E la destra politica si chiuse al futuro
Storicizzare il ’68 è tutt’altro da quel diluvio di celebrazioni che, come sostiene preventivamente Pierluigi Battista, presto ci subisserà «per commemorare sontuosamente il quarantennale del Grande Evento, della data di spartiacque, del mito di fondazione». Storicizzare il ’68 è, infatti, tutt’altro da quella ripetizione del sempre uguale, da quell’imporsi «di un luogo comune indistruttibile che ha fatto di un anno come tanti altri l’Anno Zero della storia contemporanea». E storicizzarlo significa individuarne lo spirito autentico, raccontandolo per quello che è stato realmente e non per inutili sociologie postume. Lo spirito dell’epoca, allora, espresso plasticamente dal testo della Carta della Sorbona, un documento del Maggio francese di matrice situazionista diffuso in quei giorni in tutta Europa. Da quelle 36 tesi parigine emergeva infatti la vera natura del ’68 originario: libertaria, futurista, irriverente, anti-ideologica, fuori dai vecchi schemi: «Nessuno si meravigli del caos delle idee, nessuno ne sorrida, nessuno ne tragga motivo di burla o di gioia. Questo caos è lo stato di emergenza delle idee nuove… Il movimento si crea da se stesso con tutti coloro che vi aderiscono e lascia che ciascuno porti con sé il proprio bagaglio di idee». E ancora: «La bandiera rossa può morire, la bandiera nera [quella degli anarchici, ndr] anche, i pittori si sforzino d’inventare per noi mille bandiere che esprimano la ricerca, lo sforzo, la rivoluzione interiore, l’entusiasmo, l’invenzione».
Era questa, come abbiamo visto sinora, l’anima originaria del ’68: niente che - almeno all’inizio - potesse ricondurre allo spirito ideologico, agli schemi di classe, alla cultura d’apparato, al marxismoleninismo. «A noi studenti che affollavamo a migliaia i cortei – ha ricordato, ad esempio, Leoluca Orlando – poteva capitare, come ci capitò, di essere guidati da un esponente del Fuan». Nello stesso fermento nascevano i primi germi di quell’esperienza che – come ha ricostruito Luigi Amicone in In nome del niente (Rizzoli) – sarebbe poi diventata Comunione e liberazione. Fu infatti nel novembre ’68 che in uno scantinato milanese un gruppetto di ragazzi cattolici creava, per dirla con don Giussani, quel «movimento di comunità cristiana dentro l’università».
E continuando a raccontare (e storicizzare), le sorprese continuano. «Quante vicende inedite e contaminazioni all’Università di Pisa», racconta Mario Bernardi Guardi, allora giovane contestatore “da destra”. Che prosegue: «Quante storie... C’erano sì Massimo D’Alema e Fabio Mussi, ma anche tante e tante altre storie. C’era, ad esempio, Pino Masi, già guardiaspalle di Beppe Niccolai, che se ne va con Adriano Sofri. O Umberto Carpi che arriva da Merano con la fama di fascista e passa alla sinistra. Poi, c’eravamo noi. Intanto, il Fuan, prima evoliano, poi cattolico, grazie alla conversione di Marco Tangheroni, un brillante studioso del Medioevo, stroncato un paio di anni fa dalla malattia mortale. C’era anche il Fronte di Rinnovamento Universitario che spadroneggiava a Lingue, popolata di femmine, grazie al fascino del suo leader, Gianni Benvenuti. Infine noi dell’Orologio: la rivista diretta dall’ex repubblichino Luciano Lucci Chiarissi che aveva sposato l’idea del ’68 come rivolta generazionale e organizzato gruppi qua e là per l’Italia. Organizzammo subito alla Casa dello Studente un riuscitissimo convegno contro quel Trattato di non proliferazione nucleare che, secondo noi, castrava ogni speranza di “iniziativa politica italiana nel tempo europeo”».
