domenica 28 dicembre 2008

Se Silver Surfer ricorda la spiritualità del Dalai Lama

Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 28 dicembre 2008
«Da un grande potere derivano grandi responsabilità». Il buon Peter Parker – in arte Spiderman – segue il richiamo dello zio Ben, sbaraglia il suo lato oscuro e torna a essere il bravo ragazzo che vigila su New York. Fine del film. Applausi bipartisan nel nome della tolleranza zero. Ma gli altri supereroi come se la passano? Male, almeno stando a quanto riferisce Marco Mancassola nel suo ultimo romanzo, La vita erotica dei Superuomini (Rizzoli, pagg. 569, € 21,50). Non bastavano la progressiva perdita dei poteri e la vecchiaia incombente, ignoti cospirano per eliminarli. Robin è il primo a essere fatto fuori. Poi Batman, ombra degenerata del campione di Gotham City. E infine Mystique, la mutante che si è velinizzata per riciclarsi in tv. L’Uomo di gomma dei Fantastici 4 s’è dedicato alla scienza ma la passione per una giovane ricercatrice e l’assassinio del figlio lo gettano nella disperazione. I supereroi hanno fallito e sono chiamati a pagare il conto delle illusioni del Novecento. Mancassola legge l’attualità attraverso la lente della cultura pop. «La nostra epica – l’ha battezzata Vittorio Macioce – perché come gli eroi di Omero – scrive – Superman e gli altri sono lo specchio degli umani, sono le loro paure, miserie, invidie, meschinità».
E – ci domandiamo – chi potrebbero essere gli alter ego delle personalità più illustri? Del Dalai Lama è sicuramente Silver Surfer, icona per eccellenza della purezza d’animo, anche lui esiliato dal suo pianeta, Zenn-La, civiltà evoluta dove è sconosciuta la parola violenza. Come il Dalai Lama, anche il personaggio della Marvel ha nemici spietati del calibro di Galactus, «il divoratore di mondi», colui che ha cercato di servirsene minacciando di distruggere il suo pianeta (potremmo chiamarlo, per declinare al presente, genocidio culturale). Se l’eroe creato da Stan Lee e disegnato da John Bucema è in grado di sfrecciare – con la tavola da surf, dello stesso materiale argenteo della sua pelle – a velocità superiore a quella della luce, non è che la massima autorità temporale del Tibet viaggi di meno, sia pure in aereo. In Italia – nell’era bertinottiana – a colui che nel 1989 venne assegnato il premio Nobel per la Pace, è stata rifiutata l’accoglienza alla Camera. Nicholas Sarkozy, in veste di presidente di turno dell’Unione Europea, lo ha ricevuto con tutti gli onori, scatenando le proteste del governo cinese. A conferma che anche senza super poteri, se un’idea merita di essere difesa, bisogna essere disposti a correre qualche rischio. Come diceva quel vecchio signore incanutito che si chiamava Ezra Pound.

Eccoo Sarkosix-Asterix: che difende la Francia con l'estro del nuovo (di Marco Iacona)

