Articolo di Luigi G. de Anna
Dal Secolo d'Italia di venerdì 11 febbraio 2011
Ion Stavarus aveva un profilo da pugile, e forse in gioventù lo era stato. Quando la Romania mandò alla nostra università il suo primo lettore di rumeno noi colleghi lo accogliemmo con simpatia, ma anche con una certa curiosità. Erano gli anni di Ceausescu. Come poteva uscire da quello stato di polizia una persona che si definiva libera, un intellettuale?
Il dubbio era legittimo, considerato che la Securitate controllava saldamente la vita dei romeni, in patria come all'estero.
Ion era un uomo di lettere, aveva scritto un bel libro sul mito di Dracula, ma era anche stato un ufficiale dell'esercito. Nonostante l'apparenza da pugile, era un uomo dolce, quasi mite. Stette nella nostra università per i tradizionali tre anni (il massimo per un lettore della sua permanenza all'estero), poi ritornò in patria. Nelle nostre conversazioni qualche volta parlavamo anche di Eugène Ionescu e perfino di Vintila Horia. Anche i successori di Ion amavano Vintila Horia. E questo mi stupiva. Loro, i rappresentanti della Romania di Ceausescu, come era possibile? No, non era un artifizio per ingannarmi, magari per farmi parlare a ruota libera per il beneficio, chissà poi perché, delle loro note informative.
La verità era che ogni romeno è orgoglioso del proprio Paese e della propria cultura. Non avevano in campo culturale alcuna pregiudiziale antifascista; sono convinto che, perfino se gli avessi chiesto di Codreanu, me ne avrebbero parlato bene. I commilitoni di Codreanu vennero presi, uno ad uno nell'immediato dopoguerra. Molti finirono nel carcere di Pitesti, a nord di Bucarest. Nessuno ne uscì, neppure quelli che, sottoposti a orribili torture, erano passati dalla parte degli aguzzini. Ion Stavarus con me parlava anche del regime. E non lo difendeva. Uno che ama Dante Alighieri e Cioran, non può essere comunista, pensavo. E se la sua fosse stata tutta una menzogna da agente segreto?
Passò qualche anno, e a Ion seguirono altri lettori. Florian, il giorno del compleanno di Ceausescu, organizzava una festa al dipartimento e declamava le sue poesie in onore del grande leader. Erano poesie sincere. Poi anche lui tornò a casa. L'ultimo dei miei amici lettori di Romania fu Nicolae. Nicolae non nascondeva di essere comunista, e quando Ceausescu cadde (restammo in contatto anche dopo la fine del comunismo e Nicolae continuò a frequentare la Finlandia, da apprezzato folklorista qual era) rimase comunista. Lo stimai molto per questa sua fedeltà. Un giorno mi dissero che Ion era morto. Morto come? I freni della sua auto non avevano funzionato. Una vecchia tecnica della Securitate. E, idealmente, mi scusai con lui per aver dubitato della sua sincerità. Ho sempre trovato triste parlare con i colleghi che venivano dall'Europa comunista. Venivano ai convegni nelle nostre università preparatissimi, portando pubblicazioni di grande valore. E qualcuno mi confessava di non avere più neppure la macchina da scrivere. Facevano molte fotocopie, tante fotocopie. Quella macchina quasi li affascinava. Mi colpì, era la fine degli anni Settanta, la capacità degli studenti di italiano dell'università di Leningrado di esprimersi nella nostra lingua. In Italia non c'erano mai stati. Una di loro, una dolce biondina dall'aria triste, mi chiese dell'Italia, come era "veramente".
Non avrebbe mai avuto occasione di andarci. Povera russa. Con la caduta dell'Urss, le giovani biondine inonderanno le strade di periferia del nostro Paese. Era questa la libertà che sognavano? Un estone una volta mi disse di essere figlio di un ex ministro e questo gli aveva impedito di terminare gli studi. Ma erano piccole cose, piccole violenze fatte da un regime che oramai apriva i primi spiragli se non alla democrazia, alla clemenza umana. Nel 1949 si aprono per molti giovani romeni le porte del carcere di Pitesti. Le grandi celle, quasi dei dormitori, si riempiono al tempo stesso di agnelli e di lupi. I lupi, brano a brano, dilanieranno gli agnelli sacrificali. Leggere il romanzo di Dario Fertilio Musica per lupi (Marsilio) che porta come sottotitolo "Il racconto del più terribile atto carcerario nella Romania del dopoguerra" fa male allo stomaco. Bisogna infatti averne di stomaco per continuare a leggere quelle, tante, pagine che raccontano le torture che Eugen Turcanu, il capo di un gruppo di detenuti passati dalla parte degli aguzzini, infligge ai suoi compagni di prigionia. Giovani studenti, ma anche adulti di diversa estrazione, alcuni della Legione di Codreanu, altri credenti in Dio, o monarchici o forse, neppure niente di tutto questo.
