Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 1 agosto 2010
Patti Smith prima che avesse successo. Prima che cominciasse anche solo a immaginarselo, che un giorno avrebbe potuto diventare una musicista affermata, un caposaldo del rock, un’icona piantata saldamente al crocevia tra le parole e i suoni. Poesie che diventano canzoni. Reading che diventano concerti. L’alleanza promettente, e rischiosa, tra la verità ancestrale della voce umana e le risorse artificiali della tecnologia. Le parole che sprofondano nel ritmo, come animali selvaggi che si inoltrano nella savana, dove l’erba è più alta e non puoi mai sapere esattamente cosa ti aspetta. Sei davvero pronto, a inseguirli? A raggiungerli? A guardarli dritti negli occhi?I suoni che soffiano sulla scena come venti instabili. E ingannevoli. Il caldo non significa necessariamente bel tempo. Il fresco può mutare facilmente in freddo. Speri nella pioggia che ristora e ti ritrovi in una tempesta che ti mette i brividi. I suoni e le parole. I suoi suoni. Le sue parole. Horses, nell’album omonimo del 1975. «Quando improvvisamente Johnny / ha la sensazione / di essere circondato da / cavalli cavalli cavalli /che vengono da tutte le direzioni / bianchi stalloni splendenti d’argento con le narici in fiamme».
Distese ondeggianti e quasi ipnotiche. Cortine affascinanti e insidiose, che ti sfidano a scostarle e a vedere (a scoprire, o forse a ricordare) cosa si cela realmente al di là del gioco delle trasparenze e delle ombre. La rassicurazione illusoria di quel battito potente ed elettrico. La sensazione incombente che la pulsazione possa interrompersi di colpo, al pari di una vita che si spezza all’improvviso solo perché è finito il suo tempo.
Patti Smith ai suoi vent’anni, insieme al primo amore, e amico per sempre, Robert Mapplethorpe. Entrambi predestinati, ma senza averne alcuna certezza. O alcuna presunzione. Entrambi determinati, ma in un modo ancora confuso. Entrambi animati dallo stesso grande desiderio di esprimersi, quando esprimersi significa innanzitutto esplorarsi. Entrambi con la stessa voglia di rispecchiarsi in un’opera che soddisfi le loro esigenze, prima di ambire a soddisfare quelle di chiunque altro. Patti che scrive e disegna: la musica e il canto sono scoperte di là da venire. Robert che disegna e plasma materiali creando manufatti a metà strada fra l’artigianato e qualcosa di più impegnativo: la fotografia è un territorio ancora lontano, anche se ci si sta avvicinando senza saperlo. Patti e Robert. Giovani e innamorati. Inesperti e ingegnosi. Squattrinati come bohemien, ma tutt’altro che fannulloni. Benvenuti i lavori che capitano, visto che servono per pagarsi l’essenziale. E per concedersi il minuscolo lusso di uno spuntino sfizioso in un locale pubblico, di una gita in metropolitana fino a Long Island, di un regalo così ben scelto, e magari arricchito da qualche sapiente, imprevedibile, esclusivo ritocco, da trascendere il suo prezzo reale. Non sono solo oggetti. Sono simboli. Non sono solo acquisti. Sono talismani impregnati d’amore. E, pertanto, carichi di magia.
Patti e Robert ai loro vent’anni. Nei tempi strani e perduti, a cavallo tra la fine dei Sessanta e l’abbrivio dei Settanta, in cui tutto sembrava possibile. E a forza di sembrarlo lo diventava, quanto meno sul piano personale. Patti Smith, e come lei chissà quanti altri, che lascia la provincia in cui è cresciuta, nel suo caso il New Jersey, e si trasferisce a New York. Quell’aggettivo, “new”, che si ripete in entrambi i contesti ma che cambia completamente di significato. Prima, nei luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, è una semplice denominazione che si perpetua e che però non vuol dire più nulla. L’incrostazione di un passato remoto in cui tutto ciò che era americano era nuovo per definizione, in quanto paragonato all’Inghilterra o a qualsiasi altro posto della vecchia Europa.
