Sarà a giorni nelle edicole e nelle migliori librerie italiane il numero monografico di gennaio che Charta Minuta (n. 4 della nuova serie), la rivista della Fondazione FareFuturo presieduta da Gianfranco Fini, ha dedicato al Sessantotto (nel quarantennale): quel che resta del SESSANTOTTO. La pubblicazione, che ha già fatto parlare di sè (per leggere clicca qui), contiene nella sezione tradizionalmente riservata agli "strumenti" un "Dizionario sul Sessantotto" scritto a quattro mani (e due tastiere) dal sottoscritto e da Pierluigi Biondi (dizionario che sarà presto disponibile anche qui sul blog). Di seguito, postiamo la presentazione del nuovo numero della rivista da parte del coordinatore editoriale Filippo Rossi.
Memorabile quell'anno dalla parte di Jan Palach...
Articolo di Filippo Rossi
Dal Secolo d'Italia di giovedì 10 gennaio 2008
A quarant’anni da quell’anno memorabile, è possibile, da destra, ripensare il Sessantotto senza pruriti, senza idiosincrasie e senza idee precostituite? Sottraendolo, per quanto possibile, al “caso italiano” e interpretandolo per quel che è stato veramente: un fenomeno mondiale di rivolta generazionale declinato in mille sfaccettature esistenziali e sfumature cromatiche che di ideologico hanno avuto poco o niente. Con il numero di gennaio di Charta minuta, il mensile della Fondazione Farefuturo, ha cercato di rispondere alla domanda spiegando come il ’68 sia stato – spiega nell’editoriale il direttore Adolfo Urso – «in prevalenza una “rivoluzione” interna all’Occidente e ai suoi valori di libertà, spesso libertari, talvolta comunitari, una contestazione dei “figli dei fiori” nei confronti dei “padri della moneta”, che s’apre sulle strade d’America ma non finisce certo nei soviet di casa nostra...».
In questa direzione, la proposta culturale di Charta minuta cerca di scuotere dalle fondamenta postulati intellettuali duri a morire che vogliono incasellare necessariamente “a sinistra” quel che successe nel mondo quarant’anni fa. “Quel che resta del Sessantotto”, questo il titolo di un affresco a più mani che, senza mai diventare inutile rievocazione agiografica, entra nel merito delle questioni, percorre ipotesi interpretative e assapora il gusto di una domanda inimmaginabile: e se Sessantotto fosse stato (in realtà) anche di destra? Una domanda aperta, per nulla retorica, che non vuole imporre risposte scontate ma che cerca di parlare anche all’oggi: «Impegnati come siamo a celebrare, rielaborare il Sessantotto di quarant’anni fa – avverte Flavia Perina nel suo commento – rischiamo di perdere il treno del Sessantotto prossimo venturo, che non è un’astrazione ma una realtà già visibile e palpabile per chi voglia guardare e toccare con mano».
È indispensabile, però, una premessa: nelle duecento pagine della rivista della Fondazione presieduta da Gianfranco Fini non aleggia lo spettro recriminatorio del “Sessantotto” come “occasione perduta” di una destra che non “aveva capito”. Un Sessantotto egemonizzato dalla destra nel '68 – è ad esempio il parere di Gianni Scipione Rossi – sarebbe un'ipotesi del tutto antistorica, soprattutto guardando a quanto è successivamente avvenuto negli anni Settanta. Certo, in Charta Minuta si racconta, con dovizia di particolari e senza timori reverenziali, della incursione almirantiana alla Sapienza, della spaccatura tra ampi settori del mondo giovanile della destra italiana e le decisioni “opportunistiche” del Msi: i giudizi non sono affatto teneri, anche perché affidati, tra gli altri, a un “sessantottino di destra” come lo storico Franco Cardini e al duo Antonio e Gianni Pennacchi, i due fratelli protagonisti del libro di Antonio, Il fasciocomunista. Errori di prospettiva e interpretazione, da parte della destra politica, sicuramente ce ne furono: evitabili, inevitabili? Il confronto all’interno della destra culturale sarebbe ancora molto interessante e, anzi, lanciamo qui l’idea che proprio il Secolo, nelle prossime settimane, possa organizzare un dibattito su questi temi.
