lunedì 31 maggio 2010

Quando Ian Curtis decise di farla finita sulle note di Iggy Pop (di Domenico Paris)

Articolo di Domenico Paris
Da l'Occidentale del 30 maggio 2010

Una cucina, le stoviglie impilate alla meno peggio nel lavello. La luce scivola liquida dalla plafoniera, accarezzando i muri e il vecchio orologio a pendolo. Dalla finestra, si vede il giorno che sta per spuntare dietro l’orizzonte sporcato dalla solita pioggia e dalle nuvole gonfie che oscurano il cielo. Sul pavimento, il cane di pelouche della piccola Nathalie giace morbido su un fianco. Strano che la bimba sia uscita senza, ma, d’altronde, che importa?

Tiro fuori la lavatrice dal fortino dei mobili impilati alla parete. La muovo piano fino al centro della stanza, facendo attenzione a non staccare il tubo di scarico (ci mancherebbe!). Ecco, così: perfettamente in mezzo. Salgo sopra, piano, un passo alla volta per non cadere. Bene. La corda penzola dalla trave con oscillazioni minime. La stringo in un pugno per testarne la tenuta. Tiene. Mi terrà. Faccio il nodo con cura e me la provo intorno al collo. Stringo forte, fino a sentire i filamenti ruvidi della canapa che si intrudono nella pelle. Sì, ci siamo. Mi libero dalla stretta e scendo.

Tutto pronto, ormai. Quel che resta da fare è solo aspettare. Sì, okay, la decisione è presa, ma dopo quel che è stato - e più non sarà - ho bisogno di un’ispirazione come si deve. Dopo averlo cantato tante volte sui palchi inglesi e di mezza Europa, voglio sentirlo in tutta la sua forza, in tutta la sua essenza il momento che arriva. La fine è una firma da sprecarci anche due ghirigori in più, se serve. Ed io me lo sarò anche meritato un epitaffio come si deve, no? Anche se farò piangere tante persone. Anche se mi chiamo Ian Curtis e non ho ancora 24 anni. Anche se tra due giorni sarei dovuto partire con gli altri della band per il nostro primo tour negli Stati Uniti d’America. È che… basta, non voglio più tornarci.

Quello che servirebbe ora sono soltanto dei titoli di coda degni della circostanza. Nessun problema: prima di rientrare, sono stato al cinema a vedere La ballata di Stroszek e conservo nitide nella mente le immagini che ho avuto davanti agli occhi. Nere, perfettamente funebri. La migliore traduzione visiva dell’inferno che sento dentro. Rimane da sistemare il dettaglio dell’audio, ma se ci penso giusto un attimo, ho la soluzione a pochi metri di distanza. Vado in sala e metto sul piatto dello stereo The Idiot.

Sì, credo proprio che l’assalto sonoro del vecchio Iggy sia il requiem migliore che potessi sperare. L’ho amato così tanto! Aspetto che la musica prenda quota e mi abbandono alla danza folle che sembra avermi reso famoso un po’ ovunque. La cosa buffa - fino a un certo punto, però - è che la maggior parte della gente che viene ai nostri concerti non sa, non immagina che dietro questo mio apparente dimenarmi senza tregua ci siano degli spaventosi attacchi di epilessia. Mi si scambia, mi si è scambiato, per un eccezionale performer, un animale da palco che nessuno può tenere a bada, quando invece tutto quel che ho fatto non è stato altro che esorcizzare la sofferenza, cercando di scaricarla su ogni singola cellula e andare avanti, avanti.

Mah, meglio così, forse. Meglio venir ricordato come una specie di serpente in delirio che canta, piuttosto che come un incosciente che sfida il proprio male per elemosinare comprensione. Se c’è una cosa che non ho mai sopportato in questo mio passaggio sulla terra, è proprio questo: l’ipocrisia da quattro soldi che spinge le persone ad appestare con la propria sofferenza le vite degli altri. Centomila volte meglio lasciarsi consumare dal proprio dolore, dal cupio dissolvi, piuttosto che rubacchiare al destino un giorno ancora e trascinare la farsa della propria comparsa a tutti i costi (aspettando chissà cosa). No, io non sono così. Davvero, non lo sono mai stato.

Chi mi conosce, sa che in questi anni non ho scherzato neanche un secondo. Da quando i Joy Division si chiamavano ancora Warsaw e non erano che quattro ventenni incapaci di attaccare e finire insieme un brano, Ian Curtis non è cambiato di una virgola. Mai mi è passato per la mente di volere assurgere allo status di profeta generazionale o, peggio ancora, di simbolo attraverso il quale interpretare e decodificare un male comune. Mia, solo mia è stata quella sofferenza che ho tirato fuori per lo show. E tale deve rimanere. Non ho e non ho mai avuto niente da insegnare a nessuno, ma solo la nuda, innocente consapevolezza di dover raccontare la mia dignità di animale sofferente e ferito per sentirmi vivo fino a quando era lecito esserlo. Oltre, c’è un limite al di là del quale ci si riduce alla più spregevole delle pantomime. Un limite oltre il quale tutto quello che ci si incaponisce ad aggiungere non fa che screditare la bontà e la bellezza di quello che si è stati in grado di creare.

È per questo che ho deciso di farla finita. Non voglio diventare una macchina, non voglio diventare l’ennesima rockstar da trascinare in giro per il mondo, in giro tra la gente, ad inscenare spettacolini senza valore per gonfiare il portafoglio di qualcuno. E mi rifiuto, categoricamente, di continuare a far male alla mia famiglia, alle donne della mia vita, accampando la scusa delle mie pene. So che la piccola Nathalie, quando sarà grande, non riuscirà a capirmi fino in fondo (lo spero, soprattutto). Forse per lei sarò soltanto quel papà che l’ha abbandonata e se n’è andato via senza lasciar dietro niente. Mi piacerebbe poterle spiegare, invece, che quello che sto per fare sarà stato un atto necessario per consegnarle un’esistenza da vivere in pace, senza la sofferenza continua di dover fronteggiare le cadute e gli inferni di un uomo che ha toccato il fondo più estremo ed è incapace di risalire.

Deve essere mia, solo mia, la nave che affonda. Dovunque andrò, dovrà essere soltanto il mio quel cadavere che mi porterò dietro. E mia, soltanto mia la perdita definitiva di senso e di ragioni che mi spinge a dare le spalle al futuro. Vivi serena, bambina mia. Quando capirai appieno, spero potrai perdonare e scacciare il mio fantasma nell’angolo più remoto e polveroso della tua anima, assaporando estasiata ogni istante che il destino ti vorrà regalare. E lo stesso valga anche per te, Deborah. Quando decisi di andarmene, di fuggire con Annik, non era soltanto la nostra storia ad essere finita, ma io.

Tu lo sai, l’hai sempre saputo che non ce l’avrei fatta ad ingannarti, neanche un secondo. Continuare a provarci, continuare a far finta ci avrebbe fatto ancora più male. E avrebbe inficiato quella congiunzione di anime che per tanto tempo ci aveva tenuto così vicini, seppur tra mille problemi, ed era stata così unica da renderci felici. Ero già morto, tesoro. E non speravo certo che lei, invece che te, avrebbe potuto salvarmi. Non c’è salvezza, Debbie. Non ci si può fare niente. Love will tear us apart. L’Amore ci farà a pezzi. Ti ho amato, senza risparmiare un leptone di sentimento, ma ne ho pagato tutte le conseguenze e sono rimasto frantumato. Definitivamente sconfitto. “Le emozioni non cresceranno e noi stiamo cambiando i nostri modi di pensare, scegliendo strade differenti”.

È così che è andata, Debbie. Questa è la Verità, il definitivo approdo intellettuale e sentimentale -umano, in una parola- al quale sono arrivato e oltre il quale non so più andare. Capisci da sola che ormai siamo rimasti così, terribilmente lontani, e non è il caso, neanche un tentativo di più, di cercare impossibili ricongiunzioni con il rischio che tu poi possa stare ancora più male. Non è colpa di nessuno, cerca di andare avanti.