Dopo, nella primavera del 1967, nella “Big Apple” della Statua della Libertà e dei grattacieli, delle infinite possibilità e degli innumerevoli fallimenti, lo stesso aggettivo si riaccende di emozioni e di aspettative. Un seme può essere buono, ma ha bisogno di un terreno fertile. Un individuo può essere speciale, ma ha bisogno di qualcuno che se ne accorga. La provincia è allarmata dai cambiamenti. New York è affamata di novità. La provincia ti tiene d’occhio per vedere se rispetti le regole. New York ti osserva soltanto se sei in grado di attirare la sua attenzione. Gli adulti difendono quello che hanno, perché per ottenerlo hanno dovuto pagare un prezzo. I giovani si tengono stretti i loro sogni, perché in fondo non hanno altro. Gli adulti vivono per dimenticare ciò che hanno perduto lungo la strada. I giovani scalpitano per cominciare la corsa. Credono di essere cacciatori. Non sanno che sono prede. Mustang che se si lasciano catturare finiranno in un allevamento. Resteranno cavalli (Horses). Non saranno più liberi. Mai più.
Patti Smith, la poetessa che sappiamo, si trasforma in narratrice. Nei suoi versi domina la passione travolgente che procede per visioni, come una luce che svela i dettagli a poco a poco, a forza di bagliori successivi che non si stabilizzano mai in un’illuminazione costante. Invece in questo Just Kids (Feltrinelli, pagg. 293, € 19) la passione si stempera in affetto. La sacerdotessa (la sciamana) abbandona la liturgia misteriosa del rito, davanti al braciere cosparso di essenze segrete, e si accomoda accanto a un fuoco domestico, che sa di cibo e di tisane. La donna anziana che ha superato i sessant’anni si volge indietro e osserva la sua giovinezza. E insieme alla sua quella della generazione alla quale è appartenuta. Parla di luoghi leggendari come la Factory di Andy Warhol, come il Max’s Kansas City, come il Chelsea Hotel. Parla dell’energia che scorreva a fiumi. Parla dell’errore, tragico, di credere che la droga fosse un catalizzatore che avrebbe permesso nuove e provvidenziali alchimie interiori, invece che un’esplosione tanto fantasmagorica quanto distruttiva. E a Robert, morto il 9 marzo 1989, rende omaggio con una riflessione pacata: «Da lui ho imparato che la contraddizione è spesso la più limpida forma di verità». Il caos che è dentro ciascuno di noi va innanzitutto esplorato, prima di capire cosa riusciremo a farne. O cosa lui riuscirà a fare di noi.
Patti Smith, la poetessa che sappiamo, si trasforma in narratrice. Nei suoi versi domina la passione travolgente che procede per visioni, come una luce che svela i dettagli a poco a poco, a forza di bagliori successivi che non si stabilizzano mai in un’illuminazione costante. Invece in questo Just Kids (Feltrinelli, pagg. 293, € 19) la passione si stempera in affetto. La sacerdotessa (la sciamana) abbandona la liturgia misteriosa del rito, davanti al braciere cosparso di essenze segrete, e si accomoda accanto a un fuoco domestico, che sa di cibo e di tisane. La donna anziana che ha superato i sessant’anni si volge indietro e osserva la sua giovinezza. E insieme alla sua quella della generazione alla quale è appartenuta. Parla di luoghi leggendari come la Factory di Andy Warhol, come il Max’s Kansas City, come il Chelsea Hotel. Parla dell’energia che scorreva a fiumi. Parla dell’errore, tragico, di credere che la droga fosse un catalizzatore che avrebbe permesso nuove e provvidenziali alchimie interiori, invece che un’esplosione tanto fantasmagorica quanto distruttiva. E a Robert, morto il 9 marzo 1989, rende omaggio con una riflessione pacata: «Da lui ho imparato che la contraddizione è spesso la più limpida forma di verità». Il caos che è dentro ciascuno di noi va innanzitutto esplorato, prima di capire cosa riusciremo a farne. O cosa lui riuscirà a fare di noi.
Federico Zamboni
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