Ma la strada scelta da Charta minuta è stata quella di prendere di petto il Sessantotto come fenomeno culturale (e generazionale) globale: analizzarlo, digerirlo, «storicizzarlo», come dice Luciano Lanna nel suo saggio. Perché rievocare il ’68 a quarant’anni di distanza impone la necessità, anche a destra, soprattutto a destra, di sottrarne il giudizio a una lettura ideologica, evitando sia la glorificazione tipica degli ormai incanutiti reduci delle barricate sia la facile condanna postuma del sessantottismo: «Quella rivolta – spiega Lanna – fu una speranza di rivoluzione, uno slancio, un desiderio. Qualcosa che dava l’apparenza del cambiamento in quell’universo così pesante del dopoguerra. La contestazione si pose, almeno all’inizio, contro i vecchi sensi di appartenenza di derivazione ottocentesca. Una reazione spontanea alla triste egemonia fatta di esistenzialismo ammuffito, azionismo di retroguardia, marxismo da sezione, crocianesimo, neorealismo e neo-illuminismo...». E allora non si può raccontare il Sessantotto senza raccontare – come fa Giampiero Mughini – «l’Italia che esce dai lutti, dalle cupezze, dalle miserie del secondo dopoguerra, dal tempo straziante di una guerra civile dove italiani fecero ad altri italiani di tutto e di più. L’Italia dei Sessanta che sperimenta la sua seconda rivoluzione industriale, l’Italia del boom demografico, dove emergono e si ostentano intere divisioni armate di jeans e di minigonne, quelle dei ventenni che vogliono tastare le libertà del moderno...». Già, la minigonna, simbolo concreto di quella generazione, simbolo di una vitalità che significava coraggio del futuro: forse è proprio questo “quel che deve restare del Sessantotto”. Perché il vento del ’68 – questa la tesi funambolica (ma non per questo meno percorribile) – non andava per nulla a sinistra. Ed è così che un giornalista di destra come Adalberto Baldoni nel suo Sessantotto. L’utopia della realtà ha potuto elencare ciò che resta di positivo di quegli anni: «Senz’altro una maggiore attenzione ai diritti individuali, tra cui quelli delle donne, dei discriminati e degli emarginati... Senz’altro una maggiore attenzione ai problemi ecologici. Senz’altro una rivendicazione della libertà che ha scosso, come è accaduto in Cecoslovacchia, anche gli oppressi dalla tirannide del comunismo...».
Era la stagione dei libri di Kerouac, Ginsberg e Burroughs, dei giovani armati di chitarra e sacco a pelo che attraversavano l’Europa e il mondo in autostop, di chi cominciava ad ascoltare la musica in modo nuovo, di chi ascoltava Blowin’ in the wind di Bob Dylan, il primo vero inno universalmente riconosciuto di questo mondo giovanile. O di chi ascoltava Revolution dei Beatles, la dimostrazione in note che il Sessantotto globale non declinasse per niente nelle categorie del marxismo: «Tu dici cambierai la Costituzione / Noi vogliamo cambiare la testa / Tu dici che sono le istituzioni / Tu farai meglio a liberare il tuo spirito. / Ma se continui a portare su di te delle foto del presidente Mao / Nessuno ti seguirà, credimi». E in effetti che il Sessantotto autentico sia passato più per i fenomeni di costume ed esistenziali che per quelli politici ed ideologici è il filo conduttore di molte delle interpretazioni che si leggono su Charta. È così che si arriva a sottolineare la vera differenza tra il Sessantotto italiano e quello globale: ideologico, contenutistico, dogmatico; fantasioso, libertario, individualista, il secondo. Il Sessantotto italiano, insomma, ha finito per tradire l’anima del Sessantotto. Gli uomini di sezione tradirono la carica vitale del Sessantotto dei giovani: «Un movimento nato sulle ceneri delle società industriali – spiega Ferdinando Adornato – che rappresentava, anzi, anticipava, l’esigenza di una rivoluzione nei diritti, nelle professioni, nei costumi, si rivolse, invece, alle rivoluzioni di altre epoche: a quella di Marx nel migliore dei casi, a quella di Lenin nel peggiore». Insomma, ha ragione Edmondo Berselli, quando spiega nel suo ultimo libro che l’omologazione contestatrice ha spento la creatività giovanile. Quella stessa creatività giovanile che, in diverse forme e colori, si è opposta per tutto il secolo a quell’universo mondo molto simile – come ha spiegato Fulvio Abate sull’Unità – a quel collegio severo e austero dove finisce Gian Burrasca, il primo, genuino, sessantottino del Novecento.
