È difficile non sentire forte la sensazione che tutto, ma proprio tutto, è andato in frantumi. Che i sacrifici, le svolte sofferte, l’abbandono di storie e tradizioni nobili siano stati compiuti “al buio”, senza una direzione di marcia chiara, su un sentiero che ha cambiato direzione alla prima irregolarità del manto stradale.
Il dramma che in queste ore sconvolge il Popolo della Libertà è prima di ogni altra cosa uno psicodramma interno al perimetro degli ex esponenti di Alleanza Nazionale. Una tragedia fatta di amicizie spezzate, di percorsi divisi, di sentimenti e risentimenti. Risuonano nei capannelli e nelle riunioni più o meno informali i riferimenti alla coerenza, alla linearità del proprio percorso politico, alla fedeltà ai valori di riferimento. Dispiace rilevarlo, perché qualunque storia personale fatta di passione e idealità merita rispetto, però oggi più che mai tutto questo ha il sapore del dispiacere postumo, ritardato.
Dal congresso di Fiuggi ne è passata di acqua sotto i ponti. La traversata impervia dei neo-fascisti in democrazia ha descritto la sua parabola, portando gli eredi della Repubblica Sociale Italiana dalle “fogne” agli incarichi ministeriali ed istituzionali. Spesso dimostrando la validità e la preparazione di quella classe dirigente cresciuta nel culto dell’Idea – rigorosamente con la “i” maiuscola – e nella convinzione di una diversità quasi antropologica rispetto al resto della politica italiana. I riti cambiavano, i partiti modificavano i propri nomi ma loro, i missini a denominazione di origine controllata, restavano saldamente ancorati alle loro radici. In mezzo agli altri eppure unici. In coalizione con i vecchi nemici di un tempo eppure capaci di preservare la loro integrità morale e di farsi guidare dai propri capisaldi. Una comunità distinta e separata dal resto. Sicuramente piena di dissidi, divergenze, contraddizioni interne ma comunque unita da uno spirito più alto. Tenuta insieme dalla consapevolezza di appartenere alla stessa famiglia, di avere gli stessi avi, gli stessi zii, gli stessi nonni, lo stesso “credo”.
Con questo bagaglio di certezze uscirono dalla “casa del padre” e coltivarono il sogno tatarelliano di andare “oltre il polo”, di costruire una grande “alleanza nazionale” che avesse nella destra – politica, culturale – il baricentro di una nuova stagione della Repubblica. Una destra che sapesse vincere culturalmente la battaglia delle idee, che fosse in grado di permeare la società dei propri valori e dei propri principi, portandoli al governo del Paese.
Oggi, come d’incanto, quei ricordi sembrano essere privi di senso e di significato. La sensazione che quelle battaglie siano state tradite prevale su tutto, come se per anni si fosse combattuto per niente. Una percezione trasversale ai due schieramenti in campo. La avvertono i “finiani”, che si sentono i veri depositari dell’evoluzione moderna della storia della destra politica italiana, come i berlusconiani, per i quali le posizioni di trincea in difesa del Cavaliere coincidono con il presidio di una tradizione storica e gloriosa.
La verità, difficile da digerire, è che la casa comune dell’ideologia e del senso di appartenenza è crollata. Che dopo la morte di Pinuccio Tatarella la strategia di fare della destra il cuore pulsante e la testa pensante della coalizione da contrapporre alle sinistre è fallita. Che il disinteresse per quella casa comune e la sempre più crescente attenzione per seggi e ministeri, assessorati e sindacature ha fatto oltrepassare una volta di più quella linea sottile che separa la coerenza dall’opportunismo. Che il correntismo ideale del Movimento Sociale Italiano si è rapidamente trasformato in un correntismo di potere e di gestione, di incarichi e prebende. E oggi quella linea di confine si è sbiadita a tal punto da essere diventata invisibile.
Anche per gli ex missini – così come era accaduto prima per socialisti e democristiani – è cominciata la diaspora. Ognuno di loro, in cuor suo, conserverà la convinzione di essere rimasto fedele alla propria storia politica, ignorando che il crollo di quella dimora è stata un’opera collettiva, cui hanno contribuito tutti, nessuno escluso. Anche coloro i quali hanno semplicemente occupato uno scranno a Montecitorio o a Palazzo Madama, senza prendere parte al sabotaggio vero e proprio.
Forse tra qualche anno, quando il terremoto sarà cessato ed il sistema politico italiano si sarà attestato su un altro schema, si ritroveranno a cena come vecchi amici, ricordando con commozione i bei tempi della famiglia unita. E passata la serata, ciascuno tornerà a casa ripetendosi di non aver tradito se stesso.
Paolo Ruotolo
Paolo Ruotolo, 30 anni, giornalista di Foggia. Si occupa di cronaca politica e amministrativa. Attualmente è impegnato nel settore della comunicazione istituzionale.
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