Sento che sto per avere un attacco. Devo sbrigarmi, non voglio morire rantolando sul pavimento o, peggio ancora, lottare qualche altro interminabile minuto con la vita e sfangarmela per l’ennesima volta con l’ennesimo pezzo di cuore in meno. Spengo lo stereo e le luci, e ripongo l’ellepì nella sua copertina. Me ne torno in cucina. Dalla finestra si vede il primo timido flash del mattino che cerca di bucare la cappa di grigio. Salgo sulla lavatrice e, nonostante gli spasmi incipienti, riesco a non inciampare. Mi rimetto il cappio intorno al collo e stringo. Rimane giusto un istante per guardarsi intorno nel semibuio della stanza e abbandonare gli ultimi pensieri al nuovo giorno. Ciao Bernard, ciao Peter, ciao Stephen. Non me ne vogliate. Ciao Annik. Non volevo ferirti. Addio Debbie, addio Nathalie. Dimenticate senza odiarmi.

Poi sto saltando.

domenica 30 maggio 2010

Ian Curtis, quel ragazzo triste che scelse una canzone per farla finita... (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 30 maggio 2010

Sei un artista: vedi cose che agli altri sfuggono e poi ti rimangono dentro, come nuvole che tornano troppo spesso e che troppo spesso si gonfiano di pioggia. Temporali che non ripuliscono il cielo. Tempeste che seminano la paura e promettono la distruzione – e anche se non sempre mantengono la promessa ne rinnovano sempre la minaccia, così da impedirti di scordare che in seguito quelle ombre scure torneranno di nuovo. E tu sarai ancora meno pronto di adesso. E il vento si accanirà. Sfiderà le cose a resistere. Le piante a restare avvinte al suolo. I marinai a tornare in porto sani e salvi. I bambini a non tremare.
Sei un ragazzo: qualcuno – quasi sicuramente di un’altra generazione – direbbe un giovane uomo, visto che a 23 anni hai una moglie e una figlia. Gli adulti fanno così: sono pieni di categorie prestabilite e le usano senza nemmeno pensarci. Forse è proprio questo, che li rende “adulti”. Non nel senso che sono grandi. Nel senso che non sono più giovani. Che si dimenticano di esserlo stati. O non ci fanno più caso. Gli adulti sono così. Sono gli individui che hanno preso le loro vite, che un tempo zampillavano come sorgenti e correvano come torrenti, e le hanno incanalate dove serviva. Quell’esuberanza selvaggia poteva anche essere affascinante, ma in fin dei conti non aveva alcuno scopo. Adesso quell’acqua si riversa in un invaso progettato accuratamente. Grazie a un muro enorme, il muro grandioso della diga, quell’acqua smette di essere inutile e si trasforma in elettricità. Qualcosa che aiuta le persone. Le industrie. La società.
Sei un artista. Sei il cantante dei Joy Division. Il primo di cui ci si chiede il nome, quando lo si sente in un disco. Quello che balza all’occhio nei concerti. Quello di cui si finisce sempre col domandarsi se un giorno o l’altro non se ne andrà, rendendo chiaro che gli altri del gruppo, in fondo, erano solo i suoi accompagnatori del momento. Bravi, magari, ma per nulla indispensabili. Comprimari che potrebbero restare all’infinito o essere sostituiti domattina, senza che nessuno se ne faccia un gran cruccio. I Joy Division? Sono la band di Ian Curtis. Chi sono gli altri tre? Aspetta, ci devo pensare.
Sei un ragazzo. Uno che continua a esserlo, e che guarda il suo tempo che passa come una cosa che non lo riguarda del tutto. Strana cosa, questa dell’età. È come se ti contassero le volte che esci di casa e te ne vai in giro, e arrivati a cinquecento o a mille (o a 365?) suonassero un gong e ti dicessero che hai completato un altro giro di giostra, aspettandosi che tu ne prenda atto senza fare storie. Attenzione, Ian Curtis: sappi, se già non lo sai, che in base alle statistiche ti spettano un’ottantina di questi giri, salvo incidenti imprevedibili e malattie senza scampo. Attenzione, giovane Ian. Non sei più tanto giovane. Trovati un lavoro. Un posto nel mondo. Smettila di credere che ogni giorno si possa riempire in modo diverso. Che ogni giorno possa portare sorprese e scoperte. Che la festa si svolga sempre a casa d’altri, dove tu sei l’invitato che arriva, si ferma quanto gli pare e alla fine se ne va. Riordinare? Pulire? Ci penseranno loro. Io sono solo di passaggio.
Sei un artista. Sei quello che scrive i testi. Quello che coi suoi versi disegna la faccia del gruppo. La sua identità. Il suo personaggio. Le canzoni non sono quasi mai al plurale, nemmeno quando sembra di sì. Le canzoni sono le storie, le emozioni, il mondo interiore di una singola persona, anche quando parlano a nome di tanti. Joy Division è un tipo allampanato e nervoso. Una figura che mancava. Una presenza che appare e scompare, ma che se l’hai incontrata una volta ti induce a ricordarla a lungo. È un viaggiatore inquieto che viene da chissà dove e che porta uno strano nome. Probabilmente inventato. Certamente paradossale: dove sarebbe, la gioia, nelle parole che canta?
Sei un ragazzo. Deborah (Debbie) è diventata tua moglie. Fino a un attimo prima eravate soltanto due che stavano insieme perché gli andava che fosse così. Poi c’è stata quella volta che vi siete vestiti bene e avete invitato un po’ di amici e di parenti e vi siete ritrovati tutti nella chiesa di St. Thomas. Una messinscena un po’ stramba, se la vedi da fuori, ma a suo modo suggestiva. “Matrimonio”, la chiamano. Dicono che è una cosa importante. Dicono (ah ah ah) che i due protagonisti di quel piccolo show sono sposati e che devono restare insieme per sempre.
Sei un artista. Sei un ragazzo. Sei stanco. I più pensano che ti sbagli e che non dovresti prendertela tanto. L’idea generale è che dovresti essere più sereno, o addirittura felice, adesso che state avendo successo. L’idea generale è che quello che si canta non deve mica essere vero. Un conto è quello che si scrive. Un altro è la vita vera. Il momento della creazione – quello in cui vengono a galla le parole più amare, più sofferte, più disperate – deve restare appunto un momento. Una discesa negli abissi che presuppone un’immancabile risalita. Una specie di lavoro, che sarà anche duro e impegnativo ma che in fin dei conti è anche ben pagato, se lo fai come si deve.
Sei a casa tua. Sei da solo. È la notte tra il 17 e il 18 maggio del 1980. Tra un sabato e una domenica. Con Debbie è praticamente finita, anche se ci sono stati (e probabilmente ci saranno) dei riavvicinamenti occasionali. Come ieri sera, ad esempio. Le hai chiesto di restare a dormire con te e lei ha detto di sì. Ha avvisato i genitori che non sarebbe rientrata. Ma poi hai cambiato idea. Vai pure, Debbie. Preferisco restare solo. Ho il treno domani mattina alle dieci. Torna quando vuoi, dopo quell’ora. Lei non ha fatto storie, perché è abituata ai tuoi cambi di umore. Perché lo sa, che sei fatto così. Ed è così che succede: che qualcuno insiste troppo, e qualcun altro troppo poco. Succede che la casa è vuota. E che prendi uno dei tuoi dischi preferiti, The Idiot di Iggy Pop, e ti metti ad ascoltarlo. Come una sigla di chiusura. Come la musica dei titoli di coda. Succede che prendi la corda e la fissi a una rastrelliera della cucina. E se anche te lo dicessero, se anche te lo giurassero, che questa domenica sarà una splendida giornata di sole e di cielo azzurro, come in effetti sarà, penseresti che ne sei davvero lieto. Ma non per te. Per quelli che restano.


Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.

sabato 29 maggio 2010

Edoardo Bennato, quel Peter Pan della musica vola da 30 anni (di Marco Iacona)

Articolo di Marco Iacona
Dal Secolo d'Italia di sabato 29 maggio 2010
Edoardo Bennato appartiene a tutti noi. Ai giovani cioè che fra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta vissero il passaggio fra due epoche. Per molte ragioni opposte. Con la sua ironica dissacrazione - che aveva eguali solo in Rino Gaetano - con la sua filosofia da compagnone di emozioni, Bennato compose la colonna sonora di una generazione unica che abbinava la spensieratezza emergente alle punte di una riflessione che si chiamava impegno.
Al volgere di un'era da Saturday night fever, burlandosi del potere e ribellandosi con divertimento il cantautore napoletano seppe colpirci con ironia; seppe andare a braccetto con le fiabe che reinventò per chi era ai margini dei supplementari delle ideologie. Fece sorridere e cantare insieme, perché fu al di là dei "tempi tristi" o degli sballi "necessari". Fu un amico che stava nel mondo e ci invitava allo stesso tempo a fuggirne. Adesso che l'acme del suo grandioso successo ha compiuto trent'anni - tre decenni fa usciva infatti il suo album più famoso, Sono solo canzonette - lo vogliamo ricordare come parte fondante la nostra idea di giovinezza. Bennato ha rappresentato l'artista impostosi grazie all'originalità delle composizioni; un anticonformista che "c'era" e non "ci faceva", parafrasando una frase - riferita ad altri - di Renzo Arbore, che fu fra i primi a lanciarlo in radio durante "Alto Gradimento". Se non possiamo non definirci ammiratori di Rino Gaetano, non possiamo non dirci anche bennatiani. Spulciando la biografia di questo sessantenne Peter Pan, ci accorgiamo che la strada che lo condusse alla notorietà all'inizio dei Settanta era battuta da nobili presenze. Perché perfino in un mondo - quello dello spettacolo leggero e della canzone - ove tutto sembra casuale o artificiale, due più due fa sempre quattro e i bilanci sono lo specchio di una carriera affrontata con le qualità opportune. Come tutti i cantanti cresciuti nei Cinquanta-Sessanta l'influsso della musica oltreoceano fu decisivo per la carriera del giovane napoletano che rimase affascinato dal grandissimo Chuck Berry, da Jimmy Smith e dal suo organo "Hammond", da Paul Anka, fra parentesi autore di My Way, da Neil Sedaka e da chi - si tratti di Renato Carosone o Peppino di Capri - guardava al nuovo mondo con qualcosa di più di un semplice interesse. Nessuno potrà mai negare la somiglianza fisica fra Bennato e Bob Dylan dovuta anche all'utilizzo dell'armonica durante le esecuzioni dei brani. A parte la mamma (che lo sostenne fin da ragazzo e alla quale il cantautore napoletano dedicherà una delle sue canzoni più belle e ascoltate: Viva la mamma), nel suo destino di artista entrano molto presto pezzi grossi come il discografico e talent scout Vincenzo Micocci - il "Vincenzo" della canzone Milano e Vincenzo di Alberto Fortis, Herbert Pagani, uno degli autori prediletti da Dalida, con cui collaborò alla fine dei Sessanta, Bruno Lauzi, Bobby Solo, Alessio Colombini e Mogol che lo metterà sotto contratto per la casa discografica "Numero Uno".
Qui Bennato incide tre 45 giri, fra i quali il primo completamente suo, testo e musica, (Goodbye Copenaghen) e nel '70 una cover di 1941 brano di Harry Nilsson cantautore newyorkese che vantava collaborazioni con John Lennon ed era autore di The Point, una deliziosa fiaba in musica (trasmessa dalla Rai in anni di comuni splendori) con la voce narrante di Ringo Starr.
Se insieme al fratello Eugenio aveva dato vita al secondo 45 giri della sua carriera (Marylou - 1969), grazie a Patrizio Trampetti anch'egli della "Nuova Compagnia di Canto Popolare", Bennato pubblica Un giorno credi. Nasce così un brano che potremmo definire dolceamaro e "filosofico" (nulla di astruso ma tanto, tanto di emozionante), che rimane fra le canzoni più note di sempre. Una di quelle melodie pronte a convincerci che i filosofi (in senso lato per carità), quelli che come diceva Manlio Sgalambro riescono ancora a comunicare qualcosa, oggi si chiamano Edoardo Bennato, Adriano Celentano, Fabrizio e Andrè e pochi altri. Un successo mai diventato singolo ma che Bennato inserisce nei primi due Ellepì, Non farti cadere le braccia (1973) e I buoni e i cattivi (1974) come manifesto di una nuova sensibilità melodica. Siamo così all'inizio della scalata al successo.
La nostra generazione ha un preciso ricordo delle copertine dei 33 giri di Bennato, essa è testimone di un successo che può facilmente definirsi "integrale". Musica, parole e grafica, qualsiasi cosa è servita costruire la buona riuscita dei "concept album" di Bennato (dischi che possiedono un filo conduttore unico, una storiella con tanti capitoli divisi in più tracce), fra i più noti insieme a quelli di De Andrè. Prendiamo per esempio I buoni e i cattivi ove Bennato celebra, sempre con ironia, il proprio relativismo etico. In copertina stanno due carabinieri di spalle (uno dei due è lo stesso Bennato), ammanettati fra di loro; la metafora è chiara: impossibile distinguere fra buoni e cattivi, impossibile perché chi detiene il potere in qualunque ambito lo eserciti stabilirà che solo i propri sono valori "buoni" mentre gli altri - tutti gli altri - sono "cattivi". Colpisce di questo 33 giri la bellissima In fila per tre, un manifesto della ribellione giovanile che non sfigura affatto accanto ai migliori brani di Giorgio Gaber e dello stesso Faber- De Andrè.
Nel 1975 e nel '76 escono rispettivamente Io che non sono l'Imperatore e La torre di Babele due ellepì che definire capolavori non sarebbe azzardato. Capolavori di tecnica musicale (lato sensu), dove Bennato "elettrizza" e ravviva la tradizione cantautorale e italiana sposandola ai ritmi d'oltreoceano dal rock al blues, per fare qualche nome: alle chitarre troviamo Shel Shapiro ex leader dei Rokes e Roberto Ciotti, al violino Lucio Fabbri, alla batteria David Walter dei "Libra". Il primo dei due dischi verrà anticipato da un altro 45 immortale Meno male che adesso non c'è Nerone, e da alcuni raccontini di vena surreale che il Nostro pubblicherà sul settimanale Ciao 2001. Si tratta di dischi straordinari pubblicati in periodi "straordinari". Ironia e sarcasmo, critica del potere (non si salva neanche il papa) e note autobiografiche è un mix che solo a tratti sconfina in quell'impegno sociale che nulla concede al gusto del cantante alla moda. Si riascolti per esempio Cantautore, un brano che si fa beffe dei musicisti "impegnati" e del piedistallo sul quali i giovani issano i loro beniamini. Nel secondo dei due ellepì spicca ancora la bellissima copertina antimilitarista ideata dallo stesso autore. Insomma un mix ideologico trasversale e politicamente scorretto, sulla scia di un'attitudine all'eresia che recentemente è sfociata anche in dichiarazioni che hanno fatto tremare i polsi ai benpensanti: «C'è un cancro che mina la nazione e molta gente individua in polizia, carabinieri e guardia di finanza gli strumenti del tiranno. L'Italia è preda del caos e chi vuole governarlo rischia di farsi male, come è accaduto da Mussolini a Craxi». Ma torniamo alla fine degli anni Settanta.