Uno dei pochi intellettuali che compresero in presa diretta quanto stesse avvenendo nel ’68 – con tutte le annesse e connesse potenzialità di rinnovamento dell’intero quadro politico-culturale italiano – fu Giano Accame, allora giornalista del Borghese, il quale segnalò subito alla destra i lati positivi con i quali sintonizzarsi di quella rivolta generazionale. Una rivolta – spiegava Accame – «sincera e confusa» e in cui «fermenta un po’ di tutto». E proprio per questo, in un articolo del 29 febbraio 1968, ammoniva la destra politica a fare attenzione a non commettere errori che avrebbero potuto riverlarsi esiziali: «La sinistra – scriveva – se le riesce un certo gioco, può forse svuoltare la destra portandole via i temi che non ha saputo usare». Un’analisi profetica, che – tuttavia – non fu recepita dalla destra politica dell’epoca, preferendo fornire rappresentanza ai ceti e ai gruppi sociali infastiditi dal vento della contestazione. Scrisse Accame all’indomani di quelle scelte: «I missini hanno scaricato a mare i loro giovani, che avevano visto giusto, per andare a caccia di voti preferenziali negli ambienti più ottusi dell’elettorato». La destra partitica si chiudeva infatti nel ghetto di improbabili rappresentanze della maggioranza silenziosa, senza neanche – tra l’altro – ottenere gli sperati ritorni-scorciatoia: alle elezioni del 19 maggio ’68 il Msi perdeva voti scendendo al 4,4 per cento, mentre era il Pci a venire premiato – salendo al 26,9 per cento dei voti – proprio per aver sposato strumentalmente le ragioni dei giovani e del ’68. «E per anni – commenterà Beppe Niccolai – la destra giovanile sparirà dall’università e dalle scuole della Repubblica, veniva cioè sconfitta sul terreno che era sempre stato suo e che avrebbe potuto essere sempre suo». Basti pensare, per fare un solo esempio, che il filosofo Vittorio Mathieu individuerà nell’attualismo di Giovanni Gentile il pensiero teoreticamente più in sintonia con l’idea stessa di “contestazione”.
D’altro canto, tentando di rispondere, “da destra”, alla domanda sul perché la contestazione abbia finito, soprattutto in Italia, per incanalarsi sui binari del marxismo – originariamente del tutto innaturali – il giovane Adriano Romualdi fu lapidario: «Perché dall’altra parte non esisteva più nulla». Ed elaborando, cinque anni dopo gli eventi del Maggio, una prima analisi generale su tutto il fenomeno – in uno scritto, «La rivolta del 1968», apparso il 20 giugno ’73 sul Giornale d’Italia di Alberto Giovannini – lo studioso riconosceva che le manifestazione studentesche agitarono nel profondo le società occidentali e «introdussero una quantità di nuovi elementi nel costume e nel vocabolario dell’Occidente». Nel momento stesso in cui il vento della contestazione, sottolineava Romualdi, iniziò a circolare negli atenei, «l’incendio divampò come un fuoco in un prato d’erba secca. Le organizzazioni universitarie ufficiali, i parlamentini, crollarono da un giorno all’altro e nessuno è stato più in grado di resuscitarle. E anche i gruppi di destra ridotti a montare la guardia ai temi d’un patriottismo invecchiato furono immediatamente travolti». Due, a suo avviso, i fattori di crisi e gli errori di prospettiva: la non-inclusione nel ’68 anche della rivolta cecoslovacca e la miopia della destra politica italiana dell’epoca. «A Praga – scriveva Romualdi – crollò l’altra metà dell’impalcatura ideologica della contestazione. Dopo mesi di retorica antimperialistica, di sproloqui sul Vietnam e sull’America Latina, l’imperialismo mostrava improvvisamente gli artigli, a casa nostra, in Europa…». E il “fallimento” della destra politica diventava palpabile nell’incapacità di non aver saputo «parlare ai giovani un linguaggio all’altezza dei tempi e delle sue stesse tradizioni ideali. Il perbenismo qualunquista e vagamente patriottardo dei fronti tricolori, se esercita un richiamo verso le maggioranze silenziose di impiegati e di pensionati, non fa presa sulla gioventù. Ed è sintomatico – concludeva – come al recupero di voti a destra verificatosi negli ultimi anni non abbia fatto riscontro un recupero del terreno perduto nel mondo giovanile e nelle università…». Bisognerà infatti aspettare la conclusione di un intrero ciclo sino all’esordio degli anni ’80 per riaprire quell’osmosi tra destra, società civile e universo giovanile che porterà a ritrovare la sintonia politica con il proprio tempo. «La mia generazione, che – racconterà nel 1986 Maurizio Gasparri in una testimonianza inserita in Noi rivoluzionari di Adalberto Baldoni – per ragioni anagrafiche non partecipò al ’68, pagò pesantemente gli errori di quella primavera romana…. Dovevamo liberarci dai cliché che ci sovrapponevano alla nostra vera essenza. E tappa dopo tappa, un mondo variegato e un movimento delle idee non dogmatico hanno riconquistato spazi politici e fisici. E nella primavera dell’86, dopo gli errori del ’68 e un lungo esilio siamo finalmente tornati con le nostre insegne nei viali dell’ateneo romano». A storicizzare il ’68, insomma, la destra non ha cominciato oggi.
