lunedì 31 gennaio 2011

Roberto Baggio, la luce degli occhi (di Graziella Balestrieri)

“Io? Diventerò giornalista per intervistare Roberto Baggio”.
Articolo di Graziella Balestrieri

“Mi sa che la fissazione per Baggio non l’ho vissuta a pieno perché ti è partita con i mondiali del 94 quindi si parla della seconda/terza media e ahimè non ci conoscevamo … perché mi ero da poco trasferita. Ho qualche ricordo vago di quando era passato al Bologna e che Ulivieri non lo faceva giocare e tu eri incazzata come un puma … poi ai mondiali del 98 che insultavi Maldini perché non lo faceva giocare … ed infine ricordo una cosa che mi disse tua mamma “questa pazza ha telefonato a casa del padre,a Caldogno, che gli voleva parlare”(Francesca Benevento, mia fedelissima amica)
“Perché piangi, mo”?. Era il 1998 Mondiali di Francia. La mia famiglia delusa davanti allo schermo. L’Italia perdeva con la Francia e noi tornavamo a casa. Io questa domanda la ricorderò come un flash ogni volta che l’Italia avrà nuovamente giocato. Piansi. E non era la prima volta, ma forse l’ultima. Sicuramente l’ultima. Gli altri erano delusi ed in quel momento già il mondiale era cosa lontana da loro. Io piangevo e con i pugni sul divano davanti alla tv non riuscivo a fermarmi. I miei due fratelli ad un certo punto iniziarono quasi a prendermi in giro “ mo piange ,e guarda guarda”. Io non ero delusa, io ero arrabbiata, arrabbiatissima. Avevano preso a pugni il mio sogno, mi tolsero gli occhi per vedere . Non c’era più la luce degli occhi. Io piangevo di rabbia e non riuscivo a fermarmi e più gli altri mi dicevo smettila, più io continuavo. Non so spiegare cosa mi accadde in quel momento ma più le immagini correvano davanti agli occhi, più sembravo essere andata in crisi. Quasi una crisi nervosa. Che a riscriverlo ora non mi pare assurdo. Era Baggio, la mia rabbia. Non lo avevano fatto giocare quanto avrebbe dovuto. Ed io in quel momento provavo un odio indescrivibile nei confronti dell’allora Ct Maldini. Che poi provare odio è una parola forte. Ma era così. Aveva insistito su un Del Piero che veniva da un infortunio, che giocava male, che Baggio ogni volta che entrava in campo cancellava, perché Baggio era Baggio. Nessun paragone, con niente e figuriamoci con gli altri. Fu la sensazione di non rivederlo più con la maglia della Nazionale, con la sua maglia, con la mia. Eh sì Baggio indossava la mia maglia, era lui la Nazionale. Piangevo perché aveva subito un’ennesima umiliazione. Lui il campione senza tempo, che il tempo ha costruito attorno a sé, lui che l’azzurro era, lui il simbolo di ciò che impossibile diventa possibile. Era i sogni di un bambino. L’umiliazione dei grandi fu per me fatale in quel momento. Me ne dispiace un po’ ma da allora ebbi in antipatia in maniera morbosa Del Piero, che forse non c’entrava, ma era lì al momento sbagliato. Lui non era Baggio e per me questo era importante. A fatica guardavo sulle spalle di Del Piero il numero 10 : non sarebbe mai stato nessuno degno di quel numero. Baggio portava il 18 ma lui era il 10. Il tempo non guarisce le ferite, il tempo se vuole la riapre e ti ci infila dentro con tutto ciò che ti sei portato dietro. Il tempo poi peggiorò solo le cose. Perchè l’amore spassionato nei confronti di una di una divinità divenuta calciatore e poi fattasi uomo non ebbe mai fine. Solo la ferita quando si riapre duole ancora come il primo giorno, anzi ora che la conosci che sai che è la tua dovresti essere in grado di controllarla. Ma non è stato così. Non misi mai fine al nome Baggio, per me non ha mai smesso di giocare. Ma tutto risale a molto tempo prima, quando ancora i sogni di bambina erano i miei e non si permetteva a nessuno di distruggerli o modificarli. Ad ogni domanda si rispondeva ad ogni calcio preso due ridati ed una corsa verso la porta. Ad ogni attimo che sembrava eterno, il momento diventa l’unica cosa fondamentale da vivere. L’eternità di un sogno in un momento: Baggio.Vivere come giocare e giocando riuscire a vivere.