Siamo al clou. Nel 1977 e nel 1980 - dunque trent'anni fa - escono gli album più noti di Bennato, quelli dedicati a due fiabe, "Pinocchio" (Burattino senza fili) e "Peter Pan" (Sono solo canzonette), che meglio di tutti ne caratterizzano lo stile musicale e del testo. Oggi appare chiaro quanto fosse possibile che la vena surreale del cantautore napoletano - ironica e apparentemente mai triste - potesse sfociare nel "racconto" vero e proprio d'ispirazione fiabesca. Nella fantasia delle fiabe sono riassunti con umorismo leggero i temi della grande storia dell'uomo, le questioni della verità e della menzogna e dei cosiddetti mondi possibili e/o paralleli. Tutti argomenti, inutile dirlo, cari a Edoardo Bennato. Fra i due 33 giri, però (e incredibilmente appena quindici giorni prima l'uscita del secondo), c'è un colpo di scena. Bennato pubblica Uffa! Uffa! (1980), che rimane l'omaggio maggiore alla sua vena surreale. È un ellepì apparentemente con poco senso, strambo più che strano, dissacratore come quasi nessuno, frutto di autentici momenti di creatività, autoironico, per certi versi anche fuori dal tempo, il cui scopo è dimostrare quanto le logiche del mercato (che vogliono un disco per volta per ogni autore), siano completamente false.
Ma nel frattempo, nel '77, è uscito Burattino senza fili (a nostra memoria pochi i successi accostabili al quinto ellepì del napoletano), che è una sorta di nobile baricentro fra il Bennato precedente e quello successivo. I temi sono sempre quelli: l'esistenza di verità diverse, i mille volti del potere (si ascolti per esempio: Dotti, medici e sapienti), le maschere e le costrizioni della società (È stata tua la colpa). Le melodie in rima sono indimenticabili. Riconoscibile qualche nota di un pessimismo che sarà la colonna sonora dei momenti grigi della società dei Settanta.
Un pessimismo reso però più dolce dalla spontanea gaiezza dei giovani che non volevano arrendersi a un futuro già scritto: un cocktail di allegra sincerità mai più riuscito. E forse proprio a quei giovani - magari senza neanche esserne pienamente coscienti - Bennato, oramai divenuto il nostro compagno di giochi, dedicherà il suo album principe del 1980, Sono solo canzonette, un album "libero", eclettico (dal rock all'opera lirica), a testimoniare un elogio sincero della fantasia in tandem con la condanna della prassi violenta.

Sarà questo disco che, alternandosi in vetta alle classifiche di vendite con Uffa!Uffa! e con un pilastro della storia della musica come The Wall dei Pink Floyd, chiuderà un'intera stagione per il grande Bennato (forse in parte riuscirà a ripetersi col successivo fiabesco ma più "moderno": È arrivato un bastimento - 1983). Un capitolo successivo del disimpegno, insieme alle nuove frontiere della musica elettronica stanno infatti già creando nuovi gusti. È finalmente cominciata una nuova era musicale e a trent'anni Bennato è già entrato nella storia.

Marco Iacona è dottore di ricerca in "Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee". Si occupa di storia del Novecento. Scrive tra l'altro per il bimestrale "Nuova storia contemporanea", il quotidiano "Secolo d'Italia" e il trimestrale "la Destra delle libertà". Per il quotidiano di An nel 2006 ha pubblicato una storia del Msi in 12 puntate. Ha curato saggi per Ar e Controcorrente edizioni. Nel 2008 ha pubblicato: 1968. Le origini della contestazione" globale(Solfanelli) e Il maestro della tradizione. Dialoghi su Julius Evola (Controcorrente). Nel 2009 ha pubblicato, sempre per Solfanelli, La politica coloniale del Regno d'Italia 1882-1922 (96 pp. € 8)

giovedì 27 maggio 2010

Ancora Rolling Stones, La sarabanda rock degli anni settanta (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 23 maggio 2010
Ma certo che è un'operazione di marketing: il solito collaudatissimo trucco del vecchio album che giace negli archivi e che viene riproposto (rimasterizzato, oh yes!) in una veste tutta nuova, che a colpi di contenuti aggiuntivi, e più o meno superflui, moltiplica l'originale in una serie di varianti sempre più "de luxe" - e sempre più costose, essendo risaputo che i fan sono pronti a tutto e che gli impresari e i manager non fanno niente per niente. A settembre dell'anno scorso era toccata ai Beatles: l'intera discografia riverniciata da cima a fondo da tecnici di prim'ordine e, sia pure nella totale indifferenza di Paul McCartney e Ringo Starr, immessa sul mercato come se si trattasse non solo di aver lucidato la superficie ma di aver scoperto nuove meraviglie che erano rimaste nascoste sotto l'imperfetto assemblaggio di un tempo. Il miglioramento tecnico, a dare retta al battage, che si innalza ad arricchimento artistico. Eccolo, il "vero" suono dei Beatles. Quello che nessuno, compresi loro stessi, aveva mai avuto modo di sentire...

Nel caso dei Rolling Stones, se non altro, l'operazione è circoscritta a un solo album e l'imbonimento è meno pretenzioso. Inoltre, visto che il gruppo è tuttora in attività e nel corso dei decenni ha accumulato più sbandate che accelerazioni, la scelta di recuperare uno dei dischi più importanti del loro primo periodo è del tutto legittima. Exile on Main Street, pubblicato nel maggio del 1972, è davvero un concentrato di ciò di cui erano capaci gli Stones dell'epoca. Già incardinati sull'asse Richards/Jagger, ma ancora lontani dall'aver trasformato la leadership in dittatura assoluta. E l'impronta creativa in un marchio di fabbrica. L'organico è quello classico a cinque, con la seconda chitarra momentaneamente nelle mani di Mick Taylor e la sezione ritmica che rimane affidata al basso di Bill Wyman e alla batteria di Charlie Watts. Ma i collaboratori esterni abbondano. E soprattutto, per fortuna, abbondano le digressioni in ambiti diversi, facilitate dal fatto che per la prima volta l'album è doppio e lo spazio a disposizione, quindi, consente di arrivare a oltre un'ora di musica.


Il risultato è una sfilata, una giostra, una sarabanda da diciotto brani. Per gli appassionati (o i maniaci) della catalogazione è un problema insolubile: una definizione sola non basta e allora se ne accostano una serie, "unificate" dall'immancabile richiamo al rock. Blues rock, Hard rock, Pop rock, Rock and roll. La tentazione è inevitabile, ma è figlia di un'abitudine che bisognerebbe imparare a tenere a bada. Le etichette appiattiscono. Vorrebbero dire tutto in un colpo solo, ma finisce che dicono solo tutto quello che non serve. O che non basta. Fissano i punti cardinali. A volte, non sempre, precisano l'esatta latitudine o longitudine. Okay. È indubbiamente utile sapere dove ci si trova. Può essere persino bello, per la sensazione di potere e di controllo che ti trasmette. Ma è mille volte meglio viaggiare, che limitarsi a riordinare le mappe. Mille volte meglio attraversarlo davvero, quel tratto di mare o di terra, che accanirsi a enumerare le coordinate dei percorsi tracciati da altri.
Infatti. Per chi se ne infischia della teoria e ha solo voglia di partecipare alla festa, quella varietà e quell'abbondanza sono un'occasione da prendere al volo. Un autentico spasso. Una serata da ricordare, e da rinnovare appena possibile. La casa è grande e piena di stanze, di corridoi che restano accoglienti anche quando non c'è nessuno, di scale che invitano a salire al piano superiore, da cui arrivano i suoni più avvolgenti delle "quasi ballate", o a scendere giù in cantina, dove ci danno dentro col repertorio più ritmato. La certezza è che dovunque si vada a finire, aggirandosi di qua e di là, qualcosa di buono e di interessante lo si troverà senz'altro. Anche senza saperlo, che questi 67 minuti sono il frutto di un lavoro che è proseguito per alcuni mesi e che si è svolto quasi completamente in una villa sulla Costa Azzurra, anziché in uno studio di registrazione affittato ad hoc, la sua matrice "domestica" balza all'occhio. Si intuisce l'andirivieni di gente (di artisti) senza orario. Si percepisce che non c'è stata nessuna fretta di arrivare alla conclusione. Non è mica un cantiere, con l'architetto che sa già tutto e il capomastro che trasmette gli ordini agli operai, ancorché valenti, che dovranno concretizzare quelle belle linee disegnate su un foglio. È un festival a porte chiuse, ma col palco perennemente allestito e sempre pronto ad accogliere chiunque abbia anche solo una mezza idea da proporre. È un esperimento che si può permettere il lusso di prendersela comoda. Sono tutte persone di talento, più che professionisti a contratto. Te lo dico io, amico. Qualcosa succederà, se gli dai il tempo di succedere. E il problema non è mai sbagliare strada. Il problema è se non sai riconoscere quella giusta quando finalmente ci arrivi, al primo tentativo o al millesimo.

