venerdì 10 aprile 2009

John Fante insegna: la gente abruzzese non si arrende mai

Dal Secolo d'Italia di venerdì 10 aprile 2009
«La notizia del terremoto dell’Aquila rappresenta per me un grandissimo choc. John Fante amava la nostra terra d’origine e il suo popolo. E anche io». A testimoniare l’amore per l’Abruzzo del grande scrittore italoamericano – nato il 9 aprile del 1909 a Denver, in Colorado, esattamente cento anni fa, e morto nel 1983 a Los Angeles – è il figlio Dan, 63 anni, scrittore anch’egli (nella foto a destra). Ha accolto la notizia della tragedia che ha colpito il capoluogo abruzzese, rimanendone profondamente addolorato, nella sua residenza californiana di Santa Monica. «Due anni fa sono stato a L’Aquila e ricordo una città veramente bella», ha dichiarato. Prima che si scatenasse quel nemico terribile e imprevedibile che Dan ha iniziato a “frequentare” nel 1994. «Ero a Los Angeles quando c’è stato il tremendo terremoto del sesto grado e so cosa siano la paura e la devastazione, i muri che crollano e il rumore di tutti i vetri che vanno in frantumi nell’oscurità, le voci che chiedono aiuto. È un trauma che la mente e il corpo non potranno più dimenticare. Quel che mi rattrista particolarmente è che L’Aquila non è una città nuova come Los Angeles, ma una città antica con tanti edifici fragili. È un giorno triste per i suoi meravigliosi abitanti. Sono vicino a questa gente gentile e generosa con le preghiere mie e delle mia famiglia. In questo difficile momento – conclude – tutto il mondo deve andare in soccorso dell’Aquila».
Appello che avrebbe sottoscritto anche John, scrittore irregolare per vocazione, sempre sopra le righe, irriverente ma tradizionalista, cattolico eppure libertino, profondamente americano quanto intimamente italiano, in grado di raccontare meglio di chiunque altro il mondo degli immigrati abruzzesi negli Stati Uniti. E di farlo con la prosa scoppiettante, sincera e commuovente, che a volte capita di ritrovare anche nelle opere di Dan, quasi si trattasse di un’eredità genetica. Sono molte le somiglianze tra padre e figlio, anche nel vissuto. Entrambi a vent’anni hanno attraversato gli States in autostop senza un dollaro in tasca, abitando in improbabili stanze ammobiliate al limite della fatiscenza, adattandosi a fare i lavori più diversi e umili e alzando un po’ troppo il gomito. Dan si improvviserà venditore porta a porta, tassista, investigatore privato, lavapiatti e, infine, commediografo e poeta. Allo stesso modo, anche John ha avuto il suo periodo dei «ventiquattro lavori, dal fattorino d’albergo allo stivatore». Tutti e due animati da un’unica martellante ossessione: scrivere. «Aprii una valigia e tirai fuori una copia di Fame di Knut Hamsun, era un oggetto conservato gelosamente, sempre con me – confesserà John – dal giorno che lo avevo rubato alla biblioteca di Boulder. Lo avevo letto tante di quelle volte, che potevo recitarlo. Mi sedetti davanti alla macchina da scrivere e mi soffiai sulle dita. Per favore, Dio, non abbandonarmi, per favore, Hamsun, non abbandonarmi». Arrivato a Los Angeles prese in affitto una stanza a Bunker Hill, un quartiere residenziale in collina che fino a qualche anno prima aveva rappresentato il cuore pulsante della città, le cui ville, ormai in rovina, erano ormai ridotte a grandi pensionati popolari. Lì ebbe anche lui il primo incontro ravvicinato con il terremoto, quello che nel 1933 devastò la città degli angeli. Lo racconta in Chiedi alla polvere (1939), il romanzo in gran parte autobiografico che il regista Robert Towne (di stretta osservanza fantiana) ha consacrato in film nel 2006: «Risalii Bunker Hill verso il mio albergo, esaminando uno per uno tutti gli edifici. Le case in legno resistevano al terremoto, oscillavano e si ammaccavano, senza crollare. Quelle in mattoni no. Il terremoto non le aveva lasciate indenni. Ovunque si vedevano muri abbattuti, comignoli sgretolati. Los Angeles era una città maledetta, condannata alla distruzione». Una città che con il tempo si è abituata a convivere con l’incubo di una terra che prende a tremare senza preavviso.
