Nel mondo di Diabolik e Tex l'editoria italiana non conosce crisi
Articolo di Domenico Paris
Da l'Occidentale del 27 febbraio 2011
Finita l’epoca in cui era meglio nasconderli per evitare sequestri dolorosi da parte dei genitori, i fumetti, dopo furiose discussioni dentro e fuori dal seminato dell’establishment culturale, da una ventina d’anni sembrano essere finalmente assurti al rango di espressione di arte unanimemente riconosciuta.
Forse neanche il più fiducioso e lungimirante dei suoi amatori, negli anni ruggenti delle prime sortite in edicola e in libreria, avrebbe potuto sperare in un destino così benigno. Eppure… eppure, nonostante lo sdoganamento da parte delle eminenze sapienziali di ogni parte del globo, è innegabile che il mondo dei disegni e delle nuvole parlanti ancora oggi, a far la tara a certi faziosi inviti alla “mente aperta” e al “tutto è importante” di chi sta assiso dietro agli scranni che contano, sembra provocare nei non completamente iniziati al culto una certa cautela. Quasi che l’ammissione (liberatoria, diciamolo!) del suo valore creativo e, ancor di più, rappresentativo del mondo in cui viviamo possa essere interpretata come un segnale di inequivocabile debolezza intellettuale. Peggio, come una sindrome di peterpanismo impossibile da avallare per chi ha il desiderio, se non la pretesa, ad un certo punto del proprio, accorto divenire un “uomo di peso”, di accaparrarsi un posto al sole (ma anche all’ombra, quella comoda di chi ama viver nascosto ma stimato e rispettato) nel rispettabile jet set di “coloro che sanno e dettano la via del sapere”.
Ci si va cauti, con gli eroi d’inchiostro, non fosse altro perché troppo spesso hanno la capacità di andare a toccare, con la zampata rude dell’elefante ma anche con la grazia commovente e devastantemente pura del bambino, i nervi più scoperti e sensibili della società in cui viviamo. Inutile nascondersi dietro a un dito: quei simpatici pupazzini che zampettano e straparlano all’interno di una pagina, fossero degli innocui topastri disneyani o dei feroci guerrieri senza tempo con l’ipertensione alla truculenza, fanno maledettamente paura. Perché dietro al candore delle loro storie o all’inverosimilità di certi assunti ideologici ed esistenziali che li animano, lasciano che si propaghi nella mente del povero lettore una prospettiva diversa da quella noiosa linea retta di maturità (intellettuale) e crescita (sociale e di considerazione da parte degli altri) alla quale tutti, in qualche modo, strizziamo l’occhio quando diventiamo grandi. Col fumetto, non si scherza. Finita l’età della voglia di evasione fine a se stessa, quando si è superata una certa soglia cronologica, se ne rimane prigionieri per la capacità dionisiaca di sbatterci senza complimenti di fronte a un mondo, a dei mondi, che non avremmo saputo o voluto immaginare, ma al richiamo profondo dei quali non sappiamo resistere, perché siamo fatti di carne, sangue e speranza, mica di biechi e convenienti sillogismi. Mondi in cui valori e disvalori sono ancora tali, dove la linea d’ombra tra il buono e il cattivo, tra l’eroico e l’ordinario, non è solo un patetico retaggio cerebrale degli anni di fanciullo andati e disperatamente rimpianti, ma un problema esistente e maledettamente esigente che richiede senza posa una presa di posizione, un dentro o fuori morale del quale non ci si libera con la consueta scrollata di spalle. E allora si fa dura, e più di una volta ci si trova a sacrificare al sacro culto nella speranza di non farsi scoprire dai colleghi o dagli avversari più spioni e sospettosi. Magari, nascondendo il reprensibilissimo strumento di piacere nella tasca più recondita della ventiquattr’ore dietro ai romanzi “importanti” o nelle librerie di rappresentanza, per poi tirarlo fuori al momento giusto, quando nessuno ci sta a guardare, quando, finalmente, sul gran teatro necessario ma fastidioso dell’apparire in pubblico, precipita il sipario pesante e liberatorio della clandestinità.