Articolo di Marco Iacona
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 28 dicembre 2008
Come ogni vero, buon personaggio dei fumetti che si rispetti, almeno fino ad un certo punto ed una certa epoca, Asterix non si interessa molto di donne e non “perde” tempo a farsi carezzare il viso da guerriero-per-caso col nasone ed il baffo quasi-sabaudo, da una bella fanciulla in top e minigonna preistorica. È chiaro come da questo punto di vista Asterix il gallico non somigli per nulla a Nicolas Sarkozy il francese di origini ungheresi, protagonista della Gallia di duemila anni dopo – quasi duemila e sessanta – che delle donne così si dice (e si vede) riesce ad apprezzare molto più del suo celebre antenato, compresa una moderna voglia di protagonismo celata dietro un sacrosanto “diritto” alla celebrità.
Fin qui i due eroi della Francia di ogni epoca - cioè Asterix il piccoletto che si batte insieme all’amico di ben altra stazza Obelix contro gli invasori romani nella Gallia del 50 a.C. e Sarkozy (anch’egli non un gigante), che dal maggio del 2007 è il protagonista della Francia del nuovo corso europeo - paiono non somigliarsi affatto. Ma cerca oggi e cerca domani va a finire che qualcosa la si trova eccome. Partiamo ancora dal dato fisico allora. Altra caratteristica a dir poco essenziale di un fumetto di successo è l’età del protagonista. Quanti anni ha ad esempio Paolino Paperino? Boooh! E Asterix? Franco Restaino nella sua “Storia del fumetto” (Utet 2004), parla giustamente di un’età “indefinibile”. Asterix potrebbe essere di venti o di quarant’anni. Beh, per il nostro Sarkò le cose stanno più o meno nello stesso modo. Magari vent’anni no, ma quaranta o sessanta, passando per i cinquanta, quello sì. Una moda quella del presidente (bello e) giovane inaugurata da JFK un bel po’ di lustri fa e rispolverata per il popolo ad ogni nuova occasione.
Una moda che se ne porta dietro un’altra (di moda), quella delle belle donne appunto. La bella coppia presidenziale protagonista della bella politica… Walter Veltroni che sulla “bella politica” ci ha messo su un libro nel ’95, non ci avrebbe mai pensato perché si tratta di una storia che sa di fiaba e le fiabe sono “vecchie”, maschiliste, “violente” e tanto altro ancora… Il principe sposa la bellissima dama e tutti (nel reame) vivranno felici e contenti, “borghesi”, operai e contadini compresi. Soprattutto se la premiere dame (in questo caso la “nostra” Carlà Brunì sposa di Nicolas), possiede un proprio lato (pardon: cotè) sensibile alle arti…
La magia contro la forza bruta, l’astuzia di una comunità sostanzialmente dedita (almeno agli inizi) alle comuni attività di “paese”, ed in primo luogo l’intelligenza di Asterix, contro la goffaggine dei militari, eccetera eccetera. E poi ancora i vizi pubblici, e talvolta anche privati dei francesi (impulsivi, come peraltro sensibile ed impulsivo è Nicolas il loro presidente), messi in mostra da una satira ad inchiostro colorato di china, queste le principali interpretazioni del fumetto Asterix che nel 2009, che sta per nascere, compirà il mezzo secolo di vita.