Crescendo in una famiglia di maschi non puoi far altro che diventarlo un maschio. Devi integrarti se non vuoi essere emarginata e ritrovarti sola nella stanza a pettinare bambole. Il maggiore dei miei due fratelli, maniaco del calcio come mai ebbi poi a conoscerne , ancora ora , mi trasmise quella insana passione per un qualcosa che rotolava e che bisognava inseguire. Io ero un maschio a detta di molti. Ma non mi dispiaceva, volevo solo giocare a calcio. E giocai. Quelle partite organizzate sotto casa, con le porte che prendevano forma su due grosse pietre quando si giocava tre contro tre. Quando invece si trattava di provare punizioni rigori o giocare a “scartare” uno contro uno, il garage era la porta. Palleggiavo, mi piaceva tantissimo. E giocavo, mio fratello poi mi teneva in riga con una serie di allenamenti durissimi, schemi alla Sacchi (allora andava molto di moda il Milan di Sacchi e mio fratello costringeva me direi quasi ad un lavoro forzato, di palestra nel garage). Come se fossi un piccolo campioncino da allevare. A volte piangevo e nei ricordi ,di mia madre che scese giù perché aveva visto dal balcone che mi ero fatta male e disse a mio fratello di lasciarmi stare che io a otto anni ero piccola e loro troppo grossi per me. Mio fratello le rispose “lei deve giocare, non si piange a pallone. Se prende un calcio lo ridà”. Io seguì mio fratello e da allora il pallone divenne un mondo, da tenere fra i piedi, da portare quasi ovunque. Non il calcio, ma il pallone. Nel 1994 io avevo tredici anni, mio fratello mi chiamava Stromberg (un attaccante dell’Atalanta)ma io non ho mai amato quei tipi di calciatore. Non mi piaceva la forza nel calcio, io poi tutto ero tranne che forte. Non mi piaceva nemmeno chi segnava di testa. La trovavo una cosa assurda anche perchè ogni volta che il pallone era arrivato sulla mia testa mi ero sempre fatta male. L’anno prima in tv avevo visto un calciatore dall’aria melanconica, vedere lui come un quadro di C. Friedrich, ”il viandante”, la stessa intensità,la stessa solitudine, sollevare un pallone d’oro seguito ad immagini meravigliose di eterna bellezza racchiuse in un attimo. Sembrava fragile, ma correva dietro alla palla, con quella grazia divina. Non saltava gli uomini, gli avversari. Correva dietro al pallone come se non avesse avversari, eppure mi dicevo “li salta”. Come se avesse nella mente già la loro posizione ed istintivamente si fidava del pallone e questo apriva a lui il cammino. Baggio? Più di uno scrittore, più di un cantante , più di un amore, più di qualsiasi altro dolore. Lui riusciva con il pallone tra i piedi a farmi sentire tutto ciò che volevo. Era libertà, era guerra, era pace, era amore, odio, speranza, cieca fede, fallimento, rabbia. Era la volontà , la potenza, la voglia, la dispersione, l’illusione, il crederci, un funerale, una nascita. Il suo sguardo sulla palla lo sguardo sul mondo. Un suo goal era la natura che incontra l’uomo, che ci perde con l’uomo. La natura che crea e distrugge. Non ebbi mai emozioni simili. Mai. Niente dopo di lui mi ha mai restituito il cuore in gola, il respiro mozzarsi e la paura di sbagliare. Era Beethoven, Joyce, Costello, Bob Dylan, mia madre, mio padre, la mia famiglia, i miei amici. La mia vita. Il momento in cui prendeva la palla era: nasci, cresci, corri vai avanti, non tornare indietro, tieni la testa sull’obiettivo, conosci i tuoi avversari ma non dargli la soddisfazione di fargli capire che li hai riconosciuti. Saltali. Non avere paura. L’energia e la voglia che metti nelle gambe farà si che loro si spostino da soli. Non dare mai importanza a dove sei arrivato, ma ricordati sempre come ci sei arrivato e chi ti ci ha portato. Un pallone ai piedi di Roberto Baggio era tutto questo. I mondiali americani del 1994, dove io avevo 13 anni sono il periodo della vita che ricordo in maniera meticolosa. Il più bel periodo della mia vita. Motivo? Roberto Baggio. Avevo i capelli tipo caschetto, ma mi ero fatta fare tredici treccioline, come il mio idolo che ne aveva molte di più credo. Ma tredici erano i miei anni. Prima delle partite del mondiale noi giocavamo giù per strada e poi tutti a guardare l’Italia. L’Italia. Già. Che cos’ era l’Italia nei miei occhi, cosa rappresentava quella bandiera e perché la mano sul petto a cantare l’Inno?