Ideologia contro fantasia, quindi. Ma non è stato così in tutto il mondo: il Sessantotto americano – spiega ad esempio Massimo Teodori (foto a sinistra) – ha avuto un carattere più pragmatico e libertario rispetto a quello italiano: fu il Sessantotto di Martin Luther King e dei diritti civili, fu uno di quei momenti in cui la storia accelera e la vita delle persone cambia complessivamente. E non fu certo così nemmeno a Praga durante la Primavera, dimostrazione storica di un Sessantotto anti-ideologico e anticomunista. La racconta con tocco letterario Pierluigi Mennitti: «Fu un anno intenso, il Sessantotto in Cecoslovacchia. Praga sembrava vivere allo stesso ritmo delle capitali occidentali scosse dalla contestazione giovanile. Come Parigi, Francoforte, Berlino Ovest e Roma. Come le università americane già qualche anno prima. Gli studenti che manifestavano nelle università avevano i loro idolo rock: amatissimi i componenti dell’Akord Klub, il primo gruppo cecoslovacco che richiamava folle di giovani nell’angusta sala del teatro Reduta, a due passi da piazza Venceslao...». Quella piazza che, il 16 gennaio 1969, vide un giovane studente di filosofia di vent’anni, Jan Palach, darsi fuoco per protesta contro l’invasione sovietica: «La primavera del ’68 – racconta Pierluigi Mennitti – era appassita sotto il gelido soffio dei carri armati sovietici.
I cingolati avevano riportato l’ordine e con esso la cappa del silenzio e del grigiore. La vita era, ormai, altrove». Jan Palach, il sessantottino Jan Palach accese se stesso in un ultimo, disperato tentativo «di riaccendere la passione dei suoi compagni di studi, degli intellettuali, dei suoi concittadini. Si spense definitivamente dopo tre giorni di atroci sofferenze, in un ospedale praghese». Il primo, in Italia, a cantare quell’eroe anticomunista fu, un anno dopo, Francesco Guccini nella sua Primavera di Praga: «Jan Palach – spiega Guccini nell’intervista a Charta – è un simbolo oltre le appartenenze politiche, senza strumentalizzazioni o sovrastrutture. Rappresenta un gesto di libertà, un grido contro tutte le tirannie, il desiderio libertario che è sempre esistito nell’uomo e che io ho sempre avvertito molto forte in me. Un ideale che qualcuno ha difeso fino all’estremo sacrifico, che non ha colori o etichette...». Ed è proprio pensando a Jan Palach, a quell’eroe silenzioso, che a destra, anche a destra, soprattutto a destra, senza alcun gusto della provocazione, non ci si può non dire “sessantottini”.
Filippo Rossi, giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, del saggio-dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".
3 commenti:
Personalmente io avrei scritto quali i motivi e quali le premesse per un 68 di destra oggi...
Non resta che leggere il numero di Charta, allora... :)
Ciao Giacomo, ben ritrovato!
Certo!!! Grazie Roberto!!
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