Keith Richards, e non solo lui, si riempie di eroina e si stordisce di conseguenza, ma per quanto lunghe e ripetute quelle sue "assenze" sono pur sempre delle parentesi tra una consapevolezza e l'altra. L'istinto e il gusto, in lui, sono talmente radicati da restare comunque protetti. E infatti non lo abbandonano. Exile on Main Street è un album che ancora oggi mantiene inalterata la sua forza e il suo fascino. Anzi: semmai li accresce, stante la perdita di vitalità che si è prodotta da allora a oggi - e non certo solo in ambito musicale. Subissati come siamo di produzioni tanto accurate quanto insignificanti, e di pezzi che nessuno si sognerebbe di incidere se non fosse che spera di trovare qualcuno talmente sciocco da comprarli, immergersi nel suono "sporco" degli Stones è un piacere assoluto. E un'esperienza rigenerante. La loro ultima preoccupazione è di essere inappuntabili e di piacere a tutti. Il loro obiettivo è fare quello che vogliono, in questo specifico momento che è di per se stesso irripetibile (e che se non sarà vissuto pienamente non mancherà di fartelo pesare, un giorno o l'altro), e di vedere se c'è qualcuno che sa almeno tenere il tempo o anche solo divertirsi. Se proprio non ha ancora imparato, o non imparerà mai, a suonare a sua volta e a fare altrettanto.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.

sabato 22 maggio 2010

Sessant'anni fa gli universitari di destra crearono il Fuan (di Luciano Lanna)


Formidabili gli anni di "quella" politica tra libri, esami e jazz
Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di venerdì 20 maggio 2010
Uno dei luoghi comuni sulla classe dirigente del secondo Novecento italiano è quello sulla sua formazione quasi eslusivamente dallle file dell'Ugi, l'Unione goliardica italiana di matrice laico-libertaria e risorgimentale, oppure da quelle dell'Intesa cattolica, sorta nel dopoguerra dagli universitari di matrice cristiana. Ma che le cose diano un po' più complesse è stato recentemente costretto ad ammetterlo anche un giornalista proveniente dall'Ugi come Vittorio Emiliani quando, nel suo libro Vitelloni e giacobini (edito da Donzelli), scrive che dal Fuan, l'organizzazione degli universitari di destra, «sono usciti parlamentari come Raffaele Delfino, pescarese, Giulio Caradonna, romano, Angelo Nicosia, siciliano, Tomaso Staiti di Cuddia, di famiglia siciliana anch'egli, eletto però a Milano, Benito Paolone, universitario di Catania, e Francesco (Ciccio) Franco, studente a Messina, eletto senatore nel 1972 dopo aver capeggiato la rivolta di Reggio Calabria del 1970 al grido di "boia chi molla"». Un piccolo riconoscimento che si aggiunge, sempre da parte di Emiliani, al ricordo della partecipazione degli studenti del Fuan al Congresso nazionale di Rimini di tutte le associazioni universitarie italiane.
La questione torna d'attualità perché proprio oggi ricorrono i sessant'anni della fondazione del Fronte universitario di azione nazionale (Fuan), al termine di una due-giorni (20 e 21 maggio 1950) in cui oltre a delegati del mondo studentesco di destra arrivati da tutta Italia intervennero anche personalità di primo piano della cultura, da Ardengo Soffici a Guido Manacorda, da Alberto Asquini a Titta Madia, da Gioacchino Volpe a Balbino Giuliano. Non solo: un giovane dirigente del gruppo romano del Fuan-Caravella, Walter Gentili, convince Giorgio de Chirico, il pittore della metafisica, a realizzare un bozzetto per il simbolo dell'organizzazione. E l'artista disegna le teste affiancate di Dante, Petrarca e Virgilio. Ora, a parte il fatto che il disegno di De Chirico venne scartato per il logo, ritenuto più moderno, del berretto goliardico sovrapposto a un libro aperto, l'episodio la dice comunque lunga sul reale radicamento nel mondo intellettuale degli universitari di destra d'allora e dimostra che l'esperienza del Fuan si ponesse molto oltre gli stessi recinti politico-parlamentari del partito missino. Come a dire che, anche nell'immediato secondo dopoguerra, la cultura non marxista, non azionista e non cattolico-progressista era tutt'altro che minoritaria e, anzi, nella rappresentanza del mondo studentesco e universitario la destra fosse tutt'altro che minoritaria. È il caso di rileggersi quanto ha ricordato Tomaso Staiti nel suo libro di memorie Confessioni di un fazioso (Mursia), rievocando i suoi anni universitari a Pavia: «Quando arrivai, alcuni studenti stavano costituendo il Fuan. La vita cittadina ruotava attorno all'università. Ogni anno venivano organizzate le elezioni universitarie, ancora non erano riconosciute giuridicamente, ma sarebbero state il primo passo. Da questo punto di vista la presenza del Fuan avrebbe trasformato l'università di Pavia in un grande laboratorio politico e culturale». E Staiti ricorda come gli studenti di destra come lui si sarebbero confrontati quotidianemente con personaggi come Elio Veltri, poi sindaco socialista di Pavia e successivamente vicino a Di Pietro; Francesco Forte, poi ministro del Psi; Giorgio La Malfa, economista e leader dei repubblicani; Virginio Rognoni, poi ministro dell'Interno Dc; o Carlo Rossella, allora comunista convinto, poi giornalista di punta. Di quegli anni, sempre in Confessioni di un fazioso, leggiamo: «La politica è così intrecciata alla vita da confondersi con i suoi aspetti più complessi. Come l'amicizia. E gli amici del Fuan sono stati i primi. Franco Petronio, un triestino dalla vita romanzesca, presidente nazionale e nostro punto di riferimento, Mario Gionfrida, detto "il Gatto", Lello Della Bona, Arturo Bellissimo, Benito Paolone...». E Staiti elenca tanti altri nomi destinati in un modo o nell'altro a farsi conoscere: il primo presidente nazionale Silvio Vitale, lo scrittore e giornalista montanelliano Giampaolo Martelli, il futuro fondatore e direttore dell'Adn-Kronos Pippo Marra, il professor Giuseppe Tricoli, il futuro parlamentare palermitano Guido Lo Porto...Fatto sta che quando quel 21 maggio del '50 nasceva il Fuan si presentava come la federazione di tutta una serie di nuclei universitari già presenti e attivi in tutti gli atenei sin dall'inizio del '47: la Caravella di Roma, il Guf-Fanalino di Palermo, il Carroccio di Milano, il "Gabriele d'Annunzio" di Perugia, il Guf (Gruppo universitario Fiamma) di Catania, il Fuan-Carroccio di Ferrara, la Rivolta Ideale di Napoli e tanti altri. E già il 22, 23 e 24 ottobre del 1950 il Fuan organizza a Roma un congresso europeo degli universitari di destra, con la partecipazione di delegazioni dalla Francia, dalla Svezia, dalla Germania, dalla Spagna...
Lo stato d'animo, e i veri riferimenti culturali, di quei ragazzi sono stati rievocati dal compianto Luciano Cirri (nel ritratto a sinistra), poi a metà dei '60 tra i fondatori del Bagaglino, il primo cabaret di destra, quando parla di una «gioventù piena dei pensieri e delle azioni più diverse: Giovanni Papini e Faulkner, ragazze da amare, nottate in prigione per aver partecipato a comizi missini non autorizzati, discussioni e pugni con i comunisti, Louis Armstrong e Nat King Cole, Ignazio Silone e Francis Scott Fitzgerald e Milton "Mezz" Mezzrow...». Era così, a Roma il Fuan gestiva un centro orientamento per gli universitari per il disbrigo delle pratiche degli studenti, una sua cooperativa editoriale e anche il circolo "Rosso e Nero" che si occupava di cinema e avesa sede in via dei Ramni. «Organizzavamo - ricorda Carlo Cozzi, che era il responsabile del settore cinema - proiezioni mattutine al cinema Rialto. E seguivano dei dibattiti a cui partecipavano registi di primo piano come Pietro Germi o per allora aspiranti cineasti come Bernardo Bertolucci...». E sempre al Fuan romano di allora a organizzare iniziative culturali erano studenti universitari come Domenico Caccamo, oggi storico alla facoltà di Scienze politiche alla Sapienza, oppure Gabriele Moricca, in seguito avvocato ed esponente del gruppo "L'Orologio" di Luciano Lucci Chiarissi. Già nel 1951, nelle elezioni universitarie le liste del Fuan conquistano venticinque seggi, ottenendo il primo posto a Roma, Napoli, Palermo e Perugia. Un segno di grande vitalità e radicamento nel mondo giovanile che premiava le intuizioni e le capacità della prima classe dirigente con Silvio Vitale, Marcello Perina, Loris Lolli, Carlo Alberto Guida e l'attuale professore di letteratura latina all'Università La Sapienza Michele Coccia.
La seconda assemblea nazionale si terrà sempre a Roma l'11 e 12 dicembre 1955, Da quasi un anno la presidenza era passata da Silvio Vitale a Giulio Caradonna e quindi ad Angelo Nicosia con un esecutivo formato da Carlo Cozzi, Alfredo De Felice, Walter Gentili e Pier Francesco (Ninni) Pingitore, che insieme a Lello Della Bona (altro dirigente del Fuan), Luciano Cirri e altri tre giornalisti di testate di destra fonderà nel 1965 il Bagaglino. Dopo Nicosia, l'organizzazione verrà guidata prima da Franco Petronio, uno dei protagonisti delle manifestazioni del '53 per Trieste italiana e futuro europarlamentare del Msi, e da Della Bona. Dal 1964 al 1972 ci sarà quindi la lunga parentesi della presidenza di Cesare Mantovani, sempre però con il riconoscimento da parte del Msi della piena autonomia organizzativa e politica dell'organizzazione universitaria.
Una caratteristica, quest'ultima, che resterà il tratto distintivo del Fuan rispetto alla Giovane Italia e poi al Fronte della Gioventù, le associazioni giovanili e studentesche che subiranno sempre una maggiore pressione da parte del partito. Una caratteristica che quindi sarà decisiva a mettere subito in discussione il tentativo di normalizzazione tentato nel 1972 con una nomina voluta da Almirante, il quale volle dare la presidenza al filosofo ex marxista Armando Plebe, che aveva aderito al progetto di Destra nazionale. Tanto che alla sigla Fuan venne aggiunta quella di "destra universitaria", in omaggio al Dn che il partito aveva aggiunto alla vecchia sigla Msi. Ma i gruppi di ateneo furono tanto indispettiti che nel 1973 il Consiglio nazionale del Fuan si convocò per eleggere un vero presidente nazionale e ai voti vinse il perugino Luciano Laffranco, prevalendo sul palermitano Guido Lo Porto per soli 4 voti, 43 a 39. Fu questa la fase del Fuan degli anni di piombo, in cui fu efficace l'apporto di nuove leve cresciute dentro le scuole: tra questi Cristiana Muscardini, Stefano Gallitto, Marcello Bignami, Giuseppe Tagliente, Stefania Paternò, Peppino Salmeri, Umberto Croppi, Nicola Carlesi, Laura Carnevali, Alvaro Delle Vedove, Adolfo Urso, Biagio Cacciola... E torniamo al discorso da cui siamo partiti. Quanta classe dirigente di oggi s'è formata nel Fuan? Anche intellettuali e giornalisti come Francobaldo Chiocci, Domenico Fisichella, il da poco scomparso Gianni Massaro, Brunello de Cusatis o Stenio Solinas sono stati "del" Fuan. Non sarebbe il caso allora di rivedere il mito dell'egemonia dell'Ugi di Marco Pannella e Lino Jannuzzi? Se ne potrebbe occupare Roberto Menia che del Fuan è stato l'ultimo presidente.

