Cos’hanno in comune Goldrake e Jeeg robot d’acciaio, il regista di Pulp Fiction, la profonda provincia rurale del nostro Nord-est e uno Zlatan che non è il celebre Ibrahimovic del Milan ma un fanatico di calcio bosniaco – con tanto di tatuaggio di Safet Sušić, ex nazionale jugoslavo, sul bicipite destro – che se ne va a spasso per luoghi sinistramente somiglianti al Texas come anche alla Louisana occidentale con un fucile a pompa caricato a pallettoni da cinque millimetri di diametro?
Per saperlo occorre precipitarsi in libreria e assicurarsi una copia fresca di tipografia di Bacchiglione Blues (Perdisa Pop edizioni, pp. 144, € 14,00), il secondo romanzo di Matteo Righetto, interprete di punta del nuovo pulp italiano e cofondatore, con Matteo Strukul, di Sugarpulp, il movimento letterario che si propone di esorcizzare la violenza con l’ironia altrettanto estrema delle gag e di coniugare la natura fiera e selvaggia del Nordest con una narrazione giovane, veloce e moderna che guarda oltreoceano a scrittori, come Cormack McCarthy, Victor Gischler e Joe R Lansdale, che hanno rivoluzionato in chiave spettacolare la letteratura.
Se proprio Lansdale, padrino onorario del movimento, dopo averlo conosciuto, ha ribattezzato Righetto con il nomignolo di «Davil Dog», Giovanni Pacchiano su Il Sole 24 Ore ha salutato questo scrittore padovano della classe ’72 – dopo l’ottima prova di Savana Padana (Zona, 2009) – come «il nostro Quentin Tarantino, anche se non fa film ma scrive testi al cui confronto i Cannibali o Ammaniti sembrano fare letteratura per anime candite». Definizione non esagerata, essendo il regista americano un fan dichiarato dei nostri B-movie, cresciuto a pane e poliziotteschi nostrani. E poi, per dirla tutta, quando c’è da far cantare le pistole, gli eredi “artistici” di Sergio Leone non sono secondi a nessuno e Righetto si rifà dichiaratamente anche al regista romano. Il linguaggio del romanzo, del resto, è cinematografico, con inquadrature rapide e macchina da ripresa a spalla. La scrittura corre via alla velocità delle pallottole e ai personaggi non rimane che darsela a gambe per cercare di sfuggire al destino che Righetto – spietato burattinaio e abile mescolatore di ingredienti e generi diversi: thriller, pop, western e commedia nera – ha stabilito per loro.
Il Bacchiglione che dà il titolo al libro è il fiume che attraversa distese di barbabietole da zucchero, vecchi sfasciacarrozze, case coloniche e cascine abbandonate, fino ad arrivare alle paludi e alla laguna che lo conducono lentamente nel mare Adriatico. Tutt’intorno si muove – si fa per dire – la bassa provincia padovana, «lontana anche dagli occhi di Dio, affogata tra i campi di soia, bruma e nient’altro, eccetto l’amara consapevolezza di essere collocati nel culo del mondo». Dalla nebbia perenne spuntano località con nomi degni della fantasia con cui J. R. Tolkien popolò la sua terra di mezzo: Campogrando, Gorgo, Isola dell’Abbà, Fossaragna, Bovolenta, Trambacche. Uomini e hobbit, tuttavia, nell’immaginario fantasy dello scrittore inglese si incontrano in una locanda accogliente come Il Puledro Impennato, mentre Righetto preferisce non venire meno allo sfondo sociale in cui ha scelto di ambientare le sue storie attenendosi a un’amara verosomiglianza con i luoghi e quindi i suoi protagonisti, «fumettosi bifolchi padani», hanno a disposizione solo «bettole che puzzano di sigarette e anelli di calamaro fritti e rifritti nello stesso olio».
