martedì 5 ottobre 2010

Pupi Avati va controcorrente... e sul serio (di Annalisa Terranova)

Articolo di Annalisa Terranova
Dal Secolo d'Italia di martedì 5 ottobre 2010
Dapprima Lino non ricorda il nome delle melanzane. Poi, catturato dall'avanzamento inesorabile della malattia, non riuscirà più neanche a scrivere, nonostante nella scrittura si fondi la sua identità e la sua storia, visto che è un affermato giornalista sportivo. E non servirà a nulla ripetere, come faceva da piccolo, la tabellina del 2. Lino Settembre, interpretato da un coinvolgente Fabrizio Bentivoglio, è il protagonista del film di Pupi Avati Una sconfinata giovinezza, nelle sale da venerdì. 
La moglie Chicca (Francesca Neri), docente di filologia medievale, resterà l'unico essere umano a rispettarlo come persona, indisponibile a "resettarlo" dalla sua vita. Per gli altri Lino, da malato, diventa invisibile, una presenza fastidiosa, un affare da "struttura specializzata". E non a caso lui esce di scena silenzioso, lasciando che la sua immagine si dissolva per lasciare spazio al ricordo dei giochi adolescenziali con il suo cane. Un cane dal nome strano, "Perché". Un nome che interroga le coscienze. Lino non esce, non parla, se ne sta chiuso in un limbo sospeso tra il presente e i tempi della sua infanzia, i soli che gli sembrino davvero reali e "partecipati". Per gli altri, prima, era un querulo giornalista che in tv discettava di partite e arbitraggi. Dopo è una figura assente, che non chiama e non rinvia emozioni. Gli altri tollerano Lino a malapena. E lui imparerà a cancellarli dal suo mondo pieno di buchi neri.
Pupi Avati narra in modo magistrale lo sconvolgimento che l'insorgere di questo tipo di patologie provoca nel tessuto familiare, la solitudine che ne discende, l'avvilimento disperato che produce, persino la sottovalutazione inevitabile del male. Dice Lino al dottore: «Alla prima parola che mi dimentico, mia moglie già parla di Alzheimer...». La scelta di rappresentare questo disagio attraverso una bella e commovente storia d'amore, quella tra Lino e Chicca, coppia oltre la sessantina, affiatatissima nonostante il legame non sia stato rischiarato dall'arrivo di un figlio, rende per lo spettatore questo film-denuncia ancora più profondo e ancora più vero. Del resto, fingere di ignorare l'emergenza con ingiustificate rimozioni è inutile: le nude cifre stanno lì a ricordarci che è bene conoscere l'Alzheimer per imparare a farci i conti non solo all'interno delle famiglie colpite ma a livello collettivo. I dati di un recente rapporto testimoniano che la demenza senile ha un costo pari all'1% del Pil globale, la spesa che assorbe ammonta a circa 400 miliardi di euro nel 2010, ed è destinata a crescere negli anni a venire con l'aumento dei casi. Se il costo dei malati di Alzheimer fosse il Pil di una nazione, si legge nel report mondiale, sarebbe la diciottesima nazione a livello mondiale per economia. Il tema è tuttavia trascurato, ignorato, minimizzato e trattato con superficialità, come dimostra l'esclusione del film di Avati dalla recente mostra di Venezia, una decisione che il regista bolognese ha bollato come un tradimento non tanto nei suoi confronti quanto nei confronti di un dramma sociale non ancora percepito nei suoi contorni reali e dolorosi.
Ora la parola passa al pubblico, chiamato a riflettere su un tema già toccato da Pupi Avati con Il papà di Giovanna, il cui protagonista, Silvio Orlando, fu premiato nel 2008 proprio a Venezia come miglior attore protagonista. In Una sconfinata giovinezza però, oltre al tema della malattia mentale e delle prospettive di un invecchiamento al di fuori delle relazioni sociali, c'è anche un percorso a ritroso, ai tempi dell'infanzia: il mondo in cui Lino si rifugia attraverso una serie di flash back perché è incapace di proiettare la mente nel futuro ma anche il mondo che il regista vuole "stanare" perché - spiega - «ognuno di noi si trova a fare i conti con il ragazzino che è stato». L'infanzia diventa una sorta di "sopravvivenza" che ci «restituisce alla libertà di vedere oltre», una "lente" attraverso la quale le cose, i gesti, i paesaggi vengono visti con emozioni profonde e diventano capaci di farci commuovere. E non mancano gli accenti autobiografici inseriti nella sceneggiatura quasi per fare di Lino un alter ego del regista: il protagonista è infatti un orfano e nelle campagne dell'Appennino bologense, a Case Mazzetti, viene cresciuto da una zia (Serena Grandi), intreccia le prime amicizie e i primi flirt amorosi.
Poi c'è la storia d'amore: il legame per il quale vale la pena non arrendersi dinanzi al dramma della malattia. La moglie prova a sfidare il male che corrode il marito: «Io Lino non lo affido a nessuno. Se c'è un modo per cui la sua mente e la mia possano continuare a comunicare devo trovarlo». Invece il male si fa piano piano più forte: gli confondeva i pensieri, gli occultava i nomi delle cose, lo costringeva al balbettamento, a incespicature, a vergognose richieste d'aiuto. Alla fine il canale di comunicazione si trova: Lino e Chicca giocano alle corse nel corridoio di casa con i tappi metallici delle bibite. E quel marito demente, che dipende in tutto e per tutto da lei, le dà persino l'illusione di avere trovato finalmente un figlio da accudire, anche se si tratta di un figlio destinato a scappare per sempre. E alla fine, inesorabile, arriverà anche la fuga. La fuga in un mondo dove nessuno può più seguire Lino, nessuno può più imbrogliarlo, prendersi i soldi della sua liquidazione, guardarlo con impaziente indifferenza. La fuga in un buio «che non gli faceva più paura, niente della sua vita gli faceva più paura, la sua vita era tutta perduta, andata via per sempre».
Annalisa Terranova

1 commento:

uniroma.tv ha detto...

Al seguente link potrete vedere le immagini dell'incontro tra il resgista Pupi Avati e gli studenti della sapienza:

http://www.uniroma.tv/?id_video=17405


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