Irregolari, spiriti liberi, ribelli disincantati, libertari, fuorilegge: da Tex a Dylan Dog, miti per il presente
Articolo di Massimo Ilardi
Da gli Altri di venerdì 18 febbraio 2011
Chiedo scusa a Roberto Alfatti Appetiti, autore di All’armi siam fumetti (I libri de Il Fondo, pp.210, euro 12,50), se non entro nei contenuti del suo saggio seguendo i canoni classici di una recensione.
Non lo faccio non solo perché, seppure appassionato lettore in anni ormai lontani, non sono un esperto di questi “eroi…d’inchiostro”, come recita il sottotitolo del suo libro, ma soprattutto perché la sua lettura mi ha sollecitato alcune considerazioni un po’ erranti rispetto ai temi più specifici affrontati nel testo. D’altra parte è senz’altro un merito del libro se ti costringe a riflettere sullo stato di cose presenti. Ma non solo.
L’autore converrà con me se affermo che questa decisione all’erranza mi mette ancora di più in sintonia con i suoi personaggi. Ed è proprio da questi che vorrei partire: da Tex, Zagor, Dylan Dog, Mister No, Corto Maltese, Nathan Never, L’Eternauta, solo per citarne alcuni. Una fabbrica di erranti, li chiama appunto Alfatti Appetiti, di irregolari, spiriti liberi, ribelli disincantati, libertari, fuorilegge, individualisti senza alcun senso del collettivo. Non a caso nascono quasi tutti in quel favoloso trentennio quando la cultura italiana occupa un ruolo centrale a livello internazionale e che va dai primi anni ’60 con la ripresa delle lotte sociali, attraversa i conflitti irriducibili degli “anni di piombo”, fino ad arrivare alla esplosione dei rave illegali dei primi anni ’90.
L’autore converrà con me se affermo che questa decisione all’erranza mi mette ancora di più in sintonia con i suoi personaggi. Ed è proprio da questi che vorrei partire: da Tex, Zagor, Dylan Dog, Mister No, Corto Maltese, Nathan Never, L’Eternauta, solo per citarne alcuni. Una fabbrica di erranti, li chiama appunto Alfatti Appetiti, di irregolari, spiriti liberi, ribelli disincantati, libertari, fuorilegge, individualisti senza alcun senso del collettivo. Non a caso nascono quasi tutti in quel favoloso trentennio quando la cultura italiana occupa un ruolo centrale a livello internazionale e che va dai primi anni ’60 con la ripresa delle lotte sociali, attraversa i conflitti irriducibili degli “anni di piombo”, fino ad arrivare alla esplosione dei rave illegali dei primi anni ’90.
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È proprio in questo periodo che il dinamismo creativo di questa cultura offre al mondo le coordinate simboliche, tecniche e retoriche funzionali per la rappresentazione universale dell’agire antistituzionale, disegnando i contorni di quelle che da quel momento in poi saranno le figure antisociali per eccellenza: il ribelle, il fuorilegge, il pirata dell’etere, l’estremista politico, il giustiziere, l’ultras fino ad arrivare al deviante e al serial killer. A fornirle sono, ma non solo, i western di Sergio Leone, i poliziotteschi di Ferdinando Di Leo e Sergio Castellari, gli horror di Dario Argento, Lamberto Bava e Lucio Fulci, i “mondo movies” di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi, e non ultimi i fumetti prodotti da Angela Giussani e Sergio Bonelli e quelli disegnati da Max Bunker e Magnus. Ha ragione, dunque, Alfatti Appetiti quando scrive: «Un sottile filo rosso (sangue) che attraversa la cultura popolare italiana e unisce il nero italiano, il poliziottesco, il cinema orrorifico di Fulci – ma anche di Dario Argento e Lamberto Bava – sino al più “giovane” bonellide (Dylan Dog), made in England proprio come Kriminal, a differenza del quale è certamente un personaggio positivo ma abituato a muoversi in una cornice degna del più nero tra i neri». Ha ragione proprio perché ciò che più stupisce di quel periodo è la frenesia con cui i generi si avvicendano, si ibridano e si esauriscono rapidamente. Quel dinamismo creativo della cultura, infatti, che legittimava la radicalità delle scelte di campo e disegnava un immaginario collettivo che, caso strano in Italia, colludeva immediatamente con la realtà si esaurirà nel giro di trent’anni con la fine della politicizzazione di massa e dello scontro violento tra fazioni. A qualcuno questa tesi, sostenuta anche da Douglas Mortimer in Possibilmente freddi (DeriveApprodi 2006), non potrà piacere, ma la tradizione italiana dal Rinascimento in poi rimane questa. Ciò non vuol dire che oggi non ci sia più cultura, vuol dire semplicemente che la cultura italiana priva di una sponda politica, rinnegando il conflitto così come si dispiega in una società del consumo, si appiattisce molto spesso sulle virtù consolidate dalla tradizione, inorridita davanti alla volgarità dei costumi contemporanei. Preferisce la feroce astrattezza delle virtù repubblicane al realismo spigoloso di una libertà amorale, egoistica e indifferente.