Altra specialità di casa Fante, inoltre, è quella di raccontare i “padri”. Se John metterà al centro del proprio immaginario letterario l’irascibile padre Nick, abruzzese di Torricella Peligna, paesino montano della provincia di Chieti, che nel dicembre del 1901 sbarcò a New York con l’ambizione di diventare «il miglior scalpellino del Colorado», Dan in Angeli a pezzi (Marcos y Marcos, 1999) – il libro che gli aprirà le porte della popolarità in Francia e poi in Europa – narra le vicende di Jonathan, scrittore geniale stritolato dalle grinfie di Hollywood, genitore temuto e ormai minato da un male incurabile. Ovvero null’altro che la parabola del padre. Dopo la tiepida accoglienza di Chiedi alla polvere, infatti, John prese a cimentarsi con la più redditizia attività di sceneggiatore per le Majors. Distrazione fatale per un narratore che finirà per lasciarsi impigrire dai facili guadagni, altrettanto facilmente dissipati nel gioco e nei vizi. «Per molti motivi vorrei non aver lavorato per il cinema – riconobbe tempo dopo – perché tende a rovinare un buono scrittore». Senza considerare che non venne certamente accolto a braccia aperte dal mondo cinematografico. La moglie, la poetessa Joyce Smart, ne spiegò il motivo: «Fante era rimasto indifferente a tutte le cause della sinistra e questo atteggiamento aveva costituito un vero e proprio ostacolo per la sua carriera in un ambiente politicizzato, quale quello della celluloide, che lo aveva avvertito sin dall’inizio come un renitente, un intruso, un infiltrato». Solo molti anni dopo arrivarono i primi risultati: le collaborazioni con Billy Wilder, Alfred Hitchock e altri grandi registi, i viaggi all’estero, la ricchezza definitiva e persino la nomination all’Oscar per l’adattamento sul grande schermo del suo romanzo Full of Live (1952), il più significativo successo di Fante in vita. Dimenticato dai più e divorato dal diabete, Fante verrà riscoperto da Charles Bukowski – folgorato proprio dalla lettura di Chiedi alla polvere, «romanzo scritto con le viscere e per le viscere, con il cuore e per il cuore» – che ne farà ristampare le opere dal suo editore a partire dal 1980, sino a farne un vero e proprio autore di culto per le giovani generazioni post-ideologiche degli anni Ottanta e Novanta.
La “somiglianza” più forte tra padre e figlio, tuttavia, rimane probabilmente proprio l’amore per l’Abruzzo e gli abruzzesi. Sentimento di appartenenza che confinerà troppo a lungo John Fante tra gli scrittori considerati, con imperdonabile sufficienza, “etnici” e, come tali, minori. Sì, perché malgrado l’innegabile talento, rimaneva pur sempre un “dago” – nomignolo spregiativo che fa riferimento al vino rosso dei nostri immigrati a stelle e strisce – ovvero un americano di serie B. E non a caso Dago red è anche il titolo di una antologia di racconti pubblicata da Fante nel ’40 e ristampata nel 2006 da Einaudi.
Ma al cuore, si sa, non si comanda. Quando, appena dopo la seconda guerra mondiale, John – non ancora famoso – viene a sapere dei danni provocati dai bombardamenti nella “sua” Torricella, prende carta e penna e scrive al sindaco del paese abruzzese una lettera dai toni accorati per chiedere notizie dei parenti italiani. La scrive in inglese, perché, pur amando Silone, Pirandello e D’Annunzio, non ha sufficiente confidenza con la nostra lingua. La leggenda vuole che il primo cittadino, per leggere e soprattutto per rispondere, debba farsi tradurre la lettera da una professoressa di Chieti. Nonostante l’attaccamento alla terra dei padri, tuttavia, rimandò a lungo l’idea di visitare il paese dei genitori, anche quando, tra il 1957 e il 1960, ormai ricco e apprezzato ben oltre il nuovo continente, per motivi di lavoro, venne spesso in Europa, soggiornando a Roma e Napoli. Preferiva non rovinare il ricordo che gli avevano consegnato di un Abruzzo rurale, povero ma dignitoso, pieno di montagne e di freddo come il suo Colorado. «Paura – come scrive in Tesoro, qui è tutto una follia. Lettere dall’Europa 1957-1960 (Fazi ’99) – di non trovare gente che mi somigli, gente piccola che, quando fa una casa con tutto l’universo dentro, è capace di resistere pure al Diluvio Universale. Se là invece trovo una pompa di benzina e le luci al neon, il bar all’americana e niente uomini come mio padre, è troppo il rischio di rovinare un paesaggio…». E il paesaggio “umano” dell’Abruzzo – sia pure devastato dal terremoto – è rimasto esattamente lo stesso. Decorosi e fieri, gli abruzzesi in questo momento sono vinti ma non sconfitti. Proprio come Bruno Dante, l’alter ego letterario di Dan Fante, e Arturo Bandini, quello di John, protagonista di una vera e propria “saga”: Aspetta primavera, Bandini, Chiedi alla polvere, Sogni di Bunker Hiller e La strada per Los Angeles. Figlio di immigrati abruzzesi, Arturo è un perdente ma più il destino sembra avverso maggiore è la voglia di rialzarsi. Tante ne prende e altrettante ne restituisce, con gli interessi. Perché in cuor suo sa di avere diritto a un futuro, proprio come quello cui l’Abruzzo non ha nessuna intenzione di rinunciare.

Altri articoli miei su John Fante:
Il riscatto postumo di un italo-americano (Ideazione, marzo/aprile 2004)

1 commento:

Anonimo ha detto...

Gran bell'articolo...Prego chiunque possa di pubblicare qualche video o contrinuto di altro genere tratto dal festival letterario "il dio di mio padre" edizione 2009, qualora ne fosse in possesso...Grazie