Storicizzare il '68. Saggio in cinque parti di Luciano Lanna
Parte prima: Sul Sessantotto Pasolini aveva torto
Parte seconda: Evola e i Beatles uniti nella lotta
Parte terza: In principio fu la beat generation
Dal Secolo d'Italia di martedì 9 ottobre 2007
Un dato viene confermato da tutti i testimoni dell’epoca: alla vigilia del ’68 i giovani stavano in qualche modo reagendo a una situazione che non reggeva più. Lo ha spiegato meglio di altri il cantautore Francesco Guccini: «C’era insofferenza – ha ricordato – verso qualcosa di vecchio che si sentiva e si percepiva qualcosa di nuovo che arrivava, anche se non sapevamo esattamente cosa fosse. Un esempio? La scuola che Fellini ha descritto nel suo Amarcord era identica alla scuola che avevo frequentato io nel dopoguerra. C’era stata una guerra di mezzo ma nella società non era cambiato nulla, era rimasto tutto fossilizzato: i rapporti interpersonali o i rapporti tra ragazzi e ragazze erano ancora quelli d’inizio secolo...». In questo clima, nel 1967 in Francia viene pubblicato il Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni di Raoul Vaneigem: un testo che sul piano della consapevolezza teorica poneva al centro delle questioni dell’epoca proprio la “condizione giovanile” e rappresenterà uno dei veri manifesti del ’68. L’autore, che faceva riferimento all’Internazionale situazionista di Guy Debord (autore dell’altro libro-manifestodi quei giorni: La società dello Spettacolo), contestava le analisi prodotte sino ad allora sulla condizione giovanile e suggeriva la riaffermazione della libertà individuale attraverso il gioco, la creatività e la riscoperta della dimensione ludica. La rapida popolarità di queste posizioni – come di tutta la produzione situazionista – condizionò l’immaginario e le strategie sessantottine, in Francia e, soprattutto, nei movimenti studenteschi del Nord Europa. «In Olanda – precisa Roberto Massari – furono le posizioni del situazionismo a svolgere un ruolo ideologico determinante nella fase di avvio dell’esperienza dei provos». Ecco: il situazionismo e non certo il marxismo-leninismo o il neo-realismo era la “nuova sintesi” che poteva innescare la contestazione sessantottina di cui, va ribadito, lo slogan qualificante resta uno solo:«L’immaginazione al potere».
D’altro canto a rileggere correttamente tutte le autentiche matrici culturali del ’68 si capisce benissimo che dentro di esse – anche in Italia – c’era davvero ben poco di quella cultura ideologica e d’apparato che in un secondo tempo finirà per egemonizzarne la rotta. Non a caso, tra i padri conclamati dell’iniziale contestazione studentesca italiana si ritrovano: un irregolare come lo scrittore toscano Luciano Bianciardi, il libertario di cui Indro Montanelli disse che aveva «il suo stesso sangue»; l’anarco-situazionista Giorgio Cesarano, autore del celebre Manuale di sopravvivenza, che, pure, a sedici anni era fuggito da casa per arruolarsi nel Battaglione Lupo della Decima Mas; il giovane intellettuale catanese Giampiero Mughini, fondatore e direttore della rivista Giovane Critica, il cui libertarismo aveva ben poco a che fare con qualsiasi schematizzazione katanghese... Nel complesso: beat generation, situazionismo, controcultura, filoni libertari e creativi, neo-spiritualismo, recupero delle avanguardie d’inizio Novecento a cominciare dal surrealismo:cosa c’entrava tutto questo con il successivo sinistrese iper-ideologizzato degli anni Settanta?
Roberto Massari, che è stato da giovane tra i protagonisti del primo ’68, ha parlato di «involuzione partitica e politicistica dei gruppi sorti dall’esplosione dei movimenti studenteschi». E aggiunge: «Il modo rapido e tutto sommato indolore in cui i movimenti del '68 passarono in meno di un biennio alla fase dei gruppi organizzati, dei micropartiti e delle prime campagne elettorali spiega probabilmente perché i politici e i teorici della nuova radicalizzazione italiana abbiano preferito rimuovere...». Una rimozione che, a tanti anni di distanza, non ci impedisce però di rileggere i percorsi reali e le matrici originarie del ’68 al di là e oltre la degenerazione postuma di tutto quel fermento generazionale e culturale.