Ma c’è anche, inutile nasconderlo, un dato molto più politico che unisce Asterix, la Francia attuale ed il suo presidente Sarkozy, e ciò malgrado il mondo da prima della nascita di Cristo, di passi avanti – o indietro chissà – ne abbia fatti eccome (dalle legioni alla bomba atomica per esempio). Asterix artisticamente parlando nasce negli anni Sessanta (ufficialmente nel 1959), dalle mani di René Goscinny (testi) e Albert Uderzo (disegni), ed il suo successo non ha bisogno di essere ricordato (fra gli altri ne sono stati tratti film, forse però non riuscitissimi, con Roberto Benigni e Gérard Depardieu). Asterix è un fumetto non privo di una sua tessitura colta con trame anche ben riuscite (si veda ad esempio il tema del capitalismo in Asterix e la Obelix spa del ‘76), fatto di curiosità ed avventure di personaggi a dir poco strampalati che vivono e lottano in due campi diversi quello dei Galli in Armorica, l’odierna Bretagna, e quello dei soldatacci romani un po’ troppo in decadimento, sempre agli ordini di Giulio Cesare, i quali cercano di ultimare la conquista della Gallia. L’ossatura del fumetto è data appunto dal tema della resistenza dei Galli dai nomi quasi impronunciabili (Asterix, Obelix, altri personaggi fissi, il capo Abraracourcix, il sacerdote druido Panoramix dispensatore di pozioni magiche grazie alle quali i galli riescono a resistere ai romani, il delizioso cagnolino Idefix), Galli attorniati dagli accampamenti romani di Babaorum, Aquarium, Laudanum, Petibonum.
Ci siamo: i galli-francesi che per patriottismo (o culto della Patria o legame alla Nazione), battono sempre tutti e non bisogna certo andare troppo indietro ma basta “fermarsi” al periodo di De Gaulle, vogliono impedire ai romani, imperialisti ancora senza coca-cola di conquistare il proprio villaggio. Insomma in un periodo fondamentale della storia dell’Occidente (gli anni Sessanta), quando una certa globalizzazione culturale (e contro-culturale) americana cattura soprattutto i giovani, i galli preferiscono difendere la propria identità. Questo è quel che conta nel fumetto. E qui può innestarsi un discorso fatto di autocritica: una “tradizione” che non è certo quella appartenente al migliore dei mondi possibili, ma che è quella che tutti hanno semplicemente ereditato dai loro padri. Vaterland la chiamerebbero i tedeschi. Ed è da amare e da salvaguardare.
Quando Sarkozy venne eletto anticipò (ma da vincente) il bellissimo gesto di McCain: “Il mio avversario” (nel suo caso Ségolène Royal), “va assolutamente rispettato, stimare lei significa aver rispetto di chi l’ha votata”. Punto. Un grande gesto di democrazia. Del resto identità e unità nazionale erano state le sue parole d’ordine e non le avrebbe facilmente tradite.
Anche agli americani si sarebbe rivolto con grande rispetto: pensarla diversamente non significa essere nemici no? Abile e coraggioso come un guerriero impegnato a difendere se stesso ed il proprio popolo, così era apparso Sarkò all’indomani del 2° turno delle presidenziali francesi. Come Asterix, fiero sostenitore di una piccola Grande Nation, una nazione divertente, rissosa ma bene o male (che vada) sempre illuminata da un cielo stellato. Sarkozix dunque? Sì Sarkozix. Lui c’è e lotta con noi, tutti galli di un antico pollaio nato negli anni Sessanta o, forse, anche qualche Millennio prima…
Marco Iacona è dottore di ricerca in "Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee". Si occupa di storia del Novecento. Scrive tra l'altro per il bimestrale "Nuova storia contemporanea", il quotidiano "Secolo d'Italia" e il trimestrale "la Destra delle libertà". Per il quotidiano di An nel 2006 ha pubblicato una storia del Msi in 12 puntate. Ha curato saggi per Ar e Controcorrente edizioni. Nel 2008 ha pubblicato: "1968. Le origini della contestazione" globale" (Solfanelli).

