lunedì 11 aprile 2011

Scrivere su Linus (di Flavia Perina)

Quando Stefania Rumor mi ha proposto di collaborare con Linus scrivendo dieci articoli sulle dieci cose per cui vale la pena vivere, la prima scena che mi è venuta in mente è il capitolo di Alta Fedeltà dove Rob Fleming, il protagonista, deve dare a un giornale musicale l’elenco dei dieci singoli più importanti della storia del rock e cade letteralmente nel panico. Fa e disfa la top ten giorno e notte, chiama la giornalista che lo ha interpellato alle ore più impensate per sostituire i titoli, e alla fine cade in depressione: l’intervista è andata in stampa, e lui si è accorto di essersi dimenticato un brano imprescindibile (Got to Get you off My Mind, credo).Link
Comunque, io il mio elenco l’ho fatto. E anche se lo cambierò mentalmente almeno un centinaio di volte, sulla prima voce – “Scrivere su Linus” – non ho nessuna incertezza.
Linus è il simbolo della formazione libertaria della mia generazione e più oltre uno degli spartiacque sotterranei che hanno costruito le categorie politiche degli anni 70, tagliando in modo trasversale la destra e la sinistra. Da una parte chi adorava Linus, dall’altra chi lo disprezzava come roba da bambini o sottoprodotto di una cultura sovversiva. “La gioventù che si nutre di fumetti è una gioventù che non legge e questa assenza di lettura nel senso proprio della parola non è l’ultima tra le cause di irrequietezza, di scarsa riflessività, di deficiente contatto con il mondo circostante e quindi di tendenza alla violenza, alla brutalità, all’avventura fuori dalla legge”: lo scrisse Nilde Iotti su Rinascita ma parole analoghe erano facili da trovare sui giornali borghesi e della destra, suggestionati tra l’altro dalla campagna maccartista che negli Usa mirava a rendere i comic-book illegali, con ordinanze cittadine e addirittura federali che ne proibivano la vendita. Poi c’erano gli altri, quelli che compravano Linus, mettevano le (introvabili) magliette di Linus, a scuola usavano il diario Linus, esibendo i Peanuts come una dichiarazione di appartenenza molto più precisa e più significativa degli stereotipi ideologici che dividevano all’epoca compagni e camerati.
Sulla rivista di OdB, peraltro, gli opposti parlavano la stessa lingua, svelando misteriosi crocicchi culturali ed esistenziali. “Ho una antipatia innata per i censori, i probiviri. Ma, soprattutto, sono i redentori coloro che mi disturbano di più”, diceva Hugo Pratt, nipote e figlio di fascisti, autore di Corto Maltese. “Quando ho cominciato a caratterizzare Valentina pensai di fare il contrario di quello che ‘andava’. Un tipo di donna non certo popolare, che mette a disagio“, raccontava Guido Crepax, il trotzkista inventore di Valentina. Così, oltre lo stereotipo dell’ideologia, Linus ha formato l’istinto antiborghese e libertario di una generazione e quando – succede spesso – mi chiedono come mai una “come me”, con una biografia tutta a destra, si trova a suo agio nella difesa dei diritti delle donne, dei nuovi italiani, dei giovani che vanno in piazza, dell’ambiente, mi viene in mente che è anche perché nella mia libreria di ragazza insieme a Drieu, Céline, Hamsun, Berto Ricci, Tolkien, Kerouac, ci sono state molte copertine con il bracchetto Snoopy e le sue cento vite – campione sportivo, chirurgo, scrittore, filosofo, sergente della legione straniera, feroce avvoltoio o subdolo serpente – a insegnarmi la legittimità dei sogni e l’allegria delle idee che poundianamente diventano azione.
Ecco, spiegando perché “scrivere su Linus” è un’ottima ragione per vivere, da persona seria dovrei citare l’onore di stare sulle stesse pagine di Oreste del Buono ed Elio Vittorini, di Alberto Arbasino e di Giorgio Galli, di Lietta Tornabuoni e Marco Lombardo Radice, di Massimo Fini e Gianfranco de Turris, ma in realtà sono felice soprattutto di mettere la mia firma sotto la testata che ha portato in Italia l’icona indistruttibile di Snoopy, il beagle che rifiuta di chiudersi nelle convenzioni canine e nella sua cuccia – dotata di ogni possibile comfort, dal biliardo alla pinacoteca – ma se ne sta fuori, sul tetto, vicino al cielo, e si fabbrica la vita che vuole a dispetto del Barone Rosso e di quello stupido gatto dei vicini.
Flavia Perina

1 commento:

giovanni fonghini ha detto...

Ragazzi mi ha preso lo sconcerto. Io non lo sapevo che Snoopy fosse un beagle, credevo fosse un bracchetto. Va bene lo stesso però. In fondo è un irriducibile sognatore come tanti di noi, che non vogliono rassegnarsi ad accettare il mondo, così come è (uno schifo dico io). Provvedo subito quindi ad eleggere Snoopy quale nuovo componente del mio "pantheon" di sognatore eretico degli anni 2000. Saluti grandi alla nostra Flavia per l'originale suggerimento.