Io me ne resi conto solo con la partita contro la Norvegia. Nel primo scontro avevamo perso con l’Irlanda. A malo modo direi, Baggio (per detta di altri, non mi sognerò mai di dire ” Baggio giocò male, mi vergogno anche a doverlo ricordare per loro).Per me ogni volta che toccava palla erano dieci anni in meno ed una preghiera in più. Da dire che prima di ogni partita in maniera del tutto blasfema pregavo Dio affinchè proteggesse Baggio.Un segno della croce e poi un “ mi raccomando Gesù ”. Quella Nazionale però per quanto mi riguarda era una delle nazionali migliori, se non la migliore. Avevamo Baresi, Tassotti, Donadoni, Maldini, Dino Baggio , Albertini, Evani , Signori e Roby.Io riguardo sempre le VHS di allora per cui i momenti potrei descriverli anche fra cent anni se campassi. E poi c’era Bruno Pizzul,c he una telecronaca non era. Lui era un tifoso messo lì a commentare ma dai suoi respiri dalle sue urla dai suoi silenzi dipendavamo anche noi. Era il nostro filo emozionale con il campo. Fu una bella papera di Pagliuca , stava fuori dalla porta come una capra che passeggia per un prato e così il centrocampista irlandese Hougthoun lo sorprese. Da dire anche che Baresi fece un disimpegno di testa molto leggero,ma a Baresi si perdona tutto. Perdemmo e al secondo match trovammo la Norvegia.Vissi in quel momento come una piccola stagione all’inferno, poeticamente parlando. Ed avete sentito mai parlare dell’inferno? Le fiamme, la dannazione eterna l’ascesa e la ricaduta. La partita con la Norvegia fu un’entrata nelle fiamme da cui uscì bruciata, carbonizzata come la faccia di Sacchi al momento in cui tolse Baggio.Espulso Pagliuca, l’entrata di Marchegiani costringeva a togliere un uomo. La scelta cadde non su un altro giocatore ma sul giocatore: Roberto . Lo sguardo di chi aveva capito ma non comprendeva. Al momento della chiamata, come sempre e sempre il prescelto nel bene e nel male, lasciava i compagni nel senso opposto. Tutti lì Maldini , tutti in fila, nessuno quasi a voler credere. Invece era lui … che seguì a girare il volto e si portò la maglia sulle labbra, camminare all’indietro, come chiedersi ”non posso essere io”. E fu mentre indietreggiava,mentre cercava un rewind di quell’attimo primo Roby guardando tutti e nessuno ,e tutti lo avremmo ascoltato disse ” ma questo è impazzito” . Era un messaggio per tutti .Per la prima volta “il coniglio bagnato” secondo una triste definizione dell’Avvocato Agnelli, che sì sarà stato anche l’Avvocato della bianconera signora ma che dì signorilità in questo frangente ne dimostrò pari a zero, era diventato un leone. Lui era il talento. Lui lo sapeva. Non era l’arroganza del più forte ma la convinzione di esserlo. Credere in ciò che si può dare solo perché ad un talento il sangue scorre più veloce che ad un altro. Non si ferma e non si gela,non trova pace se non compie ciò che per cui è destinato a correre e scorrere. Come chiedere ad un falco di non spiccare il volo. La mano che punti dritta verso gli occhi e dici ”quello deve essere” . Non dipende dalla volontà degli altri, ma è solo la sua natura. Un talento nasce muore cresce e rinasce. Decide lui. Come disse Carmelo Bene: il talento fa quello che vuole. Baggio sapeva benissimo che con la palla al piede avrebbe potuto fare quello che voleva. Attraversò il campo verso la panchina, riluttante alla scelta senza guardare Sacchi, la maglia sulla bocca ed il numero dieci che dava le