Così, ad esempio, in Germania, il futuro scrittore di narrativa fantastica Michael Ende da giovane prende parte al movimento del ’68, diventa un militante dell’Humanistische Union e proprio nell’ambito di quella “confusione creativa” scopre l’antroposofia dell’esoterista Rudolf Steiner. In particolare, nell’idea steineriana della triarticolazione dell’organismo sociale il giovane Ende trovò le nuove idee che cercava: «Ossia la convinzione che i tre ideali di libertà, uguaglianza e fraternità tendono inevitabilmente a elidersi a vicenda fino a quando debbono venire realizzati da un’unica organizzazione. La vicendevole influenza delle tre normatività autonome può essere conseguita unicamente da una indipendenza reciproca delle loro istituzioni. La vita intellettuale deve essere “anarchica”, la vita economia “fraterna” o “solidale”, e in mezzo agisce la vita “pubblica” dello stato, come elemento regolatore». E sempre dalla cultura steineriana Ende ricavava il principio che l’arte debba interferire nella vita quotidiana e fondersi con la politica. Nella sua concezione, gli artisti – non era appunto «l’immaginazione al potere» lo slogan più diffuso in quei giorni? – dovrebbero avere il compito specifico di fornire non “concetti” ma «immagini che creino coscienza», tale da rendere percepibile e appetibile da subito un nuovo modo di vivere. E non è anche questo il “messaggio” che lo stesso Ende proporrà in seguito con i suoi romanzi e personaggi più noti, dall’Atreju di La storia infinita sino a Momo?
Sulle suggestioni culturali del primo ’68, Giano Accame ha sottolineato anche «l’importanza della rivoluzione futurista come progenitrice, oltre che delle altre avanguardie, della contestazione giovanile del 1968, che non si rese conto, quando proclamava di volere l’immaginazione al potere, di ripetere un concetto marinettiano...». Intendiamoci: ciò di cui parliamo non riguarda itinerari eterodossi e minoritari, anche se questi cozzano non poco con l’iconografia ufficializzata del ’68, funzionale invece alla stabilizzazione dei gruppi dirigenti che si sono legittimati e fondati sul sinistrese post-sessantottino. Per fortuna, lo studioso statunitense Paul Berman, in Sessantotto. La generazione delle due utopie, è arrivato a sostenere adesso che il “cuore” del ’68, ciò che resta vivo di tutto quel fermento, consiste invece proprio nella grande spinta libertaria contro tutti i residui ottocenteschi delle società occidentali che venne a mettersi in atto tra il ’66 e il ’68. «Quella del ’68 – scrive Berman – fu una storia di creatività e ribellione. Ma soprattutto una grande storia di libertà, i cui semi sarebbero germogliati per tutti i decenni successivi».
D’altro canto a rileggere correttamente tutte le autentiche matrici culturali del ’68 si capisce benissimo che dentro di esse – anche in Italia – c’era davvero ben poco di quella cultura ideologica e d’apparato che in un secondo tempo finirà per egemonizzarne la rotta. Non a caso, tra i padri conclamati dell’iniziale contestazione studentesca italiana si ritrovano: un irregolare come lo scrittore toscano Luciano Bianciardi, il libertario di cui Indro Montanelli disse che aveva «il suo stesso sangue»; l’anarco-situazionista Giorgio Cesarano, autore del celebre Manuale di sopravvivenza, che, pure, a sedici anni era fuggito da casa per arruolarsi nel Battaglione Lupo della Decima Mas; il giovane intellettuale catanese Giampiero Mughini, fondatore e direttore della rivista Giovane Critica, il cui libertarismo aveva ben poco a che fare con qualsiasi schematizzazione katanghese... Nel complesso: beat generation, situazionismo, controcultura, filoni libertari e creativi, neo-spiritualismo, recupero delle avanguardie d’inizio Novecento a cominciare dal surrealismo:cosa c’entrava tutto questo con il successivo sinistrese iper-ideologizzato degli anni Settanta?
