venerdì 11 febbraio 2011

All'armi siam fumetti, la recensione di Gianfranco Franchi su Lankelot

Articolo di Gianfranco Franchi
Da Lankelot (giovedì 10 febbraio 2011)
Roberto Alfatti Appetiti, prima d'essere giornalista, padre di famiglia e saggista, è un gran fumettaro. Un fumettaro impenitente cresciuto con “Tex”, “Zagor” e “Mister No”, tre grandi fumetti nati in casa Bonelli. Casa Bonelli è quella in cui lo spirito è questo: “Il vero fumetto è avventura pura, evasione, immaginario” - come diceva il patron Sergio, rivendicando tutta una serie di buone reminiscenze letterarie (Jack London, Joseph Conrad, Robert Stevenson, Zane Grey) nel dna delle sue creature. Ecco: avventura, evasione e immaginario sono tre parole fondamentali nell'estetica e nella poetica di Alfatti. 
“All'armi siam fumetti. Gli ultimi eroi d'inchiostro” è una raccolta di pezzi originariamente apparsi sul “Secolo” e su “Area”. Sono saggi brevi, interviste, recensioni e meditazioni a tutto campo – nate a partire dagli eroi di carta. Roberto Alfatti Appetiti parla chiaro: “Scrivo da 'destra' ma mi rivolgo a tutti. In certa sinistra, fortunatamente una parte minoritaria della sinistra, invece, riscontro un atteggiamento schizoide: c’è chi snobba il fumetto in quanto 'controrivoluzionario”' perché intrattenimento equivale a 'fascismo', e chi lo usa per fare operazioni di killeraggio politico malamente mascherate da satira”, ha dichiarato in un'intervista rilasciata a “Fumetto d'autore”. Alfatti, invece, non ha paura di scegliere da che parte stare: ama il fumetto e non fa che leggerne e parlarne, sognando di guadagnare alla causa neofiti e ritrosi. E in questo libro ci racconta – o ci conferma – un buon numero di cose interessanti, ad hoc. Per esempio, ci parla di Zagor. Zagor, nato dal genio di Sergio Bonelli, è l'affascinante e combattuto Spirito con la Scure, custode vagabondo della foresta di Darkwood. Una figura di “giustiziere e pacifista”: secondo Alfatti, non il solito raddrizzatorti ma un ragazzo che ha dolorosamente scoperto che verità e giustizia non si trovano mai dalla stessa parte (magari), e che per questo ha consacrato la sua esistenza a cercare di stabilire i presupposti per la serenità tra bianchi e amerindi. Magari pecca un po' in diplomazia, ma insomma l'idea sarebbe questa. A stemperare i toni, il suo assistente: Cico. Don Cico Felipe Cayetano Lopez y Martinez y Gonzales: gran personaggio.
Altrove, Alfatti ci parla di Nathan Never. Nathan Never, ideato dai tre sardi Medda, Serra e Vigna negli anni Novanta, è un personaggio che vive in un futuro dall'estetica non dissimile da “Blade Runner”. È un ex poliziotto, vedovo, una figlia in clinica, tanta nostalgia per i libri, i dischi e i film del passato (cioè del nostro tempo) e dalla semplice visione del mondo: “Non esistono buoni e cattivi, ma azioni buone e cattive”. Secondo uno dei suoi papà, Antonio Serra, la fantascienza può raccontare meglio l'attualità e i problemi sociali rispetto alla narrativa politica perché “è libera da quei filtri ideologici a volte rabbiosi e supponenti che possono infastidire il lettore. Può essere interpretata come metafora della realtà, ma senza imbrigliare l'avventura a fini pedagogici”. E allora ecco che quella visione del futuro diventa fertile e suggestiva: è più libera.
Con grande ispirazione, Alfatti ci parla di Jerry Drake detto Mister No, spiantato, indisciplinato e ribelle pilota yankee, reduce di guerra protagonista di una fantastica saga bonelliana (1975-2009) ambientata in Amazzonia. Mister No è l'antieroe che “più ha alimentato la scorrettezza politica e culturale di una generazione molto diversa dalle infiocchettate, telegeniche e cinematografiche rappresentazioni postume”: Mister No era uno che non aveva nessun interesse per il profitto, per la carriera e per la borghesia. Piuttosto, preferiva spendere quanto aveva guadagnato col suo ingaggio da pilota per divertirsi, bere, fumare e andare a donne. Aveva una sua etica (Alfatti: “insofferente a ogni compromesso e ingiustizia”, detestava