Blues è il ritmo musicale della scrittura, pirotecnico, capace di trascinarci in un vortice di imprevedibili colpi di scena, alternando rabbia e sorrisi, momenti drammatici ad altri esilaranti. Comicità autentica quanto involontaria. Gli eroi non sono pervenuti. Né innocenti né colpevoli. Né buoni né cattivi. Semmai – parafrasando Charles Bukowski – solo cattivi e meno cattivi. Carnefici e vittime, infatti, parlano lo stesso linguaggio e si affrontano con le stesse armi. Così quando tre balordi sequestrano la «Sharon Stone della bassa», moglie di un importante imprenditore – ovviamente dello zucchero – e chiedono un riscatto di un milione di dollari, l’uomo d’affari, arricchitosi anche grazie al riciclaggio di rifiuti tossici, non si affida alle forze dell’ordine ma assolda a sua volta una banda senza scrupoli. E la situazione, com’è prevedibile, precipita. È il cane che si mozzica la coda. C’è sempre uno più cattivo degli altri. E incazzato, oltre che decisamente cattivo, è lo Zlatan che citavamo all’inizio, il quarantacinquenne muratore bosniaco che, stufo di aspettare un pagamento dovuto per lavori fatti ormai un anno fa, per riprendersi i suoi soldi è pronto a fare fuoco e fiamme. Senza scomporsi più di tanto e con nella testa la musica degli amati Balkan Blues. «Perché nel mio paese in Vojvodina – spiega rivolgendosi ai lettori – il debitore paga subito. E se non paga, fa brutta fine». Il debitore è, neanche a farlo apposta, il capo dei sequestratori: Tito Pasquato, pregiudicato con la passione per le prostitute albanesi, «le più porche», e un cellulare, un vecchio Nokia che squilla in continuazione – è Zlatan che lo cerca insistentemente – e gli provoca un crescendo di turpi maledizioni con in sottofondo la suoneria di Lupin III.
Sì, il particolare non è affatto casuale ma assai indicativo: anche i “dialoghi” tra lui e i suoi due feroci “colleghi” – Toni Drugo detto Luamaro, «basso, tarchiato, squadrato come un armadietto e di pelo corvino malgrado non più giovanissimo» e Ivo Sborin, «alto e magro, con gli incisivi marci e i pochi capelli superstiti tutti sulla nuca, noto come El Pinciagaìne» – non vanno oltre demenziali dispute sull’immaginario pop degli anni Ottanta. Perché, per quanto si tratti di delinquenti sprovveduti e capaci di tutto, sono pur sempre figli di un immaginario condiviso. «Negli stessi anni, tra i Settanta e gli Ottanta, in cui i bambini italiani guardavano i cartoni animati dei musi gialli – spiega uno di loro – noi bambini bosniaci guardavamo western italiani». E mentre si apprestano a mettere in scena i loro crimini efferati e a dare vita a una delle più sgangherate associazioni a delinquere mai viste in narrativa, arrivano a un passo dal prendersi a pistolettate tra loro per difendere i rispettivi miti adolescenziali. Lo scambio di battute vale la citazione: «Il mio mito in assoluto – dice uno – era Jeeg robot d’acciaio, ah come mi esaltava! Quello sì che era un cartone. Doppio maglio rotante, raggio protonico, raggi delta, scudi rotanti. Jeeg spaccava il culo a tutti!». «Meglio Haran Banjo di Daitarn 3 e il suo fantastico motto: il mio obiettivo è uccidere il maggior numero possibile di meganoidi», risponde l’altro. Salvo poi trovare una sintesi al ribasso condivisa da tutti: «Meglio scoparsi Venusia – la dolce e ingenua innamorata di Actarus in Goldrake, ndr – che farselo mettere in culo da Capitan Harlock».
Lo spessore psicologico dei personaggi dei tre criminali da barzelletta è quello che è: «elementare – scrive Righetto – come quello di un ramarro che si crogiola al sole, erano uomini privi sia di sensibilità che di una seria capacità riflessiva, dediti più che altro ad assecondare la loro ignoranza e i loro istinti più western: mangiare, bere, dormire, grattarsi, scopare e annusare banconote». Dilettanti del crimine come anche della vita. Cinici, amorali, avidi e crudeli finché si vuole, ma con un’aria guascona e spudoratamente sincera che finisce per renderli quasi simpatici. Quasi, ma abbastanza da spiazzare il lettore.
E alla fine dei conti, quando si avvicinano le ultime pagine del romanzo, tra folli inseguimenti d’auto (nel bel mezzo del Bacchiglione Blues Festival) e sparatorie, inopportuni testimoni di Geova e uomini in fuga, cadaveri e acquitrini veneti, non sai più davvero da che parte stare. È quello, in fondo, che chiediamo alla buona letteratura (che è cosa diversa dalla narrativa buonista): rovesciare il tavolo, costringerci a cambiare prospettiva, battere terreni inesplorati, in definitiva… rimetterci in gioco.
Roberto Alfatti Appetiti
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