Il fumetto come altro mondo, quindi, come possibilità altra di vedere chi siamo, dove andiamo (o dove saremmo voluti andare). Troppo spesso, però, ci si dimentica che nella società di oggi, così disperatamente incagliata nella legge dei grandi numeri e nell’ansia da conto, il fumetto è anche una entità concreta. E cioè: la merce (il tramite, se preferite un linguaggio più ossequioso) attraverso la quale l’unica industria del settore editoriale non in recessione sembra richiedere la dovuta attenzione a chi ha la tendenza (un po’ farfallona) a stilare bilanci o a disseminare categorie di successo. I numeri, da una parte all’altra dell’emisfero, parlano chiaro: nell’epoca di internet e dei libri e dei giornali che marciscono nelle catene di distribuzione, il fumetto continua a tirare. Inesorabilmente. Con la forza economica, immediatamente filigranata, del prodotto che va nonostante i ribaltoni del mercato globale. E questa considerazione, che potrebbe non stupire se fosse ponderata solamente nei confronti di quei paesi (anglosassoni) dove la tradizione delle nuvole parlanti è ormai quasi secolarmente consolidata o dove (Il Sol Levante e dintorni) la vis creativa di chi la pratica sembra non avere limiti di sperimentazione e fantasia, vale anche per l’Italia. Provate, se siete di quelli appassionati di soli risultati, a dare un’occhiata alle classifiche di vendita globale nel comparto produttivo e vi accorgerete che, mentre tutti strepitano e si dannano alla ricerca del nuovo paradiso merceologico, un’industria vecchia ormai di molti decenni continua a produrre utili e conservare posti di lavoro quasi come si fosse agli albori di una nuova “caccia al tesoro”.
Il fumetto come arte e il fumetto come realtà economica, dunque. All’armi siam fumetti (I libri de “Il Fondo”, 200 pp), di Roberto Alfatti Appetiti, prova ad indagare proprio questa duplicità all’apparenza così contraddittoria. Composto da ventisette capitoli ricavati da articoli e interviste redatti dal giornalista avezzanese su vari quotidiani e riviste nel corso degl’ultimi anni, il libro, una dichiarazione d’amore incondizionata e intensamente sentita, giova dirlo in anticipo, attraverso un ductus agile e mai prosaico, va alla ricerca delle ragioni e dei desideri che hanno spinto milioni di noi ad avvicinarci alla matita e alle storie dei più grandi interpreti del genere, decretandone il successo di massa e una fortuna commerciale che non teme cedimenti. Eroi indimenticabili e venerati da cinque e passa generazioni di italiani trovano nelle sue pagine l’adeguata ribalta per raccontare al lettore vezzi e segreti, retroscena mai svelati, ma anche quanto è stata lunga e faticosa la strada che alla fine li ha condotti al rango di icone e macchine da soldi. Ecco allora Dylan Dog, Corto Maltese, Zagor, il buon vecchio Tex e tutti i loro “fratellini” che hanno titolo e voglia di dire qualcosa. Tutti lì a ricordarci storie e peripezie, consci del fatto che, mai come oggi, ci sia un gran bisogno di essere “personaggi” per reggere l’urto del disincanto e dello smarrimento della speranza. E, accanto a loro, le voci importanti dei loro creatori che, quando le parole “coraggio” e “pionierismo” avevano ancora un peso specifico, hanno avuto la spinta interiore necessaria a dire e a dare al sistema della roccaforte culturale uno scossone deciso e senza remore, al quale è seguito una serie di capitomboli il cui fragore, nonostante sia passata un sacco d’acqua sotto i ponti, risuona ancora nell’aria.
Roberto Alfatti Appetiti fa parlare a cuore aperto alcuni tra i più grandi autori e sceneggiatori del fumetto italiano, gettando luce sulla loro vicenda artistica e umana, sugli anni travagliati dell’underground e della scommessa, del rischio e delle persecuzioni, fino a farci partecipi delle scalate nelle classifiche di vendita e negli indici di gradimento all’interno dei salotti migliori della nostra intellighenzia. Max Bunker (Luciano Secchi), Sergio Bonelli, Roberto Diso, opportunamente pungolati, aprono gli scrigni della loro memoria per renderci partecipi della magia e delle infinite stranezze che li hanno accompagnati, dalle strade secondarie e poco battute degli esordi, ai viali alberati della gloria presente, senza mai dimenticare di sottolineare le potenzialità pedagogiche, forse taumaturgiche, che il fumetto sembra ancora possedere in questo difficile inizio di terzo millennio sulle legioni di appassionati, che, non solo non si sono arresi, ma hanno proliferato nell’era del cinismo e del disincanto imperanti . Un libro, all’Armi siam fumetti, che ha dunque il grande merito di raccontare una porzione di storia storica ed artistica del nostro Paese attraverso la voce calda chi ha sempre raccontato (sia gli autori che i personaggi, quasi “vivi”, fuor di inchiostro per una volta). Di suggerire prospettive, fantastiche eppur pregne di lucidità analitica, da parte di coloro che hanno fatto e continuano a fare di un mondo di nuvole e parole all’apparenza innocue, uno strumento potente e imprescindibile di introspezione del reale. Insomma, un omaggio a tutto tondo nei confronti di una forma di espressione e di talento che sembra non voler mai smettere di stupire e che, come l’araba fenice, risorge sempre dalle sue ceneri per riaffermare il potere sempiterno della crea(t)tività sull’immobilismo e la noia.
Domenico Paris
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