Articolo di Nicola Piras
Da il Fondo del 17 febbraio 2011
Ogni libro nasce sempre come risposta. Ogni libro racchiude in sé, nello snodo e nell’intreccio, nell’attenta inventio, nella ordinata dispositio, nella ricercata elocutio una risposta organica ad una sequela di domane ritenute essenziali. Così se Il Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler si interrogava su quale fosse il destino dell’Europa, Il trattato del Ribelle di Ernst Jünger quale la maniera di agire imperturbabili nei «paesaggi plutonici della tecnica» così Il fascista libertario (Sperling & Kupfer, pp. 255, € 17,00) di Luciano Lanna risponde ad una domanda ben precisa con tanto di preciso questionante: «Potrà una ‘destra’ davvero essere ‘nuova’, al punto di essere: non gerarchica, non totalitaria, non conservatrice, non antimoderna, non razzista e via dicendo…
Ma è forse destra questa? O, forse, come destra, essa non esiste più: in quel momento essa sarebbe davvero un’altra cosa» chiedeva Giorgio Tassani.
Per rispondere Lanna si affida ad un attento processo a un tempo storico ed interpretativo. Interrogando l’immaginario di sessant’anni di vita neofascista, non disdegnando i ricordi del ventennio, ritrae un tipo antropologico dai contorni sfumati e porosi radicato nella vicenda nazionale.
Per rispondere Lanna si affida ad un attento processo a un tempo storico ed interpretativo. Interrogando l’immaginario di sessant’anni di vita neofascista, non disdegnando i ricordi del ventennio, ritrae un tipo antropologico dai contorni sfumati e porosi radicato nella vicenda nazionale.
Ciò che viene fuori è un accurato schema intessuto in storie di personaggi eretici, dissidenti dell’esistente e stranieri dalla realtà. Protagonisti di un fascismo libertario inteso non come adesione ad una precisa ideologia ma piuttosto un ethos, rivendicante qualcosa che la modernità ha sottratto alla vita: la libertà.
Lanna non esita a definire il fascista libertario un ribelle, un brigante pronto a muoversi nelle selve infiammate dei totalitarismi e negli angusti spazi asettici e normalizzati delle democrazie liberali: waldgänger jüngeriano, viaggiatore nichilista e senza meta come i protagonisti dei più celebri romanzi di Kerouac e Céline ma anche cavaliere solitario ed ultimo individualista come Eastwood nelle pellicole di Leone.
Ogni eresia dal sapore libertario, insoddisfatta della contingenza ma assetata di assoluto, familiare alle inquietudini della modernità popola l’immaginario di un neofascismo altro. Fautore di una decisa rottura degli steccati ideologici, ma intrappolato negli stereotipi diffusi che, lentamente, vanno fratturandosi grazie anche ai così detti strappi finiani: ultima incarnazione del fascismo libertario come idea di società. Ma attenzione a non compiere l’errore di catalogare il libro di Lanna come la giustificazione del percorso interno al finismo. Il progetto del direttore del Secolo d’Italia è ben più ambizioso: ricostruire il senso di una storia andato smarrito nei meandri della propaganda. Mistificato dall’esistenza diffusa di una destra decisamente becera e incolta, tanto da offuscare, e trascinare nel baratro con se, anche i ragionati progetti di ampia parte di quel mondo posto sotto la stessa etichetta.
Il fascista libertario gradualmente si disvela come una figura che ha puntellato la cultura italiana dentro e fuori la destra ufficiale, sospeso in un perpetuo limbo tra il rifiuto della modernità e l’accettazione delle sue sfide più estreme. Eroico perché solidale, radicato fortemente eppure in viaggio perpetuo, onirico e poetico seppur impiantato nel concreto, identitario e nazionale in quanto aperto alla contaminazione. Non contraddizioni o contrapposizioni, forzate dalle logiche estremistiche del dibattito sempre più demagogico, ma forze poderose in quanto ossimori capaci di foderare un progetto politico donandogli forma.
Un progetto politico proprio alla tensione tra individuo e comunità: binomio inscindibile in quanto si è solo in rapporto agli altri; la realtà del soggetto è quella del suo tessuto sociale e delle trame simboliche e sacrali che compongono il suo paesaggio di riferimento. Contro l’atomizzazione come mezzo di controllo sociale allora la comunità come permeabile e dinamica entità capace di rispondere alla modernità proponendo un’ ardua difesa della libertà di ognuno entro un tessuto cooperativo capace di riconoscersi negli stessi valori.
Sarebbe ingeneroso omettere che l’identità di questo fascista (ma cosa vuol dire ancora chiamarlo fascista?) è la contaminazione deliberata, la volontà del confronto con altri volta ad arricchire se stesso nella difficile competizione del pluralismo. Un politica, che dire non razzista, limiterebbe la potenza di una mira posta intenzionalmente contro qualunque forma di razzismo: Lanna elenca decine di aneddoti a supporto dell’esistenza di questa destra indirizzata all’integrazione e all’accoglienza del diverso e dello straniero.
Ma ciò che si debba invocare, a mio avviso, non può essere solo l’integrazione, spesso soggetta a semplici soluzioni omologanti e ancor più spesso prodotto dell’indifferenza alla diversità, vero e proprio olocausto culturale. Coincisa sovente con una disastrosa perdita della ricchezza primordia e della pluralità quale tratto tipico dell’umano. Sarebbe auspicabile invece coltivare, anche in senso politico, la volontà della tra-duzione della lingua, intesa come un cifrario simbolico dotato di senso e valore per l’individuo e la sua comunità di riferimento, altrui nella propria. Dando così valore alla differenza sostanziale e ineludibile, al fine di porla su un piano di comprensione condiviso, senza svilire la vicendevole provenienza specifica, in uno sforzo costante di comprensione dell’altro da se, affrontando senza remore il difficile processo di interazione con l’irriducibile alterità, come sostiene e suggerisce la filosofa Caterina Resta. Una fatica incessante di penetrazione e condivisione che al contempo non svaluti le differenze ed eviti il dramma più proprio al moderno: la reductio ad unum del patrimonio dell’Umanità.
Nicola Piras
FONTE: il Fondo
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