musica. E che, sia dentro che fuori la musica, ha da sempre un'attenzione piuttosto spiccata per il denaro. Non come feticcio, ma come parte integrante della vita. La propria e quella della sua vasta, vastissima famiglia. Solomon è un patriarca. Non un profeta.

In tutti questi anni ha inciso alcune decine di album - e nel 2002 ha ottenuto un inaspettato Grammy Award per il blues con Don't Give Up on Me - ma è sul palcoscenico che dà il meglio di sé. Ieri sera era in cartello al Brianza Blues Festival Villa Reale di Monza, oggi all'Open Air di Avellino, domani in Sicilia per l'Etna In Blues. Sempre più enorme, coi suoi duecento chili che lo costringono a restarsene seduto su una poltrona altrettanto immensa. Sempre più anziano, coi suoi oltre 70 anni. Ma sempre lì ad aspettare che i suoi fedeli lo vadano a trovare. E che quelli che sono capitati lì per caso si convertano.
Federico Zamboni
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