Articolo di Marco Iacona
Dal Secolo d'Italia del 31 ottobre 2010
«Scandalizzare è un diritto, essere scandalizzato è un piacere, e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista». 31 ottobre 1975, a due giorni dalla morte, Pier Paolo Pasolini rilasciava un'intervista alla tv francese sul suo nuovo (e ultimo) film: Salò o le 120 giornate di Sodoma. E si lasciava scappare frasi decise, che ammettevano poche repliche, come sempre, come al solito.
La politica? «È tutto», nel senso che tutto è potere, imposizione o subordinazione. I borghesi? «tutti» in Italia sono borghesi, le élite sono borghesi (e Pasolini stesso lo è, per sua ammissione), e anche il "popolo" è borghese - compreso chi vive l'esperienza della religione - almeno dagli anni Sessanta, quelli del boom, quelli della "ricchezza" e dello "sviluppo". Così parlava Pasolini, l'uomo che - meglio di chiunque altro - ha rappresentato nel secondo dopoguerra l'intellettuale impegnato e indipendente, libero e schierato allo stesso tempo (libero cioè di schierarsi), e incurante di recar "danno" a questa o a quella forza politica. L'uomo che, all'occorrenza, menava fendenti a destra e a sinistra, o al contrario diceva o faceva "cose" di destra o di sinistra (alienandosi le simpatie degli "avversari"), senza pensarci su neanche una volta. Giovandosi del diritto allo «scandalo», come si trattasse del comune diritto di parola, Pasolini è stato uno dei pochi scrittori che l'ideologismo non è mai riuscito a mettere sottovetro. Un maestro di libertà anche quando all'interno del suo animo si scovavano le illusioni rivolte alla parte antioccidentale del mondo. Ma dietro le speranze e le accuse pasoliniane, né il pregiudizio del politicante né il capriccio del "tifoso", ma solo il rigido "codice" della lusinga poetica o della ricerca sociologica. "Semplici" parole - su carta e sul grande o piccolo schermo - spinte fino all'"analisi" dell'esperienza sottoproletaria (i "suoi" ragazzi di vita), fino alla narrazione di un cristianesimo povero e ribelle, fino al tema della violenza o al contrario della serenità d'espressione, fino ai temi del "come eravamo" nel periodo classico e del come siamo o saremo, domani in piena età capitalista, e spinte fino al racconto di un terzomondismo abbracciato al valore di una genuina pietà. Pasolini intende la rivoluzione come ritorno alla memoria dei padri: niente guerre, né violenze, né salti nel buio. Esiste un "misticismo" pasoliniano che nessun conformista riuscirà mai ad acciuffare, una trascendenza che cedeva alla voglia di raccontare un mondo oramai "moderno", come un nobile tradizionalista passato dalla parte dei deboli della storia. Quelle "pasoliniane" sono menti aperte, votate alla polemica e anche pronte alla "battaglia", qualunque essa sia, senza utile alcuno e prive della paura di soccombere alla violenza degli insulti; sono personalità positive, uniche, come gli incancellabili d'ogni tempo: più Parsifal che Lenin, più Francesco d'Assisi che Togliatti oppure Longo.
Fu profeta, come si dice? Forse. Fra le sue "previsioni" citiamo quella sul destino della lingua italiana. Fondamentale perché è ancora degli anni Sessanta. Fu fra i primi a capire (e a raccontarlo in maniera semplice) che il nostro italiano stava passando da lingua letteraria quale in fondo era stata, a lingua di tutti - e per tutti - traboccante di vocaboli "tecnici". La "nuova" lingua era la cartina di tornasole dello stato dei "nuovi" italiani, con almeno due o tre "avvertenze". L'abbandono dei dialetti, che rimanevano pur sempre lingue "in potenza" (non c'era alcun regionalismo egoista nello scrittore, però, sia chiaro), il cedere a un linguaggio che col tempo si sarebbe arreso agli americanismi più "strani" (ma lui non poteva saperlo) e l'idea che il futuro di un popolo fosse già contenuto nella propria lingua. Futuro, ben inteso, dai più incerti traguardi, com'era intuibile da quello che Pasolini andava dicendo in quegli anni. Troppo comodo e troppo facile, in un periodo di ottimismo come i Sessanta, con l'apertura di scuola e università a tutti i ceti (e col centro-sinistra italiano a promettere mari-e-monti), lasciarsi cullare dalla speranza di una società in costante miglioramento.
