Articolo di Antonio Rapisarda
Dal Secolo d'Italia del 15 marzo 2011
Un italiano autoctono, Andrea Masi, è andato in meta dopo «un’azione stile All Blaks», come commentava commosso un rugbista che mi ha contagiato la passione come mio padre a fine partita. Un italiano oriundo, Gonzalo Canale, ha fatto impazzire gli avversari a suon di slalom. E mentre un siciliano d’Italia, il barone Andrea Lo Cicero, spingeva il muro della mischia, ci ha pensato un altro oriundo nato in Argentina, Martin Castrogiovanni, a dedicare la vittoria della squadra al 150° anniversario dell’Unità.
Ma prima di ogni altra cosa quelle mani – che hanno visto il sole per la prima volta in diversi emisferi – stavano lì a stringere quel tricolore sulla maglia prima della partita sulle note dell’inno. È fatta così l’Italia del rugby. Cognomi diversi che tracciano il profilo di un paese globale ma ben piantato coi tacchetti sui prati verdi d’Europa. Perché quei chilometri che portano lontano da Roma raccontano le sofferenze di un popolo di emigranti, di santi e di navigatori. E adesso di fratelli che si ritrovano a coorte. A combattere (sportivamente) per la propria bandiera.
Già, gli dei del rugby hanno confezionato una di quelle giornate che in questo sport creano leggenda. E che per un Paese possono diventare un romanzo che i nonni racconteranno a nipoti passeggiando nei parchi con quella palla ovale – che va dove vuole - che è la vera metafora del rugby. Perché mitopoietica è stata l’impresa che la nazionale di rugby ha compiuto contro i “maestri” francesi che sono usciti spennacchiati e ridimensionati dal gioco naif di un’Italia mai doma. Ecco perché un popolo intero ha festeggiato non solo una vittoria contro la Francia. Ma un Paese possibile. Nel momento in cui ciò che è sceso in quel campo, che non è solo un campo, sabato scorso è la declinazione più bella dell’idea di Paese.
Questa è l’Italia del rugby. Disordinata e ostinata, anarchica nell’indole ma composta nella disciplina. E questa potrebbe o dovrebbe essere l’Italia della società civile e della società politica. Un Paese per il quale si suda e si combatte, si soffre e si rinuncia. Tante sconfitte, è vero. Ma accanto a queste il cammino di una comunità sorridente e fiera. Un Paese aperto e accogliente. Ma che chiede abnegazione a chi vuole congiungersi a questo anche se non è venuto al mondo a Rieti. Un’Italia a vocazione internazionale, figlia della complessità e dell’ossimoro. Ma unita dal vincolo di rappresentare – nell’ingaggio di una mischia come nel posto di lavoro – una certa idea di popolo.
Ed ecco che, passo dopo passo, braccia e spalle aperte per placcare, un Paese intero in quello stadio Flaminio che cantava l’inno nazionale come nemmeno gli inglesi e i gallesi sapranno mai fare ha saputo dare forza alla mischia per resistere gli ultimi cinque minuti (un’infinità in questo sport) all’assalto vano degli avversari. E poi pugni al cielo, lacrime e sangue che diventa rossetto con cui imprimere un’istantanea per la storia. E che tutto ciò sia avvenuto contro «i francesi che s’incazzano» è un motivo in più per raccontarla questa storia. E per amarla questa patria.
Antonio Rapisarda
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