mercoledì 22 settembre 2010

Quelle radici della musica di "The Genius" Ray Charles (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia di mercoledì 23 settembre 20210
Guardi la colonna della sfortuna, nel libro mastro del destino, e pensi che è troppo piena, perché quel ragazzo ce la possa fare. È nato povero, quel 23 settembre 1930, Ray Charles Robinson. Così povero che, come dirà lui molti anni dopo, «anche rispetto agli altri neri di Greensville eravamo sul primo piolo della scala e dovevamo guardare tutti dal basso. Sotto di noi c'era solo la terra». La sua famiglia è disgregata. Fin dal primo momento, o giù di là. Una coppia che forse si è sposata e forse no (più probabilmente no) ma che di sicuro si è separata quasi subito. Niente di straordinario, fra i negri che vivono nelle campagne del Sud degli Stati Uniti. La promiscuità resta altissima. L'abolizione della schiavitù, a una sessantina d'anni dalla Guerra civile, non si è ancora trasformata in piena emancipazione e autentica parità. La segregazione è talmente diffusa che persino chi la subisce tende a considerarla un dato di fatto. Inutile dannarsi l'anima. Il vero problema, la vera urgenza, è trovare i quattrini per vivere. E in questo il colore della pelle non garantisce nulla: ci sono famiglie bianche che vivono in condizioni altrettanto precarie. In teoria possono andare ovunque. Fare acquisti in ogni negozio, mangiare e bere in ogni locale, divertirsi in ogni teatro, salire su qualsiasi treno di prima classe. In pratica non hanno i soldi necessari. Nessuno la chiama apartheid, quella economica, ma se la osservi bene non è poi così diversa.
Ma c'è dell'altro, nella colonna della sfortuna di Ray. C'è che questo bambino ha un fratello, di un anno più piccolo, che si chiama George. E che muore annegato davanti ai suoi occhi. Ray ha solo cinque anni, George ne ha quattro. Ray lo vede che annaspa nella tinozza piena d'acqua in cui si è messo a sguazzare. Ray vorrebbe fare qualcosa (Dio lo sa che è così, Dio non può non saperlo) ma non riesce a muoversi. Quando finalmente si scuote è troppo tardi. Si lancia verso la tinozza e cerca di afferrare George. Cerca di aiutarlo. Di salvarlo. E appena si rende conto di non riuscirci si precipita in casa e chiama sua madre. Che corre fuori. Che non perde un attimo. Che in men che non si dica acchiappa George e lo stende a terra. Gli fa la respirazione "bocca a bocca". Gli batte le mani sul petto. E poi sulla schiena. E a un certo punto si mette a piangere. In silenzio. Senza una sola parola. Sembra che non si accorga neanche delle lacrime che le escono e che non si fermano. Solleva George - il corpicino di George - e lo porta in casa. Ray la segue come un automa. Ed è l'ultima cosa che si ricorda bene: lui che va dietro a sua madre e che di colpo ne è certo. George è morto. Suo fratello George è morto, non c'è più...
E poi, pochi mesi dopo, quella cosa agli occhi. I suoi occhi che incominciano a non funzionare più tanto bene. Infiammati durante il giorno, che te lo scordi di fissare il sole come hai fatto finora. Incrostati al risveglio, che non puoi aprirli del tutto se prima non li ripulisci; e alla fine deve pensarci tua mamma con un panno bagnato. Quegli occhi che per circa due anni continuano a vedere, ma via via sempre meno. Quegli occhi che perdono la presa sulla realtà e sulla luce, come mani indebolite che si aprono lentamente e loro malgrado. Lo sanno che dovrebbero fare di meglio. Lo sanno che là sotto c'è una maledetta e sterminata oscurità dalla quale sarà impossibile riemergere, se ci si finisce dentro. Lo sanno. E saperlo non serve a niente.
