Articolo di Gianfranco Franchi
Dal Secolo d'Italia di venerdì 11 febbraio 2011
Derek Raymond scriveva noir perché il noir era la sua missione sociale: perché il noir era speculare alla sua esistenza. Scriveva noir perché voleva raccontare tutto quel che non andava nella nostra società, nella società occidentale, animando e plasmando le sue storie. Stanze nascoste (Meridiano Zero, pp. 336, € 16,00) è un ibrido tra un memoir, un potente trattato di estetica e genetica del noir e un pamphlet etico-politico. È un impressionante atto di apertura e di condivisione della propria essenza: è la prova della generosità d'un uomo di profonda sensibilità e granitica e inequivocabile dedizione agli ultimi, ai ribelli e agli sconfitti.
Derek Raymond (1931-1994) scrisse questo libro nel 1992, guardandosi dentro con questo spirito franco e onesto: «È la prima volta che cerco di considerare il mio passato nella sua interezza. Vuol dire accettare con piena coscienza che il proprio tempo sulla Terra è arbitrariamente limitato, e affrontare quel che comporta - ovvero nessuna possibilità di scelta». E con questo spirito franco e onesto l'artista inglese ha condiviso le memorie della sua infanzia da privilegiato, e poi da privilegiato sconvolto dall'assurdità, dalla violenza e dalla prepotenza delle cose della vita, complici i bombardamenti che squassarono e oltraggiarono il popolo inglese. Era un bambino di dieci anni quando, nell'estate 1940, tutto a un tratto scoprì quanto feroce e presente potesse essere la guerra. Così: «Mi ritrovai catapultato dalla parte opposta della sala, illeso ma senza fiato. Stordito, vidi che la porta era stata divelta, i vetri delle finestre ridotti in frantumi, una polvere turbinosa nascondeva tutto, si sentivano solo i rumori di cose che cadevano, si rompevano, si riassestavano, e io ero lì in mezzo, accasciato contro il muro. Un grappolo di bombe era esploso in strada [...]».
E quel bambino ricco, figlio di ricchi, figlio di una famiglia ricca e potente da più di un secolo, tutto a un tratto si trovava a dover fronteggiare la sofferenza, la miseria, il pericolo di perdere la vita: l'infamia degli esseri umani, la loro tracotanza. Prima di allora, era un bambino che non amava essere servito. Il suo problema, scrive, era non tanto essere viziato e circondato da una grande quantità di oggetti e di svaghi: era, piuttosto, la rabbia. Ma Raymond aveva scelto presto e bene da che parte stare. Dalla parte dei ribelli: «Credo che avrei comunque sentito il bisogno di ribellarmi a qualsiasi educazione o condizionamento. Comunque mi sia comportato, non me ne pento». Formidabile. Invecchiando, ha poi capito che la scelta era giusta per una ragione in più: «Nella vita l'unica cosa che mi è riuscita bene, senza volerlo, è stata non avere mai un soldo». Funziona, sì. Raymond racconta di essere nato in uno strano ghetto: un ghetto per ricchi. Per uscirne è bastato diventarne consapevole. Raymond era un ragazzo educato a Eton, e che da Eton se ne sarebbe andato, non appena possibile, prendendo e rifiutando il benessere, i capricci infiniti e inverosimili della ricchezza, l'amara poetica della menzogna del classismo. In nome di cosa? In nome della scrittura: forse perché, come scriveva l'artista inglese, nella lingua c'è qualcosa di meraviglioso... «Quando ti viene incontro ti dà piacere come una donna. Quando fai l'amore con la donna giusta non riesci a smettere, ed è altrettanto meraviglioso inseguire e catturare l'immagine con le parole». E quando uno scrive, per Raymond, la lingua si deve muovere nella mente del lettore in maniera tutt'altro che meccanica. Dev'essere, piuttosto, spontanea, realistica, autentica. Il noir è l'espressione dello scontro tra l'umanità e il "contratto universale": uno scontro in cui la sconfitta è certa. Più ancora: «Screditata la religione, il noir è una sorta di rinnovato sforzo per colmare il vuoto descrivendo apertamente ciò che fa male alle persone». O meglio: esiste per mostrare agli uomini cos'è la vera disperazione. E la vera disperazione, per Raymond, sta in quelle piccole e buie stanze dell'esistenza dove ogni uscita è sbarrata. Perché magari, una volta nominato e definito, il male può essere distrutto: e intanto, è stupendo che il noir rivendichi la sua natura di «fratello della povertà, difensore della miseria, delle masse alla deriva, della disperazione». Ecco.
Uno legge questo libro e si domanda come sia stato possibile confondere il noir col thriller, o col romanzo poliziesco. Grosso sbaglio, vi avrebbe detto Raymond. La causa? Semplice. È pretenziosa robaccia scritta che va lavata via, perché «compito del noir è di mettersi carponi con un secchio di acqua calda e uno straccio e cominciare a grattare via un po' dello sporco indecente lasciato sulla scena da autori come Agatha Christie - grazie ai quali, a quanto pare, personaggi ridicolmente improbabili come Hercule Poirot si confondono nella mente dei lettori con Philip Marlowe e Gregor K». Amen.
Gianfranco Franchi
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