Con odio e rancore: quando John Lennon uccise i "suoi" Beatles (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 28 dicembre 2008
Ha ragione Yoko Ono: «Questo libro – scrive nella prefazione, breve e densa e intelligente – è Lennon del più classico. Non è una lettura alla “rilassati e accomodati”. Probabilmente a ogni paragrafo avvertirete l’esigenza di alzarvi a fare un giro della stanza. Io almeno ho fatto così. […] Le persone deboli di stomaco faranno meglio a chiudere la finestra prima di leggere. Potreste provare il desiderio di buttarvi di sotto».
Un’iperbole, ma tutt’altro che infondata. Nella versione completa, infatti, la celebre intervista che Lennon concesse a Rolling Stone alla fine del 1970, venendo poi presentata in due puntate nei numeri del 21 gennaio e del 4 febbraio 1971, ha davvero un impatto molto forte. E disturbante. Se quello pubblicato a suo tempo era già un cospicuo j’accuse ai miti del rock, e in particolare al modo falsato e «zuccheroso» con cui i Beatles erano stati dipinti, il testo integrale va molto oltre.
La prima versione, per così dire, restituiva un punto di vista. I motivi di risentimento si coglievano comunque, ma nell’insieme rimanevano avvolti (avviluppati) in una rete di concetti. Jann S. Wenner, direttore e co-fondatore del quindicinale nato poco più di tre anni prima, aveva lavorato sulle trascrizioni con un’attenzione che andava ben al di là delle mere necessità di una sintesi giornalistica e che, col senno di poi, mostra tutta la sua prudenza. Consciamente o inconsciamente, e benché all’epoca avesse solo 24 anni, aveva evitato di rovesciare sui lettori le parti più virulente, e tout court sgradevoli, delle dichiarazioni di Lennon. Che l’ormai ex Beatle prendesse le distanze dall’ingombrante esaltazione dei “Fab Four” era evidente, così come lo era la sua esigenza di regolare a proprio vantaggio i conti con parecchia gente (a cominciare da Paul McCartney), ma le sue potevano ancora sembrare delle semplici puntualizzazioni. L’aggressività era parecchio sfumata. La rabbia appariva già decantata in ironia, o tutt’al più in qualche lampo di sarcasmo.
Quello che leggiamo in questo volume – che in inglese è apparso già nel 2000 e che da noi viene proposto solo oggi col titolo John Lennon ricorda (pagg. 169, € 15,90), dalla stessa White Star che cura l’edizione italiana di Rolling Stone – ripristina la verità. Per dirla col James Bond di Goldfinger, che sintetizzava così la maggiore potenza del Ju-Jitsu rispetto al Judo, «c’è la differenza che passa tra una catapulta e una fionda». Lennon va all’attacco e non si ferma davanti a niente. Picchia duro dall’inizio alla fine. E picchia per fare male, come un pugile che abbia subito delle gravi scorrettezze e che abbia una gran voglia di rifarsi. Una gran voglia di vendicarsi.
Il filo conduttore è nitido: lui è un genio con un intimo bisogno di verità e di ricerca, mentre i Beatles, specie dopo essere stati risucchiati nelle innumerevoli forzature della Beatlemania, sono diventati un’immane finzione, condannata a replicare all’infinito la propria immagine pubblica. Lui si è stancato di avallare quella finzione. Lui ha altro da fare. La giostra non lo divertiva più, non lo interessava più, e quindi ha tirato il freno e ha bloccato d’un colpo i cavallucci al galoppo, le automobiline colorate, le astronavi con le lucette. Tutto. Tutti. Tutta quella merda che girava in tondo senza avanzare di un centimetro.
«Fottuti bastardi, ecco quello che erano i Beatles. Devi essere un bastardo se vuoi arrivare, amico, c’è poco da fare, e i Beatles sono i peggiori bastardi sulla faccia della terra. […] Non ci sono santi, se ce la fai sei un bastardo.»
Interviene Yoko: «Come siete riusciti a mantenere un’immagine così pulita? È incredibile».
«L’immagine vogliono salvarla tutti. Conviene alla stampa per via di feste, puttane gratis e divertimento; tutti vogliono restare sul carrozzone: è il Satyricon, dopotutto. Noi eravamo i Cesari: chi ci avrebbe smontato se c’era da fare un milione di sterline? Tutti i comunicati stampa, la corruzione, la polizia, la fottuta pubblicità, capisci? Conveniva a tutti, ecco perché alcuni stanno ancora cercando di rimanervi aggrappati.»
Jann S. Wenner cambia discorso. O quanto meno non approfondisce. Chiede «cosa vuoi dire ai beatlesiani di oggi?». Come ha fatto in precedenza, e come farà anche dopo, si limita a sollecitare qualche dettaglio sui fatti e qualche chiarimento sulle affermazioni, se non sono già perfettamente chiare di per se stesse. Ma non importa, ai fini dell’intervista. Le domande sono quasi superflue, vista la foga con cui si succedono le risposte. Le domande servono più che altro ad assecondarne il flusso, a confermare la “legittimità” psicologica e mediatica di una tale quantità di violenza verbale, a far sembrare un dialogo quello che fondamentalmente, come tutti gli sfoghi, è invece un monologo. Lennon è inarrestabile. Sente di essere stato sminuito sul piano artistico, venendo osannato “solo” come membro dei Beatles, e umiliato su quello umano, per l’ostracismo ricevuto da Yoko Ono.
Chiede Jann S. Wenner (e di tutto questo non resterà traccia nella versione del 1971): «Quali furono le reazioni del Beatles quando presentasti loro Yoko?».
«La disprezzarono.»
«Fin dall’inizio?»
«La insultarono, e continuarono a farlo. Proprio così, e non si rendono nemmeno conto che io certe cose le noto. E persino quando questo apparirà nero su bianco, sembrerà che io e lei siamo paranoici. […] Ringo è stato corretto, ma gli altri due ci hanno proprio fatto a pezzi. Non li perdonerò mai per questo.»
Le ferite erano aperte. Facevano male. Sanguinavano. Lennon era innamoratissimo di Yoko, ma non era soltanto la reazione di un uomo che difende la donna che ama. È che lui, in quell’amore, aveva trovato il riscatto dalle frustrazioni precedenti. Dall’amarezza che gli era stata arrecata da tutti quelli che, dall’infanzia in poi, non gli avevano dato atto del suo essere, già a scuola, «il più intelligente di tutti». Lei riconosceva la sua genialità e, al tempo stesso, lo accettava completamente come persona. Passione, affetto e stima all’ennesima potenza, in una relazione che si annuncia definitiva: quanto basta per odiare chiunque si azzardi a turbare l’idillio. Quanto basta per reagire, contro Paul e contro George, uccidendo ciò che essi avevano di più caro. I Beatles.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini.