spalle. Ma il momento prima di uscire, il momento in cui Baggio voltò il capo verso la panchina ed iniziò ad indietreggiare, tra il flash del suo volto, l’azzurro ed il numero dieci, io mi sentivo italiana. Il suo non poterci credere, il suo non volere uscire era per me la passione per quella maglia. Mai mi sentì così orgogliosa. La rinuncia di quella maglia sembrava ai miei occhi la rinuncia di fronte al Paese. Baggio non voleva e non avrebbe voluto , lui raccoglieva le speranze e a lui in quel momento Sacchi sembrò strappargli la maglia di dosso , dare un calcio al suo talento ed in fondo credo come se Roberto si sentisse dire “ tolgo te, perché possiamo anche farne a meno”. Lo spettro di un fallimento fu terribile. Io andai nell’altra stanza. Fui felice al goal di Dino Baggio ma saliva dentro di me il terrore della fine Baggio - Nazionale. E lo sguardo di Sacchi disse molto. Non guardò Roberto uscire dal campo, dava disposizioni sotto agli occhiali scuri, un volto irrigidito dalla paura. Lui che sentiva il peso della scelta , se non fossimo passati, avrebbe subito la gogna mediatica. Dalla panchina prima un assistente e poi Bucci, terzo portiere di allora a dare il conforto a Roberto che non toglieva lo sguardo dal campo. Un leone ferito, un leone che con l’ultimo sguardo sul terreno di gioco si sarebbe mangiato anche la terra. Quel giorno poi per una strana coincidenza giocando a calcio giù venni presa per un braccio, mentre correvo verso la porta. Venni tirata giù ed in quel momento senti un crack su tutto il braccio: mi ero rotta il braccio sinistro, un dolore allucinante, come se mi avessero infilato una lama dentro la carne. Trenta giorni. Avrei dovuto portare il gesso per trenta giorni. Non avrei potuto più giocare. Tra il dolore del braccio e la paura che Baggio contro il Messico potesse partire dalla panchina, arrivammo a quella serata. Passammo il turno, ma ancora il divino fattosi uomo non era sceso sulla terra per divenire calciatore. Incontrammo la Nigeria negli ottavi. Tutti spaventati, sempre. Noi come popolo ci sentiamo sempre inferiore agli altri, mentalità che non ha quasi senso, perché voglio dire chi ha una storia come la nostra ?e perché questa paura degli altri se poi noi abbiamo sempre avuto i migliori talenti? Noi siamo l’Italia. Punto. Degli altri il rispetto ma non il timore. E poi non avevamo Baggio. Lo sapevo che non ci avrebbe delusi, che non avrebbe spezzato il mio sogno. Lui il migliore, semplicemente il migliore quel giorno ci avrebbe riportati in cielo. Mi ricordo che diede un pugno di incoraggiamento a Massaro. Quello stringere la mano era il segno che Baggio quel giorno l’avrebbe fatto suo. Gli occhi vedono anche se poco prima eri cieco. Partimmo svantaggiati, prendemmo un goal stupido e tutto iniziò in salita. Entrò Zola, che sfortunato fu espulso. In dieci però capimmo che un uomo solo uno avrebbe potuto sostituire una squadra intera. Perchè se voleva, come un ragazzino che insegue il sogno, poteva inseguire il pallone e mettere la palla dove solo lui poteva. Al 43’ del secondo tempo, lo spettro del ritorno, il fallimento che incrociava la delusione ,con le mani a mo di preghiera davanti allo schermo aspettavo il miracolo. I primi crampi, Massaro ad aiutarlo, tutti i compagni ad osservarlo e tutti si aspettavano qualcosa da lui. Mussi scese sulla destra, mise una palla in mezzo. Baggio si rialzava, Baggio prendeva in mano la sua nazione. Baggio