martedì 18 maggio 2010

Le due ruote come avventura: quando Malaparte cantava l'ode alla bicicletta e al Giro

Dal Secolo d'Italia di martedì 18 maggio 2010
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva posto la questione agli organizzatori già poche settimane dopo il sisma dello scorso 6 aprile: il 93esimo giro d’Italia dovrà passare per L’Aquila. E così sarà. Domani, intorno alle ore 17 e 30, i corridori arriveranno a L’Aquila da Lucera: una tappa tra le più lunghe – 256 chilometri – e soprattutto più dure. Prima di arrivare nel capoluogo abruzzese, il percorso toccherà altri centri devastati dal terremoto: Castelnuovo di San Pio delle Camere, San Gregorio, Onna, Bazzano, Paganica e Tempera. Un momento di festa atteso con la trepidazione che accompagna da sempre questo straordinario evento sportivo. Sin da quando non c’erano le tv ed erano giornali e radio a cantare le gesta dei grandi campioni. «Quando un gruppo di ciclisti si scaglia dietro quella invisibile lepre meccanica di freddo acciaio che è la vittoria, ci sentiamo sfiorare dal fiato caldo e vitale di un gruppo di uomini lanciati all’inseguimento del sogno più alto, della più nobile ambizione del genere umano. Perché ogni impresa sportiva è un simbolo». La testimonianza è di Curzio Malaparte in Coppi e Bartali (Adelphi, pp. 56, € 5,50), breve saggio pubblicato in Francia – dove lo scrittore visse dal ’47 al ’49 – giusto sessant’anni fa e recentemente ristampato.
Un colpo di fulmine, quello contratto in tenerissima età dallo scrittore toscano: «Guardate il profilo slanciato della bicicletta, elegante, essenziale, la sua linea perfetta, rigorosa come un teorema di Euclide, semplice e al tempo stesso capricciosa come la crepa incisa dal fulmine nello specchio azzurro di un cielo sereno». Che cosa c’è di più Machiavellico?, si domanda. «Ci chiediamo come possa stare in piedi ed ecco che lei prende il volo, in equilibrio su un invisibile filo d’acciaio, come un acrobata sulla fune. In silenzio trafigge lo spazio, in silenzio penetra nel tempo. Senza un briciolo di pudore, viola tutti i misteri del paesaggio, dell’orizzonte, della natura. Scivola sulla strada come sul filo di un rasoio, inclinandosi con grazia». Una vera e propria opera d’arte. «In Italia – recita l’incipit del libro – la bicicletta appartiene a pieno titolo al patrimonio artistico nazionale, esattamente come la Gioconda di Leonardo, la cupola di San Pietro o la Divina Commedia. Ci si stupisce che non sia stata inventata da Botticelli, Michelangelo o Raffaello». Già, perché fu un inglese a “inventarla”, con disappunto del Curzio nazionale: «Non farò il suo nome. Un nome che un italiano non potrebbe pronunciare senza impallidire di rabbia».
Il primo incontro con il Giro e Giovanni Gerbi, il campionissimo di inizio secolo (il Diavolo Rosso evocato da Paolo Conte in una delle sue canzoni più belle), avviene nel 1906 su una strada piemontese: «All’improvviso, passandomi accanto, Gerbi allungò la mano, afferrò la bella paglietta italiana che avevo in testa e con un gesto fiero se la calcò sulla fronte madida di sudore. Quello fu il mio primo contributo personale al progresso del ciclismo. Avevo appena otto anni e, insieme al cappello, avevo già perso anche il senno, come tutti quelli della mia generazione». Solo il conflitto del ’14 poté strapparlo dalla sella: «Ci volle la guerra per farmi cadere dalla bicicletta. Mi rialzai nelle trincee della Champagne e quando, nel novembre del 1918, noi sopravvissuti tornammo a casa con il viso scavato e gli occhi colmi della vaga tristezza dei soldati vittoriosi, trovammo ad accoglierci un timido bagliore d’acciaio arrugginito, simile al lampo di felicità e pudore che fa arrossire il volto di una ragazza. Era il sorriso della nostra bicicletta, il primo amore della nostra generazione. Spettro fedele della mia infanzia, lei era là ad attendermi appoggiata al muro, pencolante sotto l’attaccapanni, accanto a mia madre che sorrideva tra le lacrime».
La guerra chiuse i giochi, ma né Coppi né Bartali, i due nemici fraterni, chiesero trattamenti di favore. Il primo fece la spola in bici tra Firenze e Perugia nascondendo nella canna documenti falsi che consentirono a molti ebrei di sfuggire alle persecuzioni. Coppi, arruolato nel 38° Fanteria e fatto prigioniero dai Topi del deserto di Montgomery, finirà per quasi due anni in un campo di prigionia a Medjez-el-Bab. «Altri (Pezzi, Martini, Milano e Carrea, sono andati con i partigiani – racconta Malaparte – mentre altri ancora (Magni) con le camicie nere».
Passata la guerra, la riconciliazione passa anche per lo sport. Quando il 14 luglio 1948 lo studente Pallante attenta alla vita di Togliatti, si teme l’insurrezione. È in quel momento che Alcide De Gasperi prende il telefono e chiama Bartali a Cannes: «Gino, puoi vincere il Tour?». «Sono indietro in classifica, ma la tappa di domani sì, la posso vincere». Manterrà l’impegno e il giorno successivo strapperà la maglia gialla a Bobert e i giornali radio daranno la notizia prima delle condizioni di Togliatti.
«Questa impresa – testimoniò Montanelli – funzionò realmente da calmante per i bollori e allentò la tensione». E domani, almeno per qualche ora, offrirà agli aquilani un po’ di quella serenità che ancora manca.