Roberto Massari, che è stato da giovane tra i protagonisti del primo ’68, ha parlato di «involuzione partitica e politicistica dei gruppi sorti dall’esplosione dei movimenti studenteschi». E aggiunge: «Il modo rapido e tutto sommato indolore in cui i movimenti del '68 passarono in meno di un biennio alla fase dei gruppi organizzati, dei micropartiti e delle prime campagne elettorali spiega probabilmente perché i politici e i teorici della nuova radicalizzazione italiana abbiano preferito rimuovere...». Una rimozione che, a tanti anni di distanza, non ci impedisce però di rileggere i percorsi reali e le matrici originarie del ’68 al di là e oltre la degenerazione postuma di tutto quel fermento generazionale e culturale.
Così, ad esempio, in Germania, il futuro scrittore di narrativa fantastica Michael Ende da giovane prende parte al movimento del ’68, diventa un militante dell’Humanistische Union e proprio nell’ambito di quella “confusione creativa” scopre l’antroposofia dell’esoterista Rudolf Steiner. In particolare, nell’idea steineriana della triarticolazione dell’organismo sociale il giovane Ende trovò le nuove idee che cercava: «Ossia la convinzione che i tre ideali di libertà, uguaglianza e fraternità tendono inevitabilmente a elidersi a vicenda fino a quando debbono venire realizzati da un’unica organizzazione. La vicendevole influenza delle tre normatività autonome può essere conseguita unicamente da una indipendenza reciproca delle loro istituzioni. La vita intellettuale deve essere “anarchica”, la vita economia “fraterna” o “solidale”, e in mezzo agisce la vita “pubblica” dello stato, come elemento regolatore». E sempre dalla cultura steineriana Ende ricavava il principio che l’arte debba interferire nella vita quotidiana e fondersi con la politica. Nella sua concezione, gli artisti – non era appunto «l’immaginazione al potere» lo slogan più diffuso in quei giorni? – dovrebbero avere il compito specifico di fornire non “concetti” ma «immagini che creino coscienza», tale da rendere percepibile e appetibile da subito un nuovo modo di vivere. E non è anche questo il “messaggio” che lo stesso Ende proporrà in seguito con i suoi romanzi e personaggi più noti, dall’Atreju di La storia infinita sino a Momo?
Sulle suggestioni culturali del primo ’68, Giano Accame ha sottolineato anche «l’importanza della rivoluzione futurista come progenitrice, oltre che delle altre avanguardie, della contestazione giovanile del 1968, che non si rese conto, quando proclamava di volere l’immaginazione al potere, di ripetere un concetto marinettiano...». Intendiamoci: ciò di cui parliamo non riguarda itinerari eterodossi e minoritari, anche se questi cozzano non poco con l’iconografia ufficializzata del ’68, funzionale invece alla stabilizzazione dei gruppi dirigenti che si sono legittimati e fondati sul sinistrese post-sessantottino. Per fortuna, lo studioso statunitense Paul Berman, in Sessantotto. La generazione delle due utopie, è arrivato a sostenere adesso che il “cuore” del ’68, ciò che resta vivo di tutto quel fermento, consiste invece proprio nella grande spinta libertaria contro tutti i residui ottocenteschi delle società occidentali che venne a mettersi in atto tra il ’66 e il ’68. «Quella del ’68 – scrive Berman – fu una storia di creatività e ribellione. Ma soprattutto una grande storia di libertà, i cui semi sarebbero germogliati per tutti i decenni successivi».