ti ridava un cuore per ricominciare a battere, te lo strappava per gioire e poi ti toglieva il respiro per l’emozione. Io? Io piansi. Credo che in quell’interno destro angolato raso raso mandato lì sul palo destro fu per Roberto una vita intera. Mentre il pallone rotolava sembrava rivivere Rimini - Vicenza 5 Maggio 1985, rottura del crociato anteriore e del legamento collaterale, rottura della capsula e del menisco. Settembre 1985 un nuovo infortunio si rompe di nuovo il menisco e bisogna riaprire la parte suturata. La palla andava lenta, ma precisa come poi fotografia della vita stessa. I dolori che sembrano non passare mai, la gioia di avercela fatta, lentamente con la costante del dolore ma farcela. Perchè ogni goal di Baggio fu una perla, ogni momento fu un momento di vita, una fotografia scattata su un campo verde. Piansi nel vedere la sua gioia, non sorrideva lui, aveva sempre questo modo, allargava le braccia un bacio al pubblico, gli occhi chiusi, come a voler continuare il sogno e continuava a correre. Baggio non si fermava mai. Con le spalle larghe e la consapevolezza del gigante , di essere solo lui il talento , perché un talento lo sa, dispensava perle in ogni dove. Ad un suo pallonetto per servire Benarrivo, che di quella partita macinò chilometri, corrispose un calcio di rigore per noi. Eravamo ai tempi supplementari. Confesso sto riguardando le immagini e come allora provo un buco allo stomaco, pesante quasi a voler ripiangere di nuovo. Il suo rigore fu la rivincita sua e della nostra Italia.Corse verso il pubblico come sempre, la braccia allargate ed il bacio. L’indice delle mani puntati verso il cielo, sempre come a voler richiamare il mondo da cui proveniva, come a voler ritornare in paradiso come a voler indicare a noi la strada. Dire che in quel momento fossi impazzita sarebbe come fare un complimento alla pazzia. Con il mio gesso diedi un pugno al tavolino spezzai una gamba tutto cadde per terra, ma io ero in estasi. La sua gioia rifletteva la mia, la sua corsa la mia verso i sogni, che non importano siano poi rappresentati da un goal. Io guardavo il suo indice, io avevo imparato a puntare in alto grazie a lui. Tra la gioia per Baggio ed il delirio italiano festeggiammo sotto con una bella partita a calcetto. Io non potevo giocare. Il braccio pesava troppo. Così tornai in casa. Il dolore si sopporta meglio se le gioie si vedono da lontano. Ai quarti la Spagna. Segnammo con Dino Baggio e poi ci fu il pareggio spagnolo. Eravamo attaccati ad una speranza. La parabola della vita. La discesa e la risalita. La luce. Signori con un pallonetto passa la palla a Roby che prende il sogno tra i piedi. Salta Zubizzareta , a testa bassa insegue il pallone lo allarga verso l’esterno destro e segna . Segnò da posizione impossibile. Lui era l’impossibile che diventava possibile. Segnò e cadde, si rotolò su stesso a nell’alzarsi allargò le braccia verso il suo pubblico, mandò baci di ringraziamenti sotto ad un tricolore. Come fosse un attore su un palcoscenico, come se avesse concesso il bis e senza sorrisi ringraziava. Lui il campione dall’aria triste, dalla interminabile fede buddista, lui aveva nei gesti e nei modi ciò che altri non sapranno spiegare nemmeno urlando. Quel momento del goal dopo la Spagna è il momento in cui io mi ricordo di Baggio. Quello per me è Baggio, il goal, la caduta, la risalita. Il ringraziamento ed il tricolore dinnanzi agli occhi. In