Basterebbe leggere l’ultimo libro di Nadia Urbinati, Liberi e uguali (Laterza 2011) per capire la distanza che separa ormai l’establishment culturale, di cui la Urbinati fa parte, da tutto ciò che vive e accade in una società del consumo dove è proprio la pratica di una libertà individuale insensibile a qualsiasi anelito di giustizia, solidarietà e uguaglianza a mettere in crisi gli strumenti della democrazia. Questo individuo, rispetto al passato, prende per la prima volta possesso del mondo senza più alcuna limitazione (fattori antagonistici e per altro irriducibili come potevano essere lo Stato, la Storia o la Politica sono stati espulsi dal suo territorio) e senza più compiti extramondani (fondazione della città cristiana) né sociali (corrispondenza tra comportamenti personali e ruoli sociali). Ci troviamo per la prima volta di fronte a un individuo che è situato totalmente nel mondo. È il consumo, e non il mercato con le sue regole e i suoi riti sociali, il baricentro della sua azione, il fondamento delle sue relazioni, il dato antropologico che lo caratterizza. Ma invece che partire da qui, dalla consapevolezza di che tipo di società e di individuo si trova davanti, la Urbinati va alla ricerca disperata della sua pietra filosofale, e cioè di un “cemento etico” buono per tutte le stagioni. Detto questo, non è che preferisco al “dover essere” universalistico, indifferenziato, generico di Nadia Urbinati che si rivolge all’uomo e non all’individuo le ‘mutande’ di Giuliano Ferrara che vogliono coprire nulla se non la sfrontatezza e l’arroganza terrene, troppo terrene, del potente di turno. Un’altra via ci sarà pure, magari che non sia la “terza” storicamente perdente!
Chissà se rivolgendo di nuovo lo sguardo a quegli “eroi…d’inchiostro” non possano indicarci la via? In fin dei conti rispetto al loro tempo erano dei visionari, erano sacerdoti di una libertà assoluta che risiedeva solo all’esterno, in quello che facevano e non in quello che pensavano. E soprattutto sapevano guardare l’orrore degli spazi vuoti: dalla giungla ai deserti della frontiera americana fino alle nostre periferie urbane dove solo una visione conflittuale, lucida, estrema, da portare a ogni costo allo scontro, assegna appartenenze e unisce gli uomini e le donne.
Massimo Ilardi vive a Roma e insegna Sociologia urbana nella Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno, Università di Camerino. Tra le sue pubblicazioni si segnalano L’individuo in rivolta. Una riflessione sulla miseria della cittadinanza (Costa & Nolan,1995), Negli spazi vuoti della metropoli (Bollati Boringhieri, 1999) e Nei territori del consumo totale (DeriveApprodi, 2004). Per Meltemi ha pubblicato In nome della strada (2002) e Il tramonto dei non luoghi (2007). Con Enzo Scandurra ha scritto Ricominciamo dalle periferie (Manifesto Libri, 2009). Ha curato inoltre Una strana rivista. Gomorra 1998-2007 (2007) e, più recentemente, il volume collettaneo Il potere delle minoranze. Immaginari culture, mentalità all’assalto del mondo (Nimesis, 2010)
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