lunedì 17 maggio 2010

Ligabue, quel romanzo rock che racconta un mondo ancora da cambiare (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 16 maggio 2010
Prima fai di tutto per avere successo, poi scopri che non sono mica solo rose e fiori. L’involucro è attraente e i vantaggi sono indubbi, ma dietro tutte quelle seduzioni c’è il rovescio della medaglia: la popolarità è un piedistallo per un verso e una gogna per l’altro. È una casa di vetro in cui tutti si sentono autorizzati a guardare. E a giudicare. Ma in realtà non è affatto vero che tutta la casa sia trasparente e che ciò che si riesce a vedere dall’esterno sia tutto quello che vi accade. Per quanto enorme, per quanto così vasta da occupare l’intera facciata, la vetrata ricopre un solo lato. La persona che abita al di là di quella vetrata (di quella vetrina) vive in tante altre stanze che rimangono nascoste e invisibili. Certamente inaccessibili al pubblico. Forse, almeno alcune, inaccessibili a chiunque.
Ligabue ha dovuto sudare parecchio, prima di emergere. Fino al 1987, quando ormai aveva già 27 anni, non si era nemmeno affacciato sul mondo discografico. Alle spalle aveva solo una lunga serie di lavori occasionali, da operaio e da impiegato, inframmezzati da esperienze che erano anche interessanti, come il conduttore radiofonico e il consigliere comunale nella sua Correggio, ma che non erano arrivate a individuare una professionalità specifica e a prospettare un avvenire preciso. Luciano Ligabue era il classico giovanotto di belle speranze e di nessuna certezza. L’ennesimo talento ad alto, ad altissimo rischio di restare inespresso e di perdersi nel nulla, prima ancora di aver avuto la chance di provarci sul serio.
La sua fortuna fu Pierangelo Bertoli. Che nel 1988 decise di incidere Sogni di rock'n'roll, benché il brano non avesse nulla a che spartire col suo stile e i suoi temi, e che gli presentò quello che allora era il suo produttore, Angelo Carrara. Un paio d’anni dopo, nel maggio del 1990, uscì l’album d’esordio di Ligabue, che si intitolava semplicemente col suo cognome e che venne distribuito da una major come la Wea. Si cominciava con Balliamo sul mondo e si passava via via per Piccola stella senza cielo, per Non è tempo per noi e per Bar Mario. Nonché, ovviamente, per Sogni di R&R. Era fatta. O quantomeno era l’inizio – l’ottimo inizio – di quello che sarebbe venuto in seguito. Finalmente, a trent’anni compiuti Ligabue faceva il suo ingresso sulla scena musicale italiana. Non era un predestinato alla Paul McCartney o alla Elvis Presley. Era uno che si era formato il carattere e la personalità come accade a innumerevoli altri ragazzi, che crescono cavandosela da soli e che vedono gli anni trascorrere senza grandi exploit e la loro giovinezza dissolversi a poco a poco. Vita di provincia. Vagabondaggi interminabili nella periferia dell’anonimato, che a volte si rivela eccitante e più spesso si conferma noiosa, ma che in ogni caso rimane lontanissima dalle luci della ribalta e dalle celebrazioni dei media.
Il seguito è noto. Ligabue si è imposto come uno dei protagonisti più acclamati e durevoli. Eppure, nonostante questa permanenza ai vertici, persino lui ha accumulato una serie di amarezze e di fastidi. Lo dicevamo all’inizio: il successo è un’arma a doppio taglio. L’altra faccia della fama è la presunzione del pubblico. La convinzione che conoscere le canzoni equivalga a conoscere a fondo colui che le ha scritte. E che perciò lo si possa giudicare come uomo, oltre che come artista. «Ma ovviamente è un’impressione falsa. Io non sono rappresentabile neanche da tutta la mia discografia. Una persona non la racconti con cento canzoni. Nessuna persona la racconti con quello che ha fatto perché cambia di continuo.»

Ligabue ha ragione. E in questo nuovo album la sua insofferenza rompe gli argini e diventa uno sfogo da sei minuti, che riecheggia la celeberrima Avvelenata di Guccini e che si intitola appunto Caro il mio Francesco. Resta solo uno sfogo isolato, però. Nel suo insieme l’album non fa quasi nulla per indurre gli ascoltatori a scuotersi dalla consueta pigrizia. Arrivederci, mostro! assomiglia fin troppo al Ligabue che già conosciamo e, quel che è peggio, appare fin troppo interessato ad avere un suono immediato e di grande impatto. La cosa migliore, e non da oggi, rimangono i testi. E anzi, più che i testi da cima a fondo, alcuni spunti che emergono qua e là. L’impressione, ancora una volta, è che Ligabue abbia più frecce al suo arco quando scrive le parole, che non quando compone le musiche. L’impressione è che faccia male a ostinarsi nel replicare all’infinito un certo tipo di “rock song” che non va, che non può andare, oltre il risultato appena discreto di un intrattenimento non del tutto banale.
Alla fine, guarda caso, il brano più bello dell’album, è quello più lungo e meno “rockettaro”. È la toccante, delicatissima, drammatica Quando mi vieni a prendere?, ispirata a un terribile fatto di cronaca avvenuto nel gennaio dell’anno scorso. Un ventenne psicopatico entrò in un asilo di Dendermonde, una cittadina fiamminga a una trentina di chilometri da Bruxelles, e uccise a coltellate una maestra e due bambini, ferendone – e terrorizzandone – parecchi altri. Ligabue dà voce a uno di questi bimbi, senza che si possa sapere con certezza se è uno di quelli che verranno colpiti a morte dal folle omicida. Il canto ha le cadenze e l’intensità di un recitato. La musica poggia sul pianoforte e sugli archi. Le parole si impongono con tutto il nitore che serve. Costringendo anche i più distratti a prestare la dovuta attenzione. A soffermarsi. A riflettere. A guardare negli occhi la disperazione.
È questa la chiave. La chiave per chiudere fuori gli sciocchi e accogliere come si deve i migliori. Ligabue ha ragione, a lamentarsi di certe distorsioni dei nostri tempi, ma dovrebbe sapere che in parte dipende anche da lui. E che il rimedio è a portata di mano. Se è vero che la vetrata della notorietà non si può oscurare completamente, a pena di rifluire nell’oblio, si possono comunque spegnere i riflettori. Le fotoelettriche richiamano tutti. La fiamma di un camino attira solo chi ha davvero bisogno di scaldarsi, e magari ha accumulato abbastanza freddo e solitudine da averlo imparato: la porta potrà anche essere aperta ma quella lì non è mica casa tua. Accomodarsi davanti al fuoco è un privilegio dell’ospitalità. E l’ospitalità si basa sul rispetto.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.

sabato 15 maggio 2010

Carlo Michelstaedter: il coraggio dell'impossibile (di Miro Renzaglia)

