Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia del 27 febbraio 2011
Sono talmente tanti, i pregi di Roberto Vecchioni, che ormai non c'è praticamente nulla che possa modificare il giudizio positivo che gli è dovuto. Innanzitutto come artista, capace di scrivere bellissime canzoni e bellissime pagine sull'arco di oltre quarant'anni di intensa attività creativa, disseminata di un gran numero di dischi e contrappuntata da alcuni libri. Ma in parallelo, per quanto è dato sapere non frequentandolo assiduamente e non avendo scavato a fondo nella sua vita privata, anche come uomo.
Giustificato o meno che fosse, del resto, il grande fascino dei cantautori era proprio questo. La sensazione che il piano esistenziale e quello artistico si potessero sovrapporre: la sensibilità che dimostravano nei loro brani, e specialmente nei loro testi, non era solo una splendida simulazione dovuta al talento ma un riflesso fedele, benché ingigantito, di ciò che erano nella loro vita reale. L'aspettativa generale era che, se si fosse avuta l'occasione di incontrarli e di conoscerli almeno un poco, si sarebbe entrati in rapporto con le stesse persone che venivano delineate dalle canzoni. Fabrizio De André che ha bisogno di tempo, prima di aprirsi, e che può apparire scostante e inaccessibile, ma che non pecca mai di superbia. Francesco Guccini che ride forte in mezzo agli amici, ma nel cui sguardo passa all'improvviso la luce, o l'ombra, dei momenti di malinconia, se non proprio di disperazione, che vive a volte da solo. Roberto Vecchioni, appunto, che è sempre alle prese col problema di mettere d'accordo il suo cervello e il suo cuore: di qua la sua vasta cultura che lo induce ad analizzare tutto, con gli automatismi a doppio taglio degli studiosi che non possono esimersi, neanche volendo, dal cogliere determinati segnali e, ahimè, determinate debolezze di forma o di sostanza, sia nell'intelletto che nel carattere; di là il suo grande cuore che lo spinge ad accarezzare il sogno di un'empatia che aspira a essere universale, fino a rischiare di fargli vedere il bene dove il bene non c'è - o è poco più di una potenzialità appena accennata.
Vecchioni che inizia a scrivere per altri. La composizione come una specie di lavoro che qualcuno deve pur fare. E che può servire, oltre che a guadagnare qualche soldo, a impratichirsi di certe tecniche e a stabilire certe entrature nel mondo discografico. Sempre meglio, un domani, poter bussare alle porte di chi già ti conosce, anche se in un'altra veste, piuttosto che a quelle di chi ti considera, a ragione, un perfetto sconosciuto.
Vecchioni che intanto si laurea in lettere antiche all'Università di Milano e che comincia a fare l'insegnante, dando inizio a un'attività che non può dargli né fama né ricchezza ma che gli risulterà così gradita, così congeniale, così cara (e forse addirittura così necessaria, per quell'opportunità di non smettere mai di rispecchiarsi negli slanci appassionati e nelle segrete fragilità degli studenti), da indurlo a non abbandonarla mai del tutto, anche dopo che nel 1977 l'exploit di Samarcanda lo avrà fatto schizzare in cima alle classifiche e avrà spianato la strada a tutto ciò che sarebbe venuto in seguito.
Vecchioni che cresce come autore e si cimenta come cantante. I primi quattro album che cercano la rotta senza ancora trovarla. Il quinto e il sesto, nell'ordine Ipertensione ed Elisir, che portano a compimento certe premesse e che non possono mancare nella collezione personale dei suoi estimatori più attenti. Due opere in cui non c'è una sola nota, o una sola sillaba, che non dia l'impressione di scaturire da un bisogno totalmente sincero di esprimersi per come si è realmente. Forse ci sarà un riscontro di vendite e forse no, ma in ogni caso sarà soltanto una conseguenza. Composizioni come Alighieri, come Canzonenoznac, come Pagando, s'intende - e in fondo si potrebbe citarle tutte dalla prima all'ultima - non rincorrono un pubblico ma si rivolgono a degli individui. Persone capaci di ascoltare attentamente, senza fermarsi all'eventuale disorientamento iniziale per la distanza che separa quei brani lunghi ed elaborati, e letterari nell'accezione migliore del termine, da ciò che all'epoca si era ancora abituati ad associare all'idea di canzone, nonostante Dylan in America e gli stessi De André e Guccini qui in Italia: un miscuglio accattivante, e per nulla impegnativo, di musica orecchiabile e di parole alla portata di tutti. Persone che si trovano davanti una lunga citazione in francese, all'interno della splendida A.R. dedicata ad Arthur Rimbaud, e che la accolgono come un profumo seducente e misterioso. Un profumo che gli resta in mente, e che negli anni a venire li indurrà a rinnovare di tanto in tanto la domanda: a quale poesia appartengono, quei versi? Perché non riusciamo a trovarli dentro Le illuminazioni o Una stagione all'inferno?
E infine, oggi, Roberto Vecchioni che decide di andare al Festival di Sanremo. Anzi di tornarci, essendovi già stato nel lontanissimo 1973 con la discreta, ma fin troppo melodrammatica, L'uomo che si gioca il cielo a dadi. Vecchioni che ormai ha 67 anni compiuti, essendo nato il 25 giugno 1943, e che nel 2007 ha pubblicato un album non particolarmente riuscito come Di rabbia e di stelle. Vecchioni che scrive una nuova canzone, intitolata Chiamami ancora amore, che è assai più colma di sentimento che di inventiva. Ma che è molto adatta al Festival. E che per quanto del tutto marginale, rispetto al meglio della sua produzione, è comunque al di sopra della quasi totalità di quello che viene propinato dal palco dell'Ariston.
Così, senza nessun merito particolare, va a finire come sappiamo. Vecchioni sbaraglia la concorrenza e si aggiudica la gara. Parte la grancassa mediatica, imperversa la fanfara da parata celebrativa, dilaga il plauso prefabbricato degli addetti ai lavori e quello smodato e quasi svenevole dei fan vecchi e nuovi che si proclamano incantati dalla straordinaria sensibilità del Professore. Va in scena il prevedibile epilogo sotto forma di un "nuovo" album, fatalmente intitolato come il brano del trionfo, in cui di inedito non c'è quasi niente. E di realmente nuovo ancora meno. In altri casi ci sarebbe parecchio da ridire. In questo caso no. Non basta un tocco di superfluo, a sminuire una storia così lunga e ammirevole.
Federico Zamboni
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