Articolo di Umberto Croppi
Dal Secolo d'Italia del 17 marzo 2011
Oggi che ricorrono i 150 anni dell'Unità d'Italia è necessario chiedersi senza girarci intorno, per affrontare correttamente la questione: esiste, oltre l'unificazione statuale, l'Italia come sistema riconoscibile di valori, storia, lingua, cultura, comportamenti, fini? E prima ancora: esistono gli italiani? La risposta affermativa alla seconda domanda sarebbe solo premessa necessaria a una risposta affermativa per la prima ma non sufficiente.
Lo sappiamo: il concetto stesso di identità può essere talvolta labile, contraddittorio, quello di identità nazionale, per sua natura, mutevole, soggetto alle interazioni di una serie di ambiti diversi (contaminazioni culturali, modificazione dei confini, struttura degli scambi e delle comunicazioni). È quindi una funzione dinamica, di cui si può effettuare una istantanea, se ne possono ricostruire le linee evolutive e, con più difficoltà, prevederne gli sviluppi: non si può farne un identikit fisso ed essenziale, prescrittivo.
Io sono nato e ho speso quasi l'intera mia vita in un piccolo centro a pochi chilometri da Roma. Fortemente segnato dalla sua origine italica, etrusca e romana, conserva però nei toponimi molti nomi di derivazione longobarda e nel dialetto sopravvivono termini arabi (le incursioni saracene hanno interessato anche le nostre zone), nella struttura urbana c'è una porta che reca insegne spagnole e l'unico piatto tipico è un biscotto, il "giglietto", che raffigura il giglio di Francia, ci sono cognomi residuati delle truppe lanzichenecche. Nella rocca dell'acropoli di questo mio paese, prigioniero, Jacopone da Todi scrisse uno dei primi e più alti documenti in lingua italiana, lo Stabat Mater il posto ha poi dato i natali a Giovanni Pierluigi che portò nella musica europea una rivoluzione pari solo a quella di Copernico nel campo delle scienze. Tutto questo è, a sua volta, solo un tassello del mosaico complesso che porta perfino Galli della Loggia a parlare delle "molteplici forme dell'identità" italiana. L'Italia per giunta è una nazione giovane, ha appena 150 anni come oggi ricordiamo. La questione è quindi, ancora, se esista una coscienza, un sentimento dell'Italia che coincida, preceda lo stesso stato nazionale. In realtà ben prima della nascita di qualsiasi altro fenomeno di autopercezione, l'elemento di identificazione è stata la lingua: il De vulgari eloquentia di Dante anticipa di alcuni secoli un processo analogo negli altri Paesi europei. E tuttavia non è una lingua "nuova" quella che si va strutturando ma una lingua decaduta, degenerata, il "volgare", appunto. E questa origine peserà non poco sul futuro della stessa letteratura. Del resto, e forse anche per questa discrasia tra lingua parlata e lingua scritta, la letteratura italiana è stata sempre rivolta e fruita da una élite, prodotta e destinata da e a una cerchia ristretta di eruditi o di aristocratici, una letteratura per pochi: l'Italia (così come non ha un mito fondatore) non ha un suo poema nazionale e ancora oggi la letteratura italiana è, in larga misura, letteratura regionale. Sebbene, infatti, il punto di origine della letteratura italiana possa essere fissato in Francesco, nel suo Cantico di fratello Sole, questo divenne famoso nel mondo solo nel XIX secolo. Ma il vero genio originale italiano, anche per lo stile asciutto, diretto, brutale, quello che connota e distilla un processo culturale tutto interno alla nostra storia e ne compie una proiezione nello spazio e nel tempo, è Machiavelli. Al quale, per altri aspetti, è giusto affiancare Galilei, e poi un brivido di forza, che attraversa tutto il Rinascimento, con Tasso e Campanella, è l'unico momento in cui l'Italia ha uno stile, una sensibilità che vengono riconosciuti e imitati nel mondo.
Tanto l'Illuminismo quanto il Romanticismo sono modelli importanti che non producono frutti originali e la cultura del Risorgimento di Rosmini e Gioberti, filosofi e buoni scrittori, non lascia grandi tracce se non all'interno di un dibattito di circoli chiusi e destinato a durare pochi anni. Sebbene Verga si abbeveri alla scuola di un genere nato in Francia, emerge come un gigante e Pirandello si afferma come il più originale drammaturgo del '900 ed è di esempio per il mondo. C'è la stagione delle riviste. Due diciottenni, Papini e Prezzolini, creano nel 1903 la prima delle grandi riviste, il Leonardo: dialogano con la filosofia internazionale, si avvicinano alle avanguardie europee, indagano le nuove scienze della mente, studiano il buddismo, anticipano di quasi un secolo il dibattito sulla crisi. Poi ancora riviste: La Voce, Lacerba, Solaria... L'incontro-scontro con i futuristi e, da parte di questi, l'invenzione del Novecento, del mischiamento dei genere, dei materiali, delle lingue. E poi Silone, Montale, Ungaretti, Deledda, Palazzeschi, Pratolini, Brancati, Calvino, Buzzati. E poi Croce e Gentile.
Con un'onda di paradossi che attraversa questa storia di creatività: se uno dei più noti testi della nostra letteratura, Il Milione, fu dettato da Marco Polo a Rustichello, che lo scrisse in francese, il libro più tradotto nel mondo, Pinocchio, è concepito dall'autore come opera antirisorgimentale. Due tra i maggiori esponenti del nostro Novecento sono, per antonomasia, i due anti-italiani Prezzolini e Malaparte. Marinetti, il cosmopolita nato in Egitto, pubblica il suo manifesto in Francia, si fa agiatore di cultura in mezzo mondo. E quanto, quanto è italiano Ezra Pound, l'americano, il gigante che abbandona il suo Paese, taglia le sue radici per darsi un'altra patria e fa del multilinguismo la base della sua poetica. Vi è dunque una possibile sintesi? È Mario Perniola a fornire una credibile formula. Secondo il filosofo piemontese i tratti distintivi della cultura italiana sono: l'eclettismo e la filologia (l'attingere dall'esperienza precedente, come i latini dai greci). La risposta non può risiedere in una formula, o in una rivendicazione di identità: le vie nazionali basate sul confronto hanno esaurito da tempo la loro funzione e ogni identitarismo è solo ossessione.
Oggi la sfida che ci si pone davanti è quella di ritrovare una originalità che sposti in avanti i confini, non in chiave di contrapposizione ma di superamento, di differenza risposto all'organizzazione della cultura così come è andata sviluppandosi nei secoli passati, sfruttando e non rimuovendo quelle che sono le uniche nostre vere peculiarità, quelle che non riguardano contenuti immutabili ma capacità dinamica di sintesi. Se c'è una cifra che ha tenuto insieme i frammenti, facendo di noi un popolo consapevole e riconoscibile, che ha alimentato fermenti, che ha costituito un modello ancora oggi oggetto di ammirazione e imitazione, questa non risiede nel dominio dell'istituzione ma in quello della seduzione di una Terra che non è mai stata un destino ma sempre una culla.
Umberto Croppi
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