Articolo di Miro Renzaglia
Dal Secolo d'Italia di sabato 15 maggio 2010
«So che faccio cose inopportune e a me non convenienti». Avrebbero potuto essere le parole iniziali del recente intervento di Gianfranco Fini alla direzione nazionale del Pdl e, invece, sono quelle di Sofocle che troverete in epigrafe alla prefazione della tesi di laurea di un giovane studente di Gorizia, Michelstaedter, di cui quest'anno ricorre il centenario della morte, avvenuta per suicidio il 17 ottobre 1910, proprio alla vigilia della discussione accademica.
E quella tesi, mai discussa appunto, è diventata negli anni una delle opere di filosofia più enigmatiche e affascinanti del nostro panorama sapienziale novecentesco, portandone lo stesso titolo voluto dall'autore: La persuasione e la retorica. È il testo unico che ci ha lasciato. Oddio, proprio unico non è: fra poesie ed epistolario non c'è praticamente riga vergata dal goriziano che non abbia visto luce editoriale. Compreso quel Dialogo della salute e altri scritti sull'esistenza che viene riproposto da Mimesis (pp.210, € 16,00), a cura e con l'approfondito saggio introduttivo di Giorgio Brianese, docente di Ontologia dell'esistenza e Propedeutica filosofica all'Università Ca' Foscari di Venezia.
«Carlo Michelstaedter - afferma Brianese - scrisse il Dialogo della salute nel 1910, mentre lavorava alla stesura della tesi di laurea, e lo concluse il 7 ottobre. Dieci giorni dopo si sarebbe tolta la vita. Cosa può significare riflettere, dialogando socraticamente, sulla salute trovandosi nel contempo in prossimità di una morte volontaria? Non si creda che Michelstaedter, nelle sue pagine, irrida il nostro "stato mortale", come sembra fare il custode del cimitero nella pagina che apre il Dialogo. Piuttosto egli c'invita a essere pienamente noi stessi ritrovando la verità profonda della nostra esistenza: chi ha la "salute" può guardare in faccia persino la morte, la quale "di fronte a lui è senz'armi". Perché l'oscurità, per lui, "si fende in una scia luminosa", ed egli "sa godere la luce del sole"». La persuasione e la retorica, la salute e la morte, l'essere e il divenire, l'esistenza e il nulla, sono queste le dicotomie intorno alle quali il pensiero di Carlo Michelstaedter si arrovella, concentrandosi sull'unico fattore che le risolva tutte in un colpo solo e alla radice: la libertà. La libertà di essere autentici in sé senza lasciarsi ingabbiare in uno qualsiasi dei ruoli che «la comunella dei malvagi», o della società che tutto omologa, pretende di assegnarci. Come per Nietzsche, anche per lui il campione della mistificazione della libertà resta Platone (e Aristotele), con la sua repubblica perfetta e ideale dove a ognuno è affidato una funzione e, soprattutto, una finzione: quella di essere «liberi di essere schiavi». Schiavi delle convenzioni, del possesso di cose e virtù omologate, della carriera, del successo, del denaro e, soprattutto, schiavi del futuro. Quel futuro che rinviandoci continuamente ad un sole dell'avvenire sempre prossimo e successivo ci espropria dell'unica vera libertà che abbiamo: quella di essere qui e di esserlo adesso. È la «via della salute»: «Ci son cose che distruggono la salute stessa e del corpo e dell'anima, contro le quali né forza fisica vale né animo libero, cose che ti tolgono appunto questa libertà e questa forza e ti tengono debole e miserabile in lor balìa […]. Quale forza fisica o quale virtù ti potrà mai salvare dalla morte? No: val meglio coglier l'attimo che fugge, sani o malati, e fuggire con lui, quando che voglia il caso» (dialogo 2). L'oraziano carpe diem, quindi: cogli il giorno, prendi l'attimo, vivi il presente e quam minimum credula postero, confida il meno possibile nel domani, sembra essere la ricetta dell'uomo in salute, del persuaso. Sennonché a dettare l'ode di Orazio è quel «dio del piacere», quella «philopsichia», che Michelstaedter aborrisce reputandola responsabile di creare l'illusione che una sopravvivenza qualsiasi sia la vita stessa nella pienezza del suo significato. Così non è e, infatti: «Quando si parla comunemente dei "piaceri" come di posizioni determinate che danno il piacere, siamo ormai nella posizione ammalata: e andiamo a cercare il piacere per sé, a sfruttare la nostra posizione verso una cosa per avere un sapore che in quanto lo andiamo a cercare non lo abbiamo più. Vogliamo godere due volte di noi: non più "godo - perché sono" - ma "son io che godo", e in realtà non godiamo più» (dialogo 8).
Carlo Michelstaedter vede con chiarezza dov'è il trucco e lo svela: tutto ciò che crediamo vita non è altro che una serie infinita di espedienti per sfuggire al dolore. E il principio del piacere è il primo fra tutti gli inganni. Ma il dolore è vita e la fuga dal dolore non è altro che fuga dalla vita, rinviando all'infinito del verbo divenire, l'essere vivo. Ha ragione Brianese quando osserva che sussiste in Michelstaedter un principio di contraddizione, o di non risoluzione, quando pretende attingere per il suo apologo sulla "salute" e sulla "persuasione", sia da Eraclito, profeta del panta rei, tutto scorre, e quindi del "divenire" che da Parmenide maestro dell'immobilità dell'"essere in quanto è". Ciononostante, non fu il primo a tentare una sintesi avendo come predecessore Empedocle e contemporaneo quel Nietzsche che vaticinava nell'eterno ritorno il punto di massima approssimazione del divenire all'essere. La massima nicciana: «Si diviene ciò che si è», avrebbe potuto essere sottoscritta, l'avesse conosciuta, anche dal goriziano. Ed entrambi, riconoscenti intellettualmente a Schopenhauer, partivano dal suo assunto secondo il quale: «Reale è solo il dolore», perché noi: «Sentiamo il dolore, non l'assenza di dolore». Ed è la lotta contro il dolore, non la fuga in derivati anestetizzanti, che insegna a vivere. È, come appare elementare, una lotta di liberazione e non di supina accettazione della sofferenza, magari come via salvifica all'ultraterreno: «Davanti al tiranno (dolore) io sono senza colpa», dirà Nietzsche. Con Michelstaedter che invoca: «Il coraggio di sopportare / tutto il peso del dolore».
Che uno (l'ex professore basilese) sia morto pazzo, e l'altro (lo studente goriziano) suicida, nonostante fossero due menti votate entrambe alla "salute", forse non depone molto in favore del fatto che le loro teorie fossero facilmente e felicemente praticabili. E Giorgio Brianese, almeno nel caso di Michelstaedter, non manca di rilevarlo con un certo grado di pessimismo realista: «La persuasione è dunque l'ideale limite al quale l'uomo non potrà mai giungere, ma al quale non per questo deve rinunciare a tendere. La rettorica è ciò che si sa che va negato, la persuasione è ciò che si sa che va attuato; e tuttavia la persuasione è impossibile e la rettorica risulta vincente». Ma di nuovo e tuttavia, quando il palio della partita che si gioca «a ferri corti con la vita», è la libertà stessa di autodeterminarsi uomini, anziché ciechi e assuefatti ingranaggi di un sistema che ce ne espropria, varranno per sempre i versi del sommo Dante: «Libertà vo cercando, ch'è si cara, / come sa chi per lei vita rifiuta...». O, se si preferisce e come sembra più appropriato in questa conclusione, con le parole di Carlo Michelstadter stesso: «Il coraggio dell'impossibile è la luce che rompe la nebbia, davanti a cui cadono i terrori e il presente divien vita».
Miro Renzaglia è nato a Roma nel 1957. È poeta, scrittore, giornalista, autore e performer teatrale. Ha pubblicato Controversi (Milano, 1988), I rossi e i neri (Roma, 2002), A spese mie (Roma, 2009). Nel 1990 ha fondato la rivista di letteratura ed immagini «Kr 991» che ha diretto fino al 1999. Suoi testi poetici sono presenti in antologie e riviste. In qualità di saggista, critico letterario e di costume, collabora a siti web, periodici e quotidiani, fra cui «Secolo d’Italia». È autore e performer del concerto di musica-poesia «Radiografia di uno sfacelo» (2003). Ha fondato e dirige il magazine online «il Fondo».