5 - Fine
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio-dizionario Fascisti immaginari, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, attualmente è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
Le analisi di Giano Accame e di Adriano Romualdi
Storicizzare il '68. Saggio in cinque parti di Luciano Lanna
Parte prima: Sul Sessantotto Pasolini aveva torto
Parte prima: Sul Sessantotto Pasolini aveva torto
Parte seconda: Evola e i Beatles uniti nella lotta
Parte terza: In principio fu la beat generation
Parte quarta: Anche Atreju è un figlio di quel clima
Dal Secolo d'Italia di martedì 16 ottobre 2007
Storicizzare il ’68 è tutt’altro da quel diluvio di celebrazioni che, come sostiene preventivamente Pierluigi Battista, presto ci subisserà «per commemorare sontuosamente il quarantennale del Grande Evento, della data di spartiacque, del mito di fondazione». Storicizzare il ’68 è, infatti, tutt’altro da quella ripetizione del sempre uguale, da quell’imporsi «di un luogo comune indistruttibile che ha fatto di un anno come tanti altri l’Anno Zero della storia contemporanea». E storicizzarlo significa individuarne lo spirito autentico, raccontandolo per quello che è stato realmente e non per inutili sociologie postume. Lo spirito dell’epoca, allora, espresso plasticamente dal testo della Carta della Sorbona, un documento del Maggio francese di matrice situazionista diffuso in quei giorni in tutta Europa. Da quelle 36 tesi parigine emergeva infatti la vera natura del ’68 originario: libertaria, futurista, irriverente, anti-ideologica, fuori dai vecchi schemi: «Nessuno si meravigli del caos delle idee, nessuno ne sorrida, nessuno ne tragga motivo di burla o di gioia. Questo caos è lo stato di emergenza delle idee nuove… Il movimento si crea da se stesso con tutti coloro che vi aderiscono e lascia che ciascuno porti con sé il proprio bagaglio di idee». E ancora: «La bandiera rossa può morire, la bandiera nera [quella degli anarchici, ndr] anche, i pittori si sforzino d’inventare per noi mille bandiere che esprimano la ricerca, lo sforzo, la rivoluzione interiore, l’entusiasmo, l’invenzione».
Era questa, come abbiamo visto sinora, l’anima originaria del ’68: niente che - almeno all’inizio - potesse ricondurre allo spirito ideologico, agli schemi di classe, alla cultura d’apparato, al marxismoleninismo. «A noi studenti che affollavamo a migliaia i cortei – ha ricordato, ad esempio, Leoluca Orlando – poteva capitare, come ci capitò, di essere guidati da un esponente del Fuan». Nello stesso fermento nascevano i primi germi di quell’esperienza che – come ha ricostruito Luigi Amicone in In nome del niente (Rizzoli) – sarebbe poi diventata Comunione e liberazione. Fu infatti nel novembre ’68 che in uno scantinato milanese un gruppetto di ragazzi cattolici creava, per dirla con don Giussani, quel «movimento di comunità cristiana dentro l’università».
E continuando a raccontare (e storicizzare), le sorprese continuano. «Quante vicende inedite e contaminazioni all’Università di Pisa», racconta Mario Bernardi Guardi, allora giovane contestatore “da destra”. Che prosegue: «Quante storie... C’erano sì Massimo D’Alema e Fabio Mussi, ma anche tante e tante altre storie. C’era, ad esempio, Pino Masi, già guardiaspalle di Beppe Niccolai, che se ne va con Adriano Sofri. O Umberto Carpi che arriva da Merano con la fama di fascista e passa alla sinistra. Poi, c’eravamo noi. Intanto, il Fuan, prima evoliano, poi cattolico, grazie alla conversione di Marco Tangheroni, un brillante studioso del Medioevo, stroncato un paio di anni fa dalla malattia mortale. C’era anche il Fronte di Rinnovamento Universitario che spadroneggiava a Lingue, popolata di femmine, grazie al fascino del suo leader, Gianni Benvenuti. Infine noi dell’Orologio: la rivista diretta dall’ex repubblichino Luciano Lucci Chiarissi che aveva sposato l’idea del ’68 come rivolta generazionale e organizzato gruppi qua e là per l’Italia. Organizzammo subito alla Casa dello Studente un riuscitissimo convegno contro quel Trattato di non proliferazione nucleare che, secondo noi, castrava ogni speranza di “iniziativa politica italiana nel tempo europeo”».