i prepotenti: tutti) e una sua poetica, ecologista basica. Nessun impegno ideologico, molti sentimenti e tanta limpida renitenza all'ordine, e alla disciplina. Formidabile. Come se non bastasse, a disegnarlo era Roberto Diso, classe 1932, uno dei pochissimi disegnatori dichiaratamente di destra, divertito un mondo da questo suo ragazzaccio mai allineato, sempre guardato con sospetto. Diso spiega perché Mister No piaceva tanto: “Perché siamo anarcoindividualisti come lui, ci assomiglia anche nei difetti, è più vicino al nostro mondo che a qualsiasi altro. Noi di destra siamo dei lupi solitari, siamo tutti individualisti, quasi mai compatti sulle cose...”. Quasi mai: con rischi allucinanti ed equivoci ciclopici, e a volte irrimediabili. Succede. Torniamo ai fumetti.
Perché questa passione dei fumetti può avere colore politico? Alfatti ricorda che Togliatti costrinse Vittorini a chiudere il “Politecnico” perché divulgava fumetti, mentre Nilde Iotti, su “Rinascita”, nel 1951, ribadiva che la gioventù che si nutriva di fumetti era una “gioventù che non legge”: e questa “non-lettura” era una delle cause di “irrequietezza, scarsa riflessività, deficiente contatto col mondo circostante e quindi tendenza alla violenza, alla brutalità, all'avventura fuori dalla legge”. Addirittura. Figuriamoci quanto la Iotti avrà amato Andy Capp, l'avatar di quello che, secondo Alfatti, è stato l'altro Sessantotto, quello anglosassone: “Nessuna velleità ideologica di stampo marxista, neanche una briciola di luoghi comuni. Bandita ogni retorica. Non c'è in lui né rabbia né frustrazione. La lotta di classe non lo sfiora, non è affar suo. Della società se ne frega e ne è ricambiato con reciproca soddisfazione”. Sospetto molto poco. D'altra parte Andy Capp era fondamentalmente un gran bevitore, uno scommettitore impenitente, un cittadino estraneo a qualunque spirito di sacrificio diverso dal sollevamento pinte: totalmente impolitico. Inevitabilmente antipolitico. Secondo Antonio Pennacchi, “un finto burbero ma ha un cuore d'oro, un po' come l'Accio Benassi del mio Fasciocomunista”. Un po'.
In generale, Alfatti puntualizza spesso che in epoche diversamente ideologizzate le avventure di antieroi estranei all'ideologia o distanti dall'ideologia potevano paradossalmente assumere connotato destrorso. Nel tempo, ha prevalso qualcosa di diverso: ha prevalso, come osserva il libertario Gianfranco Manfredi, l'immaginario... “Per questo l'immaginario ha sconfitto l'ideologia, perché ha rielaborato in maniera più compiuta i conflitti della modernità”. Non stupisce, insomma, se l'amministrazione comunale capitolina di Alemanno, almeno sotto l'illuminato e democratico e onesto assessorato di Umberto Croppi (non a caso defenestrato dai diktat arcoridi, in men che non si dica), s'è deciso di intitolare strade e piazze di un quartiere ai maestri del fumetto italiano: Gian Luigi Bonelli, Guido Crepax, Hugo Pratt, Benito Jacovitti, Andrea Pazienza. Così si fa. Ben fatto.
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A latere, segnalo la presenza di buone pagine dedicate ad Hugo Pratt, all'“Eternauta” (“anticipò profeticamente il terribile dramma dei desaparecidos”), a Kriminal, a “Persepolis” di Marjane Satrapi (“vent'anni di storia iraniana, dalla rivoluzione islamica del 1979 agli anni Novanta, visti attraverso gli occhi di una bambina coraggiosa che si ribella al conformismo del regime dei mullah”) e al gran bastiancontrario padre di “Alan Ford”, Max Bunker. “Alan Ford”, sì: forse perché, come scriveva Domenico Di Tullio, “Il mondo non conforme è incline all'umorismo grottesco e alla boutade e nelle dinamiche ironico-claustrofobiche del Gruppo Tnt riconosce anche la sdrammatizzazione del proprio quotidiano” - e di sdrammatizzare, in un'epoca oscura e profondamente corrotta come questa, ne abbiamo sinceramente un gran bisogno. I fumetti, forse, non ci salveranno: ci consoleranno, almeno. Mica poco.
Gianfranco Franchi
FONTE: LANKELOT

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