«Io, fumettaro irregolare: il mio John Doe è D'Alema» (intervista a Roberto Recchioni di Pierluigi Biondi)

Intervista a Roberto Recchioni a cura di Pierluigi Biondi
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 28 dicembre 2008
«Vulcanico e brillante» basterebbe questa glossa d’autore (in tutti i sensi), firmata da Sergio Bonelli, per presentare Roberto Recchioni, romano, classe ‘74, sceneggiatore e disegnatore di fumetti dall’attività intensissima. Ha collaborato con varie collane, fondato una casa editrice indipendente, inventato personaggi per le nuvole parlanti. Tiene seminari alla Scuola Romana dei Fumetti, gira per l’Italia, gioca parecchio ai videogiochi, accudisce un cane e quattro gatti.
Di te dici che «scrivi per mangiare e disegni per digerire» e sul tuo profilo Facebook ti definisci «nichilista speranzoso, fascista zen e anarchico reazionario». Cosa significa?
Ti rispondo utilizzando un post pubblicato sul mio blog Dalla parte di Asso Merrill: «Sono un fascista zen (la definizione non è mia ma di John Milius). Non ci posso fare un cazzo, ho solo ho potuto prenderne atto... Un giorno guardando i filosofi che preferisco, i miei scrittori e registi preferiti e i fumettari anche, ho capito una cosa che è il dolore di mia madre: non sono di sinistra. Non di quella sinistra che gira oggi e non di quella sinistra che girava prima della caduta del muro di Berlino. Di contro non mi identifico manco con quella destra in doppiopetto o con i movimenti pseudo liberali all’italiana. Sostanzialmente, ho scoperto di essere un confuso coacervo di contraddizioni».
Il richiamo all’irregolare regista di "Un mercoledì da leoni" e "Conan il barbaro" è solo una delle tante scorribande che conduci, sulla tua porzione di spazio internet, al cuore del politicamente corretto…
Ripeto: non faccio altro che prendere atto della realtà che ho intorno.
Dacci le generalità delle tue creature più famose: John Doe e David Murphy.
John Doe (Editoriale Eura) è l’ex direttore della Trapassati inc.: un’azienda, se possiamo definirla tale, al cui capo c’è Morte e che si occupa dell’ultimo viaggio degli umani. Un bel giorno John decide di abbandonare l’organizzazione sottraendo la “falce dell’olocausto” pronta per l’imminente Armageddon. Da quel momento in poi, la sua, sarà una lunga fuga per le strade degli Stati Uniti. David Murphy, invece, è il protagonista della mini-serie in quattro albi David Murphy 911 (Panini Comics), un catalizzatore – per maledizione familiare – di ogni sorta di disgrazia.
Vediamoli meglio. Chi è John Doe?
John Doe è la classica incarnazione di un certo edonismo rampante, tipico degli anni ‘80 e che, in Italia, sta vivendo una seconda giovinezza grazie agli exploit del nostro premier ma anche nella rinnovata sinistra più liberista. John Doe è un manipolatore, un individualista, un bugiardo, un uomo alla perenne ricerca della sua soddisfazione personale. È convinto che sia l’individuo e non lo stato o la società a fare la differenza ed è un fervido sostenitore del culto della personalità. Ha pure un solida deontologia professionale, però, cosa che lo salva dall’essere un completo bastardo.
Quindi, nella realtà quotidiana? Se dovessimo accostarlo a un personaggio della politica italiana, penserei a Massimo D’Alema.
Passiamo a David Murphy.
David Murphy è un personaggio molto più solare e positivo. Sostanzialmente apolitico e interessato, principalmente, a vivere una vita tranquilla ma, nonostante questo, pronto a sacrificarsi per fare la cosa giusta quando non c’è nessun altro disposto a farlo. È un eroe alla vecchia maniera, di quelli che non se ne fanno più. Equilibrato, non cerca la giustizia ma non ama i soprusi, non è a caccia di gloria e non vuole salvare il mondo. Ma quando il mondo ha bisogno di essere salvato, lui c’è. È l’uomo giusto perché non vuole fare l’eroe... e proprio per questo è perfetto per esserlo. Purtroppo, dando un’occhiata alla politica italiana, faccio fatica ad individuare un elemento con le stesse qualità. Forse, guardando oltre l’oceano, mi verrebbe da pensare che David somiglia un poco a Obama, ma bisognerà vedere se il nuovo presidente degli Usa è davvero quello che la sua campagna promozionale ci ha fatto credere che sia.
Progetti per il futuro?
Ho iniziato a scrivere per Dylan Dog (sono suoi il soggetto e la sceneggiatura per il numero in edicola dell’“indagatore dell’incubo”, ndr), una collaborazione che mi vedrà impegnato a lungo.
Un impegno da far tremare le vene ai polsi, visto che aggiungi il tuo nome a quelli di gente del calibro di Sclavi, Ruju, Chiaverotti, Barbato, Faraci e Manfredi. Come sarà il tuo Dylan?
Vorrei recuperare l’horror e la violenza degli esordi. E poi sarà più surreale e grottesco. E più personale, intimo.
Pierluigi Biondi (L’Aquila, 1974), giornalista, collaboratore dell'ufficio stampa del Consiglio Regionale d'Abruzzo, scrive per le pagine culturali del quotidiano Secolo d’Italia e la rivista Senzatitolo, trimestrale di teatro e cultura.
E' coautore, con Roberto Alfatti Appetiti, de L'ABC di un Sessantotto postideologico (Charta Minuta n. 4/2008) e ha collaborato, in qualità di editor, al libro Tre punti e una linea. La storia attraverso la radio (ed. Teatroimmagine, 2007).Dal 2004 è sindaco di Villa Sant’Angelo (Aq).

«Il mio Tex in politica? No, troppo indipendente» (Pierluigi Biondi intervista Sergio Bonelli)