ginocchio con i pugni chiusi alla fine della gara e quell’abbraccio con Signori ”si Beppe vieni qua” era troppo, era tutto. Questa partita segnò più di altre i miei pensieri. Come diceva uno striscione “ Dio esiste e porta il codino”. Io? Io mi ero stancata del gesso e decisi con la collaborazione del secondo fratello di togliermi il gesso prima, tipo dieci giorni prima se non ricordo male. Così due ore con il braccio nell’acqua calda aspettando che il gesso s’ammorbidisse, la forbice grande e mio fratello iniziò a tagliare. Quando fui senza gesso non potete pensare al dolore mentale che provai. Non muovevo il braccio. Non lo sentivo. Era morto. Stavo seduta sulla poltrona, ma non riuscivo a muoverlo. Più tardi all’arrivo dei miei genitori disperati, arrivò il medico che rassicurò. Oddio facemmo una grossa cazzata, ma il braccio un paio di giorni dopo cominciò a rifunzionare, sempre dolorante ma ricominciò. Intanto Baggio troneggiava nella mai stanza, un poster a grandezza naturale, me- ra –vi –gli -o-so! Palla al piede , maglia azzurra. Mi mancava la maglia però. La comprai: 80 mila lire che ancora sono lì nel mio cassetto. Bella e splendida come non mai. Non la indossai mai. Come potevo io indossare la maglia di una divinità?
Quarti di finale la Bulgaria di Stoikovic, fortissimo per carità, ma Baggio era Baggio.La classe divina nei piedi, nelle giocate, la fierezza di essere il migliore . Donadoni batteva un fallo laterale e Roberto cosa non fece! Dietro alla voce di Pizzul che seguiva la corsa di Roby, inventò una dei goal più belli a parer mio. Perchè riguardandolo anche ora partì dal fallo laterale a testa bassa inseguiva il pallone che correva davanti a lui, ma che a momenti sembrava solo attenderlo, alzò gli occhi solo per puntare l’angolo e fu un goal strepitoso, una cavalcata di un bambino, la gioia di giocare. Nessun avversario, niente lui correva e chi era sulla sua strada doveva solo spostarsi. Baggio non era un giocatore che cadeva facilmente. Quando hai la furia del talento addosso, quando punti dritto nemmeno un calcio può farti male. L’equilibrio della sua mente superava l’equilibrio terreno, ecco perché a me sembrava come se davanti non ci fosse niente e nessuno. Pizzul era totalmente impazzito ed una cosa che rimpiango e di cui mi dispiace è che non c’era quando nel 2006 poi avremmo vinto il mondiale. La corsa verso il pubblico ed il volto carico di sofferenza. In quel momento capisci che se la vita è una cosa, Baggio è tutto il resto. Al secondo goal poi, vedere la goduria immensa disegnata sul volto di Sacchi fu una soddisfazioni più belle. Da lì capì una cosa: che Sacchi era l’allenatore degli schemi che si era arreso al talento. Lo aveva capito. Tutto va perché c’è Baggio. Lui ci porterà in finale. Fu così che a fine partita il ragazzo di Caldogno, pianse tra le braccia di Gigi Riva. Io? Piansi insieme a lui. Eravamo lì ad un passo dal sogno e lui era chi questo sogno lo stavo scrivendo e riempiendo di colori meravigliosi che con il tempo non si sono mai scoloriti. Durante l’incontro con la Bulgaria ad un certo punto guardò la panchina, sentiva un dolore alla coscia destra, il gesto di Sacchi che lo attende e gli tocca il capo fu un altro colore nuovo da incorniciare. Tutto torna prima o poi tutto riparte da dove ci si credeva essere perduti. Quando venne sostituito con la Norvegia, nella rabbia Sacchi non ebbe il coraggio di avvicinarsi, nel momento del