Eccolo qua, Ray Charles Robinson nell'autunno del 1937. Sette anni compiuti il 23 settembre. La vista che se n'è andata quasi del tutto. La scuola del villaggio che non lo può accogliere. La madre che ha bussato a mille porte e che a forza di insistere ha trovato una soluzione: su al nord della Florida, a St. Augustine, c'è un istituto statale per i ragazzini come lui. Una specie di collegio. Ci vai a ottobre e ci resti fino a maggio. Pensano a tutto loro. Vitto, alloggio, persino qualche vestito di seconda mano, se ne hai proprio bisogno. E anche il biglietto del treno. Quello di andata all'inizio dell'anno scolastico e quello di ritorno per le vacanze estive. Mamma dice che deve essere contento. Non ci sono alternative, Ray. Sei un bambino intelligente e se ti impegni puoi riuscire in ogni cosa. Devi diventare grande e imparare a dipendere solo da te stesso. Un giorno io non ci sarò più, Ray. Ma tu camminerai nel mondo a testa alta. E sarai un uomo che tutti rispettano.
Strano. A questo punto non è più molto chiaro, se siamo ancora nella colonna della sfortuna oppure no. Ray sta per partire tutto solo per un posto dove non conosce nessuno e dove non sa che cosa lo attende. Se potesse decidere non se ne andrebbe. Neanche per idea. Se fosse per lui se ne resterebbe a Greensville e continuerebbe la sua solita vita. Non ci vede quasi più, ma è ancora capace di girare dappertutto. E sa cavarsela in tutto quello che serve, sia in casa che fuori. Sua madre è stata molto chiara fin dall'inizio. Moltissime cose le puoi fare lo stesso, sia che ci vedi sia che non ci vedi. Vuoi andare a spasso? Vai pure. C'è da sbrigare qualche faccenda domestica? Dacci dentro, giovanotto. Certi vicini hanno storto il naso. Tagliare la legna è pericoloso. Cucinare sul fuoco anche. Dovresti avere più riguardi, ‘Retha. Lei li ha zittiti: «Ray è cieco, ma non è mica stupido. Ha perso la vista, non ha mica perso il cervello».
È fatta così, sua mamma. È fatta come si deve. Uno scricciolo, se la guardi. Una roccia, se la conosci. Corpo esile e volontà d'acciaio. Tutto l'amore del mondo, per il suo piccolo Ray. Ma anche tutta la disciplina che serve. L'amore concede sempre una seconda chance. La disciplina si aspetta che vada meglio della prima. Non c'è bisogno di mille regole, se hai capito i principi essenziali. E la prima regola è semplice e inequivocabile: gioca pulito, se vuoi imparare davvero. Se vuoi essere qualcosa di meglio di un maledetto truffatore che prende in giro sia se stesso che gli altri. Fai i tuoi sbagli, se proprio non ti riesce di evitarli, e pagane il prezzo. Impara la lezione. Immagina che sia una musica. Ti è piaciuta subito, appena l'hai ascoltata. Adesso metti le mani sul pianoforte e provi a rifarla. Inizi a cercarla. A modellarla. A comprenderla. Ma non è mica così semplice, dannazione. Lei corre veloce e tu sei costretto a camminare. In testa ce l'hai ben chiara, eccome, ma le dita non sono abbastanza svelte. Perciò devi avere pazienza. Lì dentro ci sono tutti i suoni che vuoi. Stanno solo aspettando che tu ti mostri degno di loro. Come dice il signor Pitman, «Così, ragazzo! Avanti!». Il signor Pitman che non è un professionista, ma avrebbe potuto esserlo. Che di mestiere gestisce il Red Wing Cafè, lì a Greensville, ma se vuole sa tirare fuori del gran boogie-woogie. E non solo.
Ray era piccolissimo, quando lo ha sentito suonare. Così piccolo che non gli ha detto niente. Gli si è solo avvicinato ed è rimasto lì a guardarlo. E lui, il signor Pitman, non si è infastidito affatto. Lo ha preso in braccio, anzi, e se l'è messo sulle ginocchia. Gli ha permesso di schiacciare un po' qui e un po' là. Gli ha dischiuso la magia di quei tasti bianchi e di quei tasti neri. Tutti uguali, tutti diversi.
Non aveva nessuna importanza che quel bimbo avesse un talento speciale, e che fosse destinato a diventare un artista di fama mondiale soprannominato addirittura "The Genius". In quegli anni Trenta, in quel minuscolo villaggio della Florida, l'unica cosa che aveva in mente Wylie Pitman era l'amore per la musica e il desiderio di condividerlo con un bimbetto curioso che si affacciava alla vita. Una singola riga, nella colonna della fortuna. Una riga decisiva per chi diventerà Ray Charles.

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