Intervista di Pierluigi Biondi a Sergio Bonelli
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 28 dicembre 2008
La prima cosa che ti viene in mente dopo una conversazione con Sergio Bonelli è che il più importante editore italiano di fumetti pare si sia materializzato da una delle migliaia di tavole che ha mandato (e, fortunatamente, continua a mandare) in edicola. Innamorato del suo lavoro come lo è Tex della stella di latta che lo porta a rimediare alle ingiustizie che si consumano in giro per il vecchio West. Ironico come Mister No. Autentico come Nathan Never quando – circondato da un mondo iper-tecnoligico – si rifugia in casa con un buon libro e i dischi in vinile. Cortese come Kit Carson quando fa il baciamano a qualche bella tenutaria di saloon. Merito del suo carattere di galantuomo meneghino vecchio stampo che ha superato, indenne, la “Milano da bere” sguaiata e presuntuosa.
Di strada ne avete dovuta far tanta: una volta il mondo delle nuvole parlanti era considerato alla stregua di materiale pornografico.
I giornalisti, i critici e gli educatori scolastici invitavano i giovani a stare alla larga dagli albi illustrati perché distraevano da altre occupazioni più nobili e più utili alla formazione dell’individuo.
Se si clicca con il tasto destro del mouse sulla parola “fumetto” alla ricerca di un sinonimo, viene fuori l’espressione “storia banale”.
È per questo che mi ostino ad utilizzare carta e penna al posto di un “banale” computer.
Nessuno meglio di lei può testimoniare le ostilità subite dai fumetti prima che gli si riconoscesse di essere stato parte integrante di quella cultura popolare che, soprattutto nella seconda parte del Novecento, ha raccontato e accompagnato la trasformazione dell’Italia meglio di tanta politica e di tanta accademia.
È così. Quando ero ragazzo riuscivo a leggere negli sguardi dei genitori borghesi dei compagni di scuola il malcelato senso di disprezzo che provavano per il lavoro dei miei. Il primo segnale che i tempi, timidamente, stessero cambiando lo abbiamo avuto con il festival di Bordighera del 1965, che in seguito diventerà Lucca Comics. Da lì è iniziata la lenta scalata che ha portato il fumetto a recuperare la dignità che merita nell’immaginario della società e anche, per certi versi, la sua funzione educativa.
Attualmente le cose sono diverse.
È caduto il giudizio morale che bollava il fumetto in quanto tale. Oggi un albo o una serie possono essere valutati belli o brutti nella loro specificità, come accade per un qualsiasi romanzo o una qualsiasi canzone: è un bel passo in avanti.
E infatti possiamo incrociare gli Sturmtruppen, Zagor o Corto Maltese anche nelle librerie.
Ancora faccio fatica ad abituarmi all’idea. Quando passo davanti le vetrine delle librerie e vedo – accanto ai testi “colti” – qualche volume illustrato che vede per protagonista un eroe dei fumetti, provo un senso di gioia quasi inattesa. È una soddisfazione non solo per me, ma per tutta la categoria.
Il 2008 è un anno importante per la storia del fumetto e per la sua casa editrice.
In genere sono poco attento agli anniversari, soprattutto ai miei (ride, ndr). Certo è una curiosa coincidenza: l’esordio del fumetto in Italia viene fatto risalire al 27 dicembre 1908, data in cui uscì il primo numero del Corriere dei piccoli, lo stesso anno di nascita di Bonelli padre (dice proprio così, non “mio padre”: quasi a testimoniare, giustamente, che la figura di Gian Luigi Bonelli è un patrimonio comune, oltre che familiare, ndr).
Novità in vista?
Stiamo lavorando a due-tre nuovi personaggi, la casa editrice è sempre alla frenetica ricerca di idee per consentire ai nostri duecento e oltre disegnatori sparsi per il paese di non risentire della crisi del settore e del calo delle vendite. Questo è il mio maggiore cruccio: mai come ora, infatti, avevo visto in giro tanti giovani talenti che, ahimé, forse non troveranno sbocchi lavorativi.
Per finire: Tex avrebbe mai lanciato un suo stivale a un governante?
Il mio ranger, quando è stato necessario, non si è tirato indietro dal dare una strigliata a qualche “alto papavero” di Washington, però non è mai tornato a casa scalzo.
Inadatto, quindi, per la politica?
Tex è un indipendente e, notoriamente, scarseggia in diplomazia. E, poi, non sopporterebbe il fatto di stare seduto troppo a lungo dietro una scrivania. Il suo posto è all’aria aperta e il suo destino è il viaggio.
Pierluigi Biondi (L’Aquila, 1974), giornalista, collaboratore dell'ufficio stampa del Consiglio Regionale d'Abruzzo, scrive per le pagine culturali del quotidiano Secolo d’Italia e la rivista Senzatitolo, trimestrale di teatro e cultura.E' coautore, con Roberto Alfatti Appetiti, de L'ABC di un Sessantotto postideologico (Charta Minuta n. 4/2008) e ha collaborato, in qualità di editor, al libro Tre punti e una linea. La storia attraverso la radio (ed. Teatroimmagine, 2007).Dal 2004 è sindaco di Villa Sant’Angelo (Aq).

giovedì 25 dicembre 2008

Conferenza su Luciano Bianciardi a Casapound del 10 dicembre 2008

FOTO RICORDO
Roberto Alfatti Appetiti e Roberta Di Casimirro

IL MANIFESTO
Le polemiche: leggi l'articolo di Adriano Scianca sull'iniziativa QUI
La manifestazione, infine, si è fatta senza Marcello Baraghini ma con Domenico Di Tullio, Luciano Lanna e Gianfranco Franchi (e il sottoscritto).
LUNEDI' SARANNO PUBBLICATE ALTRE FOTO CON TAVOLO RELATORI ETC...

mercoledì 24 dicembre 2008

Auguri di sereno Natale e felice anno nuovo


Auguri di sereno Natale e felice anno nuovo
La formula può apparire convenzionale, ma è esattamente quello che auguro ai lettori di questo blog-archivio, auguri sinceri che le "firme" ospitate - gli amici, per intenderci - mi invitano a estendere a tutti voi anche a nome loro.

martedì 23 dicembre 2008

"Un romanzo d'avventura" di Alberto Ongaro: un Hugo Pratt immaginario (ma non tanto)