dolore si, come un padre ad un figlio. Con la testa bassa si dirigeva verso gli spogliatoi mentre l’Italia si dirigeva verso la finale di Pasadena. Il 17 Luglio 1994 Italia - Brasile sarà come un tempo vissuto e ricordato, sarà il dolore per il dolore. Baresi ritornava di gran carriera dopo la rottura al menisco. Era il Brasile di Bebeto e Romario eppure quel giorno iniziai ad avere i primi brividi. Baggio entrò in campo con una fascia. Guardammo la partita senza fiatare, non ci fu un urlo. Arrivammo ai tempi supplementari e poi i rigori. Baggio non doveva dimostrare almeno a me più niente. “Bisogna sempre dare tutto nella vita,poi non è detto che il risultato corrisponda a verità. Ho avuto il rimpianto solo per gli italiani. Avergli dato un dolore era il mio dolore”(R. Baggio). Sarebbe sempre e cmq rimasto l’emozione più grande, lui ripeto era tutto quello che la vita non era, lui era il resto. Io guardai tutti i rigori ma a quello di Baggio andai sul balcone. Le mani sulla ringhiera e non dissi nulla. L’incubo migliore. Io non l’ho mai visto in diretta quel rigore mandato in alto, lo rividi tempo dopo e mi sembrò diverso forse mi sembrò come nelle parole di Benigni “ lui lo tirò in alto verso il cielo, perché oramai solo Dio poteva pararglielo, perché tutti avete fatto caso a Baggio, ma il pallone avete visto dove è andato? in cielo”. Sentì solo la voce rotta di Pizzul quando disse “ il mondiale è finito lo vince il Brasile”. A braccia conserte guardai Baresi piangere e mi accorsi dietro di me mia madre che lo faceva insieme a lui con testuali parole “ mi dispiace”. Io in quel momento mi sentivo quasi forte, in fondo ero stata l’unica a non voler guardare Baggio sbagliare, io non avrei mai potuto cancellare il sogno che lui mi aveva regalato senza che gli venisse chiesto in cambio niente.
Finito tutto, non guardai nemmeno le trasmissioni dei giorni dopo, ma feci una cosa assurda credo. Cercai in maniera disperata il numero di tel di casa Baggio e ad un certo punto ci riuscì. Chiamai a casa ed allora da un telefono a gettoni parlai con il papà, che mi disse che era in Argentina a riposare. Io mi spacciai per una giornalista. Non è mica per la politica che ho iniziato a scrivere, non è mica per informare, non è mica per diventare uno strambo intellettuale, no. A me non importa niente di Obama, di Lou Reed o se dovessi intervistare De Gregori, Costello,Berlusconi e tutti i nomi del mondo. Mi dispiace ma io scriverò per il migliore. Io? io diventerò giornalista per intervistare Roberto Baggio.
Mio figlio o mia figlia avranno quella maglia numero dieci che tengo conservata lì nel cassetto del 1994 e se dovessero chiedermi chi è avranno solo una risposta: Baggio era Baggio, semplicemente il migliore. L’uomo più importante non di questa vita, ma di tutto il resto. Lui è stato ed è la luce degli occhi. Nessuno più è stato quel numero 10. Se la grandezza di un uomo si misura con l’immensità delle emozioni che riesce a regalarti, Baggio per me è stato il più grande. La coppa del mondo 2006? Io la scambierei con un’ultima volta di Baggio con la sua maglia. E lo scambio non sarebbe equo! Perdonate.
Graziella Balestrieri

3 commenti:

Giacomo Brunoro ha detto...

Robi Baggio, pura poesia.

Matteo Righetto ha detto...

mamma mia, che giocatore...

Ilias Bartolini ha detto...

Grazie!

Bellissimi ricordi, quell'estate del 94 avevo 15 anni e ancora mi ricordo ogni partita e ogni situazione.