La sua lettura della realtà - realtà internazionale e relativi sviluppi - che non possiamo definire pessimista tout court, ma che con immagine poetica possiamo rendere come neo-realista all'interno di una cornice allegorica che sa di Akira Kurosawa, è contenuta in quello "strano" lavoro che è La rabbia, film del 1963, per metà suo e per metà del papà di Don Camillo, Giovannino Guareschi. Un film forse pure nato male (con la paura della censura) e finito peggio (praticamente mai visto fino a tre anni fa), accompagnato dal "duello" garbato ma duro fra i registi delle due parti separate, ma comunque prima esperimento di andare oltre gli steccati destra/sinistra e di proporre una critica condivisa al comsumismo. Pasolini e Guareschi sapevano di essere "differenti" ma non "nemici", non si amavano ma non si odiavano: impensabile, oggi, nell'era del giornalismo pettegolo o della cosiddetta "tivù-verità". Nei suoi cinquanta minuti di pellicola Pasolini cantò le libertà del proprio tempo - quella dei popoli giovani, poveri e oppressi: la libertà ungherese (nel '56 c'era stata la repressione sovietica), quella africana, quella cubana - le libertà operaie e quelle del "suo" sottoproletariato. Con un finale a sorpresa dedicato a Marilyn Monroe, immagine di bellezza uccisa dal «presente».
Non era infrequente che Pasolini accusasse i propri "anni" di essere i responsabili per ogni crimine; questa era la grandezza del "filosofo", questo il suo porsi d'istinto al di sopra delle parti, già a suo tempo e prima di tutti oltre la destra e la sinistra. Ancora oggi, ha anch'esso dell'incredibile. Sopra le parti lo fu, per esempio, nel periodo delle stragi (primi metà dei Settanta), quando si autoescluse dal linciaggio mediatico dei cosiddetti "fascisti". Il risultato fu facile da prevedere. Nessuno volle capire quel suo fare anticonformista che gli procurò qualche problema, perfino con l'amico Alberto Moravia. Una condotta la sua che a seconda del "caso" suscitava scandalo fra i moralisti, o altrimenti la "comune" frivola ilarità fra i benpensanti (come in occasione della condanna del mezzo televisivo quale strumento di potere, altra profezia di assoluto valore); una condotta a cui si interessò Leonardo Sciascia (altro non-conformista mica male), che al momento della morte definì Pasolini «coraggioso» e «provocatorio». Il ricordo dell'intellettuale siciliano è importante (ed è anche molto netto, come sanno esserlo i giudizi dei siciliani), perché restituisce un Pasolini al di sopra delle parti, "ideologicamente" puro, irregolare autentico, da leggere o ascoltare senza pregiudizi. Disse Sciascia: «Non si poteva non essere d'accordo con lui anche quando aveva torto». Le ragioni di Pasolini vanno comprese non nel momento in cui scendono a valle, con le relative soluzioni, bensì quando si trovano a monte, raggomitolate nei meccanismi che le hanno generate. Pasolini è il saggio che indica la luna, che "costringe" a fissare questa e non l'indice della propria mano. Un serbatoio di "energia potenziale", un critico vero perso nei labirinti del proprio intelletto. Pensare è suo diritto (come di ognuno), sorprendere suo compito esclusivo.