(Nella foto Hugo Pratt e Alberto Ongaro nel 1970)
Dal Secolo d'Italia di martedì 23 dicembre 2008
«Rieccolo! Il vecchio vagabondo è ancora in giro». Così Alberto Ongaro ha salutato Con Hugo (Marsilio pp. 250 € 16,00), la biografia del creatore di Corto Maltese recentemente pubblicata dalla figlia Silvina. «È quello che non si può fare a meno di pensare – spiega nella prefazione all’edizione italiana lo scrittore veneziano, classe 1925, che di Pratt fu collaboratore in mille progetti e soprattutto amico fraterno – tutte le volte che Hugo entra in scena». Già, ed è quello che ripetiamo noi nello sfogliare adesso Un romanzo d’avventura dello stesso Ongaro (1970, da decenni fuori catalogo e appena ristampato dalle edizioni Piemme, pp. 320 € 17,50), di cui il protagonista assoluto è proprio lui: Hugo Pratt, un personaggio d’eccezione che non ha nulla da invidiare a quel suo figliuolo marinaio. Malgrado siano passati tredici anni dalla sua morte, infatti, Pratt rimane un attore di primo piano nell’immaginario collettivo. «Difficile dimenticare Hugo. Anarchico libertario, individualista estremo, dotato di una mano prodigiosa, di grande fantasia e della capacità di organizzarla. Apparteneva alla stessa razza degli Ernest Hemingway, Orson Welles, John Huston e di tutti coloro che, consapevoli del proprio talento, sono interessati a coltivare soltanto se stessi. L’unica cosa che gli importasse davvero – chiosa affettuosamente Ongaro – era di recitare una parte nel mondo dell’avventura».
E nessuno meglio di Ongaro avrebbe potuto assegnargli un ruolo all’altezza e coniugare altrettanto efficacemente mito e realtà, lasciando che tra le pagine scorrano, abilmente dosati e miscelati, episodi realmente accaduti, sia pure trasfigurati dalla finzione, accanto alle gesta di grandi personaggi “riversati” liberamente dai film e dai libri più amati, in un racconto corale che fa del pop una vera epica della modernità: da John Wayne al capitano Achab fino agli ammutinati del Bounty e tanti altri ancora. Nessuno sfugge alla convocazione di Ongaro, che nella sua “avventurosa” vita ha esplorato forme espressive e continenti diversi, misurandosi anche con il fumetto: dall’Asso di picche – fondato con Pratt nell’immediato secondo dopoguerra del Novecento – alle più recenti sceneggiature per Mister No e Nick Raider con lo pseudonimo di Alfredo Nogara. A lungo corrispondente da Londra dell’Europeo, Ongaro, tornato stabilmente nella città lagunare alla fine dei Settanta, si è dedicato con successo all’attività di scrittore dando alla luce romanzi straordinari come, per citarne alcuni ristampati negli ultimi mesi da Piemme, La taverna del Doge Loredan, Il segreto di Caspar Jacobi e Il ponte della solita ora. E, per l’appunto, Un romanzo d’avventura, che nel 1971 si aggiudicò il premio Campione d’Italia. Un libro ormai introvabile anche nelle librerie d'antiquariato e che, grazie alla casa editrice milanese, è tornato finalmente in libreria restituendoci un fitto rincorrersi di citazioni e location suggestive tra le quali il personaggio Pratt è chiamato ad agire mentre la clessidra del tempo si consuma sempre più velocemente. La storia inizia con una telefonata notturna da Londra: Paco, l’amico di sempre, è scomparso. Si è forse suicidato gettandosi nelle acque del Tamigi? E perché avrebbe dovuto? E soprattutto: è sua la responsabilità per averlo “iniziato” a un mondo fiabesco – affascinante quanto aleatorio – e istigato alla fuga perpetua da una quotidianità noiosa? È giustificato quello strano senso di colpa che ora lo assale?
Del resto che l’avventura rappresentasse «un elemento perturbatore della famiglia e del lavoro» l’aveva detto lo stesso Pratt, quello in carne e ossa. «Porta scompiglio e disordine. Per questo fu messa al bando e non è mai stata ben vista né dalla cultura cattolica né da quella socialista». Una fabbrica di irregolari senza il minimo senso del collettivo e allergici a ogni ideologia, ecco cos’è l’avventura pura per Pratt. E non è certo un caso se nel 1973 non ci pensò due volte a fare le valigie da Pif, il popolare settimanale francese di fumetti che aveva lanciato Corso Maltese. «Le tendenze libertarie di Corto – ha raccontato Silvina Pratt – non collimavano più con le nuove direttive editoriali che orientavano la rivista verso un’obbedienza di stampo comunista». Per questo il carisma di Corto continua a esercitare un’irresistibile fascinazione sui giovani: perché non serve alcun padrone e non appartiene a nessuno, tanto che i suoi ritratti campeggiano indifferentemente nei circoli pacifisti come anche al Cutty Sark, il ritrovo romano dei ragazzi di Casapound e del Blocco Studentesco, «il pub – come lo definiscono loro stessi – più odiato d’Italia».