La sfortuna dei casi umani può portare a Pitesti anche chi non ha mai avuto a che fare con la politica o l'ideologia. Quella raccontata da Fertilio è una storia vera, che naturalmente il noto giornalista della pagina culturale del Corriere della Sera traspone alle esigenze del romanzo, o meglio della narrazione. Fertilio non pretende di scrivere, o riscrivere, la Storia, ma vuole lasciare di essa una impressione, diremmo, tattile. Questi corpi martoriati dalle torture di Turcanu (poi lui stesso fucilato) e dei suoi collaboratori infatti sono una presenza reale, corpi veri, lamenti autentici che riecheggiano nella nostra coscienza. Nel lontano 1963 con Franco Cardini, Attilio Mordini e Marco Barsacchi fondammo il Cleo, Comitato per la libertà dell'Europa orientale. Organizzammo una manifestazione in un cinema cittadino, con profughi ungheresi e romeni. Due di loro saranno poi miei professori all'università. Con Laszlo Palinkás mi sono laureato in filologia ugro-finnica. Aveva perso una gamba in guerra. Aveva fatto parte (si diceva) delle Croci frecciate, e questo in una facoltà "rossa" come era la mia gli costò l'isolamento più assoluto. La rivolta d'Ungheria è stata per la mia generazione un mito fondante. Ero bambino, ma quei giorni di fine autunno del '56 non li dimenticherò mai. Come ha scritto Franco Cardini, spinsero molti di noi dalla parte del più totale anticomunismo. Ma forse non avevamo compreso la grande logica della storia.
È presuntuoso condannare. Bisogna solo cercare di capire. Il comunismo ha fatto tante vittime. Fertilio scrive che in Romania i condannati a seguito di processi tra il 1949 e il 1960 furono 550mila. Globalmente è stato detto che il comunismo ha fatto nel mondo 100 milioni di vittime. Una cifra simbolica ed altrettanto evidentemente esagerata. Ma bisogna fare attenzione ai numeri. I numeri servono a fare la storia, a guidarla, a rafforzarla, a farci indignare a comando. I numeri, i milioni di vittime, si usano per scopi politici, anche a decenni di distanza dai fatti. Ecco l'importanza della libera ricerca storica, cercare di frenare l'uso ideologico delle vicende umane. Per questo leggi come quelle approvate nei Paesi ex comunisti che demonizzano il comunismo e i comunisti, limitando la libertà di ricerca sul medesimo, sono pericolose. Altrettanto dannosa per la libertà di pensiero sarebbe una legge che impedisse di contestare l'olocausto italiano delle foibe, ricordato ieri. A chi obietta che il numero delle vittime non fu così alto come oggi si ritiene, non si può che rispondere con la documentazione storiografica, non con le leggi. Questo non toglie che il comunismo abbia enormi responsabilità, come le ha nei confronti di coloro che ha perseguitato. E ciò che colpisce è il fatto che molte delle vittime non furono, e il bel libro di Fertilio ce lo conferma, oppositori, i "fascisti" insomma, ma comunisti che credevano, onestamente, nel comunismo. Le purghe staliniane salvarono, probabilmente, un Paese dall'invasione nazista, rendendolo duro e compatto, ma divorarono molti di coloro che in esso avevano creduto. Questo ben poco lo fece il nazionalsocialismo e quasi per nulla il fascismo. Ma forse, per capire che cosa possa essere successo in quel grande Oriente che va dall'Estonia alla Cina, dovremmo cercare anche di capire la natura profonda di quei popoli, la loro storia, la loro mentalità, ma anche, semplicemente, l'oscura natura umana. L'uomo ha in sé questa capacità di violenza che si manifesta in determinate condizioni storiche, in Romania come nel ghetto di Varsavia, a Gaza come a Lhasa. È l'umanità, oscura e bestiale, dei "Lupi" di Pitesti.
Luigi G. de Anna
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