A proposito del diritto o piacere allo «scandalo» , a quello politico, in primo luogo, che è in grado di comprenderli tutti. Pasolini è un predestinato alla rivolta, alla "diserzione" partitica, all'amore-odio per le forze politiche che attraversano il suo breve cammino. Fa tutto quello che è gli possibile fare (e forse di più), e lo fa da irregolare: non dà conto dell'"essere": è un indipendente non avvezzo alla morale comune (non per niente ama Ezra Pound con cui dialoga in una celebre intervista televisiva). Indipendente, lo diventa molto giovane, già nel '45, quando suo fratello minore Guido, militare della "Osoppo" viene ammazzato dai partigiani comunisti, nella ben triste Porzus. Due anni dopo, immaginiamo con che stato d'animo, Pasolini si iscrive al Pci e lo fa da intellettuale puro perché ritiene giusto schierarsi con chi allora sembrava più sensibili ai temi del rinnovamento culturale… non ha fatto i conti, però, con un Pci che lo espelle per immoralità, poco tempo dopo (perché è un «diverso» processato per la prima volta per corruzione omosessuale) e con un rapido, implacabile, imborghesimento. Altro che partito ideale, altro che costumi da "vita dei campi", insomma.
Il modello di modernizzazione degli anni Sessanta lo infastidisce. La raccolta di poesie uscita nel '57, Le ceneri di Gramsci, sarà un canto al suo ineliminabile estro contraddittorio. Per pochi anni ancora avrà fiducia nei figli del popolo. Nella folla che assiste ai comizi del Movimento Sociale Italiano scoverà perfino la figura del fratello ucciso dai comunisti. In molti continuano a tacere. In un mondo che già negli anni Cinquanta sta cambiando, Pasolini si divide fra borgo e campagna: sta dalla parte dei contadini (sia Kruscev, sia papa Giovanni XXIII ne sono l'espressione ultima), o dei giovani borgatari dei suoi primi romanzi o film. Sa bene di difendere una causa "indifendibile". Lo dimostrerà con gli Scritti corsari e le Lettere luterane, dove attacca il sistema democristiano - che definisce il "nulla ideologico mafioso") e contesta i complottismi sulle stragi e il terrorismo. Da vero anarchico collabora con l'eclettico Luis Trenker (non certo antifascista), nella sceneggiatura del Prigioniero della montagna, e col genio-sognatore Federico Fellini ne Le notti di Cabiria. È sulla bocca di tutti, parla quando vuole parlare, ma è dai i tempi e il conformismo imperante un isolato. Si spargono le metastasi del consumismo, lui denuncia quello sessuale (ciò lo avvicinava, singolarmente a Julius Evola), e considera l'aborto uno degli stadi finali della perversione dei costumi. Indipendenza e voglia di scandalo (che nessuno avrebbe «capito» fino in fondo), lo spingono, infine, a scrivere di una "destra divina" all'interno della poesia in friulano Saluto e augurio. È il semplice atto d'amore verso la gioventù del suo tempo. Quella gioventù che lo aveva ispirato, di destra o di sinistra che fosse, o magari né dell'una né dell'altra parte, perché così era lo stesso Pasolini: unico. Non apparteneva né alla destra né alla sinistra, e neanche probabilmente a se stesso. Guardava oltre. Anticipava il futuro.
Marco Iacona
2 commenti:
Il più noto ritratto di Pier Paolo Pasolini non è una figurina ma un ritratto fotografico eseguito da Dino Pedriali nel 1975. Perché non l’avete firmata e non ne avete chiesto i diritti di pubblicazione all’autore che vive e lavora a Roma ?
Il 28/10/2011 alle 18 30,
alla Libreria Nero su Bianco
in Via Roma libera 11 a Roma (Tel. 06 58303286)
Alessandro Oliviero e Federico Bruno presenteranno il libro di Pino Pelosi.
Dal 2005 ad oggi nessuna novità per cui si dovrebbe riaprire il processo sulla morte di Pasolini. In che misura Sergio Citti è implicato nell'omicidio oltre che nel furto delle pizze di Salò voluto da Sergio Placidi ? Perché Pino Pelosi non parla mai del suo amico Giuseppe Mastini, alias Johnny lo Zingaro, indicato, seppure senza comprovati riscontri, come possibile complice dell'omicidio dello scrittore? Il libro non riporta alcuna novità di rilievo se non l'autobiografia d Pino Pelosi che non spiega il perché del titolo del libro: "Io so... come hanno ucciso Pasolini".
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