Da Fumett'Altro (il Fondo Magazine)
Anno III - n. 141 / 21 marzo 2011
Sclavi, dov’è Sclavi? Se lo domandano i protagonisti nel film di Dylan Dog, alla ricerca del vampiro dormiente – la cui unica battuta è un breve ma intenso rantolo – che gli sceneggiatori hanno chiamato col nome del papà dell’indagatore dell’incubo. Un omaggio, nelle intenzioni degli autori, abbastanza infelice. Come infelice – per dosare gli aggettivi con la stessa parsimonia di idee dimostrata da chi ha curato la trasposizione cinematografica – è il film che ci siamo precipitati a vedere il 16 marzo, la sera dell’anteprima mondiale, com’era stata pomposamente annunciata. Uscendo dalla sala con la stessa domanda: dov’è Sclavi?
Sclavi, semplicemente, non c’è, così come è difficile trovare traccia degli autori che negli anni ne hanno raccolto l’eredità, rinnovandola spesso anche con coraggiosa originalità, senza mai sedersi sugli allori di una rassicurante e collaudata serialità ma offrendo di Dylan Dog sfaccettature diverse e mai convenzionali.
Quello di gomma, che abbia visto rimbalzare sul grande schermo, impegnato a sparare a licantropi e vampiri come fossero sagome di una sala giochi, invece, sembra essere un lontanissimo parente del personaggio ironico e tutt’altro che muscolare, pieno di dubbi e in lotta contro la mostruosità della quotidianità che ci fa compagnia da venticinque anni (e resistere in edicola così a lungo non è facilissimo, tanto più con la concorrenza di cinema, dvd e playstation).
Possiamo dire, piuttosto, che il regista Kevin Munroe ce ne restituisce una modesta caricatura che ne mortifica il retroterra culturale, spuntandone l’arma più efficace – che non sono tirapugni d’argento e pistole – ma l’analisi spietata che l’indagatore dell’incubo fa proprio della contemporaneità. Perché i veri mostri – ci ripete da tempo – spesso indossano giacca e cravatta e si muovono introno a noi, perfettamente integrati, loro più di noi, in una società malata come la nostra. Il risultato non è una commedia horror, come pure potevamo auspicare, non ne ha la leggerezza né l’intelligenza, ma un film di una lentezza esasperante che, a dirla tutta, non fa neanche ridere.
La scelta dell’ex superman Brandon Routh si conferma inadeguata per l’imbarazzante mancanza di espressività, resa ancor più evidente dal doppiaggio. Intendiamoci: non si tratta di segnare in rosso la (poca) somiglianza col nostro antieroe e le (innumerevoli) differenze con il film. Che il protagonista calzi delle Converse piuttosto che delle Clarks è un dettaglio (di cattivo gusto). Che la location sia New Orleans e non Londra possiamo accettarlo. Che il maggiolino sia nero piuttosto che bianco non ci interessa. Non ci riteniamo dei dylebani che si attengono al verbo sclaviano, né eravamo prevenuti sulle novità di una storia ispirata più che liberamente (molto liberamente) tratta.
Anzi, se c’è un personaggio che funziona è proprio quello, del tutto inedito, di Marcus – l’assistente di Dylan Dog che sostituisce Groucho Marx, i cui diritti d’immagine, è stato detto, sono troppi esosi – nella godibile interpretazione offerta da Sam Huntington. Esilarante il suo apprendistato alla condizione di morto vivente quando, morso da uno zombie, si ritrova egli stesso nella zona di confine tra (non) vivi e (non) morti. Per il resto le citazioni dal fumetto producono, semmai, una certa irritazione: come chiamare Borelli (Bonelli?) il personaggio dell’amico e mentore di Dylan interpretato da Marco St. John. Persino aver salvato, per il pubblico italiano, l’esclamazione “Giuda Ballerino”, finisce per assumere il sapore di una beffa.
L’uscita del film, inghiottito il rospo, tuttavia, aiuterà il fumetto? Lo renderà più popolare? Gli aprirà nuovi mercati? Francamente, alla luce di quello che abbiamo visto, è difficile che accada. Negli States, peraltro, gli under 13 non potranno vederlo – non si capisce perché, in realtà, visto che gli effetti speciali sono di una prevedibilità incresciosa – ed è assai difficile che i ragazzi più grandi possano apprezzare la pellicola. L’operazione, alla fine dei conti, è stata pensata soprattutto per il nostro pubblico e gli ammiccamenti del regista - «vorrei girare il sequel anche in Italia» - sono coerenti con questa strategia di mercato. Insomma, pare a voi che gli americani dovessero spiegarci il più italiano dei nostri fumetti dopo averlo inopportunamente americanizzato e svuotato di ogni contenuto?
Per saperlo, dovremmo assumere Dylan Dog e scoprire chi c’è dietro questa operazione meramente commerciale.
Roberto Alfatti Appetiti
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