Popolare – il marinaio con l’orecchino – lo è al punto che da più parti viene sollecitata una trasposizione cinematografica della sua saga. Non molto tempo fa una proposta di portare Corto sul grande schermo è stata rivolta a uno dei registi di punta del cinema italiano, Gabriele Salvatores. Ma l’autore napoletano, in questi giorni nelle sale con Come Dio comanda (pellicola con Elio Germano tratta dal romanzo di Niccolò Ammaniti), ha declinato l’invito: «Rifiutai – ha spiegato – perché il produttore voleva farlo diventare una specie di Indiana Jones. E io preferisco lasciarlo navigare su quella sottile linea d’inchiostro e sognare un film su Corto Maltese scritto da Hugo Pratt e diretto da Sergio Leone. E forse, da qualche parte, quei due ci stanno lavorando».
E nel mondo “avventuroso” del cinema Pratt lavorò davvero, sia pure a modo suo, dosando guasconeria e auto-ironia. Sì, perché c’è anche il Pratt attore. Si tratta di apparizioni e ruoli minori, di camei che vanno a impreziosire lavori non sempre di qualità. Pensiamo a Quando c’era lui… caro lei (1978), commedia satirica di Giancarlo Santi con Paolo Villaggio e Gianni Cavina, in cui il nostro interpreta un anarchico “rientrato nei ranghi” che insieme a due vecchi camerati rievoca i tempi di “quando c’era lui.” O anche a Nero (1992), film di Giancarlo Soldi tratto da un romanzo di Tiziano Sclavi, papà di Dylan Dog. Un giallo italiano nel cui cast Pratt – nel ruolo di un poliziotto equivoco – figura insieme a Chiara Caselli e Sergio Castellitto. Decisamente più ambizioso è invece il francese Rosso sangue (1986) di Leos Carax con Michel Piccoli e Juliette Binoche: mentre una cometa si avvicina alla terra provocando sconvolgimenti metereologici, si diffonde un virus mortale che si trasmette tra chi fa l’amore “mercenario” e all’intreccio della trama contribuisce Pratt nei panni di un killer. Un noir tra l’iper-reale e il fantascientifico con omaggi dichiarati al cinema muto e all’universo dei fumetti, girato come un “comic” erotico alla Milo Manara.
Un autore, quest’ultimo, che deve molto a Pratt, al quale ha sempre guardato come esempio e mentore. Famoso in tutto il mondo per il fascino sensuale delle sue tavole, il disegnatore altoatesino, infatti, di Pratt fu amico e soprattutto allievo riconoscente. Tanto da farne un personaggio – giusto trent’anni fa, nel novembre 1978 – in HP e Giuseppe Bergman, la prima storia interamente scritta e illustrata da Manara. Giuseppe Bergman altri non è che lo stesso Manara e HP è Hugo Pratt nella “parte” del maestro d’avventura, di un saggio dispensatore di consigli a un più giovane e scapestrato collega. Una sorta di odissea visionaria e surreale – ma anche un vero e proprio manifesto libertario – che parte da Venezia, la città che entrambi hanno scelto come centro della loro vita personale e professionale, e li conduce in luoghi lontani ed esotici dove non mancheranno imprevisti di ogni genere e personaggi altrettanto improbabili: tribù di indigeni tossicodipendenti, uno stravagante esercito rivoluzionario comunista e – non potevano mancare – tante ragazze seducenti disegnate con il caratteristico tratto ammiccante dell’artista di Luson. C’è qualcosa di Pratt, pertanto, anche nel successo planetario del nostro Manara. «Il vecchio vagabondo» – è il caso di dire – ha lasciato il segno. A quale altro scrittore e disegnatore di storie avventurose è accaduto del resto di diventare lui stesso personaggio di un fumetto, attore di cinema e - come nel caso della vicenda raccontata dal suo amico Alberto Ongaro - protagonista di un romanzo con il proprio nome e la propria storia individuale?
A proposito di Un romanzo d'avventura fu Oreste del Buono a osservare che «Alberto Ongaro coglie un risultato veramente singolare che imparenta moltissimo, nella sua indubbia originalità, questo libro al capolavoro di Malcom Lowry Sotto il vulcano». E la scrittura di Ongaro coinvolge senza mediazioni. Si comincia a leggere e ci si sente tutt'uno con il personaggio di Hugo Pratt. C'è l'infanzia veneziana, l'adolescenza nell'Africa Orientale italiana, poi il rientro nella città lagunare, l'incontro con Paco (dietro cui è immaginabile ci sia lo stesso Alberto Ongaro), e l'inizio di una vita tutta all'insegna dell'avventura. E' la storia di «due amici che si chiamavano Paco e Hugo Pratt, uno scrittore e un disegnatore di racconti avventurosi, complementari l'uno all'altro». Due ragazzi che scelgono l'avventura come orizzonte esistenziale, innamorandosi di Melville e Jack London, Mark Twain e Zane Grey... «Questo straordinario giovanotto - dice Ongaro descrivendo Hugo - viveva in un'epoca in cui ogni azione doveva essere giustificata da uno scopo o da un utile, pena l'esclusione sociale o il fallimento...». Eppure lui riesce a dire di no, non cedendo mai «alle lusinghe dell'avvocatura e dell'architettura, senza piegarsi al fascino dell'ideologia, come a dedicarsi all'apostalato, al postulato, al concordato, adattarsi insomma alle inguaribili abitudini della società in cui viveva». Un libro che è un vero omaggio all'avventura e alla libertà. «In un mondo - racconta Ongaro parlando di Hugo - sofferente e in frantumi, egli era sempre riuscito a farsi un paio di risate». Sonore, irregolari e inutili.