La libertà al primo posto, insomma: dietro e oltre l’apparente ritorno allo spirito dell’Ottocento e la fortuna dei facili slogan che ne segnarono la degenerazione, quel vasto, complesso e articolato movimentismo giovanile che semplifichiamo con le due cifre di ’68 non fu altro, nella sua potenzialità migliore e davvero epocale, che l’esplosione di una forte domanda di modernizzazione civile e di superamento dei parametri autoritari, bigotti, piccolo-borghesi, iper-burocratici e fossilizzati che, nella metà degli anni Sessanta, stavano cozzando con tutto quanto sognavano e chiedevano le nuove generazioni. E proprio nel ’68 in Italia Patty Pravo, la “ragazza del Piper”, portava al successo una canzone, Oggi qui, domani là, in cui tutto ciò veniva espresso in tutta la sua evidenza: «Oggi qui, domani là, io vado e vivo così [... ] / casa qui non ho ma cento case ho [... ] / oggi qui, domani dove sarò / qui e là io amo la libertà / e nessuno me la toglierà mai...». Certo, nessuno può negare che negli anni a seguire ci sia stato anche altro, soprattutto quella lunga stagione di ideologismo forsennato e di sinistrese ossessivo che – come ha spiegato Marco Boato ad Adalberto Baldoni e Ferdinando Vicentini Orgnani «è stata il frutto di un’auto-repressione ideologica che ha tradito quella spinta e, di fatto, allontanato la modernizzazione che il ’68 iniziale sollecitava». Quel che resta del ’68, insomma, non è tanto la sua degenerazione collettivistica o partitica ma tutto ciò che determinò grandi cambiamenti sul piano del costume e della mentalità. Ha ragione in pieno un ex sessantottino coerente come Giampero Mughini, secondo il quale il '68 è stato, e nel profondo, «la prova del nove che le vecchie risposte non valevano più, che il marxismo classico era entrato definitivamente in crisi perché nelle sue pagine non ci sono, né ci potevano essere, le risposte ai nuovi problemi, ad esiti sociali imprevisti dalla teoria. Ed ecco i ceti medi diventati attivi e protagonisti (e già lo erano stati nel primo dopoguerra del Novecento). Ecco la rivalsa delle sovrastrutture, decuplicate in potenza dall’era della cibernetica. Ecco l’irrompere del personale, di ciò che è sotto il livello della scienza razionalista cui ci eravamo finora affidati. Ed ecco dispiegarsi un nuovo orizzonte culturale». Ancora più efficace il giudizio sottoscritto, trent’anni dopo la contestazione, da Marco Tarchi: «Chi intende combattere la mentalità utilitarista, l’egoismo sociale e i progetti di omogeneizzazione culturale che sono inscritti nei cromosomi della civiltà consumistica oggi non ha motivo di rimpiangere un’esperienza fitta di ingenuità, contraddizioni ed eccessi come fu quella sessantottina; ma nemmeno di liquidare un movimento che, se non altro, ebbe il pregio di affermare che “ribellarsi è un diritto” quando l’ordine costituito appare soffocante e impenetrabile al dissenso».
Di estrema attualità le conclusioni del politologo fiorentino: «La rivolta dei miei coetanei mi ha reso ancora più sensibile di quanto non fossi alle ragioni dell’inquietudine e mi ha tenuto lontano, malgrado la visceralità di certe reazioni immediate che continuo a ritenere giustificate dalle circostanze, dalle sirene del quieto vivere borghese... Mi ha convinto, con l’andar del tempo, che un’epoca stava per chiudersi e che non c’era ragione di rimpiangerla troppo, sottraendomi al pericolo della nostalgia e orientandomi verso una ricerca degli scenari di un futuro migliore a cui, da allora, non ho mai rinunciato. Mi ha ispirato – conclude Tarchi – una diffidenza verso le rappresentazioni idilliache del passato che mi è stata molto utile pochi anni dopo, quando ho preso congedo dai miti incapacitanti del tradizionalismo e mi sono incamminato verso la ricerca degli orizzonti intellettuali di un’altra modernità».
4 - continua
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio-dizionario Fascisti immaginari, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, attualmente è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
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Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio-dizionario Fascisti immaginari, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, attualmente è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
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