Uno dei pochi intellettuali che compresero in presa diretta quanto stesse avvenendo nel ’68 – con tutte le annesse e connesse potenzialità di rinnovamento dell’intero quadro politico-culturale italiano – fu Giano Accame, allora giornalista del Borghese, il quale segnalò subito alla destra i lati positivi con i quali sintonizzarsi di quella rivolta generazionale. Una rivolta – spiegava Accame – «sincera e confusa» e in cui «fermenta un po’ di tutto». E proprio per questo, in un articolo del 29 febbraio 1968, ammoniva la destra politica a fare attenzione a non commettere errori che avrebbero potuto riverlarsi esiziali: «La sinistra – scriveva – se le riesce un certo gioco, può forse svuoltare la destra portandole via i temi che non ha saputo usare». Un’analisi profetica, che – tuttavia – non fu recepita dalla destra politica dell’epoca, preferendo fornire rappresentanza ai ceti e ai gruppi sociali infastiditi dal vento della contestazione. Scrisse Accame all’indomani di quelle scelte: «I missini hanno scaricato a mare i loro giovani, che avevano visto giusto, per andare a caccia di voti preferenziali negli ambienti più ottusi dell’elettorato». La destra partitica si chiudeva infatti nel ghetto di improbabili rappresentanze della maggioranza silenziosa, senza neanche – tra l’altro – ottenere gli sperati ritorni-scorciatoia: alle elezioni del 19 maggio ’68 il Msi perdeva voti scendendo al 4,4 per cento, mentre era il Pci a venire premiato – salendo al 26,9 per cento dei voti – proprio per aver sposato strumentalmente le ragioni dei giovani e del ’68. «E per anni – commenterà Beppe Niccolai – la destra giovanile sparirà dall’università e dalle scuole della Repubblica, veniva cioè sconfitta sul terreno che era sempre stato suo e che avrebbe potuto essere sempre suo». Basti pensare, per fare un solo esempio, che il filosofo Vittorio Mathieu individuerà nell’attualismo di Giovanni Gentile il pensiero teoreticamente più in sintonia con l’idea stessa di “contestazione”.
D’altro canto, tentando di rispondere, “da destra”, alla domanda sul perché la contestazione abbia finito, soprattutto in Italia, per incanalarsi sui binari del marxismo – originariamente del tutto innaturali – il giovane Adriano Romualdi fu lapidario: «Perché dall’altra parte non esisteva più nulla». Ed elaborando, cinque anni dopo gli eventi del Maggio, una prima analisi generale su tutto il fenomeno – in uno scritto, «La rivolta del 1968», apparso il 20 giugno ’73 sul Giornale d’Italia di Alberto Giovannini – lo studioso riconosceva che le manifestazione studentesche agitarono nel profondo le società occidentali e «introdussero una quantità di nuovi elementi nel costume e nel vocabolario dell’Occidente». Nel momento stesso in cui il vento della contestazione, sottolineava Romualdi, iniziò a circolare negli atenei, «l’incendio divampò come un fuoco in un prato d’erba secca. Le organizzazioni universitarie ufficiali, i parlamentini, crollarono da un giorno all’altro e nessuno è stato più in grado di resuscitarle. E anche i gruppi di destra ridotti a montare la guardia ai temi d’un patriottismo invecchiato furono immediatamente travolti». Due, a suo avviso, i fattori di crisi e gli errori di prospettiva: la non-inclusione nel ’68 anche della rivolta cecoslovacca e la miopia della destra politica italiana dell’epoca. «A Praga – scriveva Romualdi – crollò l’altra metà dell’impalcatura ideologica della contestazione. Dopo mesi di retorica antimperialistica, di sproloqui sul Vietnam e sull’America Latina, l’imperialismo mostrava improvvisamente gli artigli, a casa nostra, in Europa…». E il “fallimento” della destra politica diventava palpabile nell’incapacità di non aver saputo «parlare ai giovani un linguaggio all’altezza dei tempi e delle sue stesse tradizioni ideali. Il perbenismo qualunquista e vagamente patriottardo dei fronti tricolori, se esercita un richiamo verso le maggioranze silenziose di impiegati e di pensionati, non fa presa sulla gioventù. Ed è sintomatico – concludeva – come al recupero di voti a destra verificatosi negli ultimi anni non abbia fatto riscontro un recupero del terreno perduto nel mondo giovanile e nelle università…». Bisognerà infatti aspettare la conclusione di un intrero ciclo sino all’esordio degli anni ’80 per riaprire quell’osmosi tra destra, società civile e universo giovanile che porterà a ritrovare la sintonia politica con il proprio tempo. «La mia generazione, che – racconterà nel 1986 Maurizio Gasparri in una testimonianza inserita in Noi rivoluzionari di Adalberto Baldoni – per ragioni anagrafiche non partecipò al ’68, pagò pesantemente gli errori di quella primavera romana…. Dovevamo liberarci dai cliché che ci sovrapponevano alla nostra vera essenza. E tappa dopo tappa, un mondo variegato e un movimento delle idee non dogmatico hanno riconquistato spazi politici e fisici. E nella primavera dell’86, dopo gli errori del ’68 e un lungo esilio siamo finalmente tornati con le nostre insegne nei viali dell’ateneo romano». A storicizzare il ’68, insomma, la destra non ha cominciato oggi.
5 - Fine
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio-dizionario Fascisti immaginari, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, attualmente è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
1 commento:
Blog fatto veramente bene complimenti da un collega.
S.G.
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