domenica 21 giugno 2009

Non solo "Il cacciatore di aquiloni", le storie che narrano l'Islam oltre la guerra

Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 21 giugno 2009
«Non si può biasimare una nazione per il suo governo». Sembra di vederlo, Winston Churchill, sigaro cubano tra i denti, mentre lascia cadere con disinvoltura questa frase. Di quelle che sopravvivono a chi le ha pronunciate. Oggi sembra ritagliata su misura per il popolo iraniano. E ai manifestanti che da giorni scendono nelle piazze per chiedere nuove elezioni potrebbero essere rivolte le parole di incoraggiamento che lo stesso Churchill indirizzò ai ragazzi della Royal Air Force durante l’attacco della Lutfwaffe: «Lacrime, sudore, sofferenze e sangue in cambio della libertà». Era bravo con le parole, Churchill, tanto da vedersi assegnato il Premio Nobel per la Letteratura nel 1953 per i suoi scritti storici. A conferma che la narrativa – quando è di qualità, s’intende – può restituire lo spirito del tempo molto meglio di un paludato testo accademico o sociologico. Tanto più se si tratta di “raccontare” i paesi mediorientali, nei confronti dei quali pochi sono gli osservatori che riescono a orientarsi senza la lente del pregiudizio. Ad avvicinarsi senza lasciarsi sopraffare dalla diffidenza. Reciproca, naturalmente. Perché meno sappiamo l’uno dell’altro e più diventa facile, quasi inevitabile, arrendersi di fronte ai luoghi comuni. I pregiudizi, è risaputo, si nutrono vicendevolmente. E l’ignoranza genera paura.
Un gap di conoscenza che la buona letteratura può contribuire a colmare. E anche il buon cinema. L’ha dimostrato Persepolis, il film di animazione tratto dall’omonima grapich novel di Marjane Satrapi, quarantenne fumettara iraniana residente a Parigi, che racconta con l’irriverenza dell’umorismo vent’anni di storia iraniana visti attraverso gli occhi di una bambina che si ribella al conformismo del regime dei mullah. Ottenuta la nomination, la pellicola si è vista soffiare l’Oscar da Ratatouille, corazzata Pixar. Uno scontro a suon di risate e non certo di civiltà.
Una formula, quest’ultima, che a Elif Shafak – la più brillante tra le “nuove” voci della narrativa turca – provoca l’orticaria. «Le persone che credono allo “scontro di civiltà” tra Islam e Occidente sono in continuo incremento – ha sottolineato la scrittrice, nata a Strasburgo nel ’71 da genitori turchi – e in un clima così esasperato si finisce per trascurare quanto il mondo islamico sia eterogeneo e dinamico». Una situazione esplosiva in cui gli scrittori non possono rimanere a guardare. «Noi possiamo fare la spola fra diverse culture e renderle polifoniche – ha detto – perché il senso stesso della scrittura risiede nel desiderio di attraversare i confini, siano essi nazionali, etnici o religiosi». E con i suoi bellissimi romanzi – Il palazzo delle pulci (Rizzoli 2008, pp. 491, € 19,50) e La bastarda di Istanbul (Bur Rizzoli 2009, pp. 388, € 9,50) – Elif ci ha accompagnato in una Istanbul inedita quanto autentica, caratterizzata da contraddizioni odiose – come la negazione del genocidio armeno – ma anche ricca di una contagiosa vivacità culturale: «Se esiste una città sulla faccia della terra dove ti rendi conto immediatamente dell’inaffidabilità di concetti come Oriente e Occidente – ha scritto – quella è Istanbul. Lì comprendi subito, forse non razionalmente ma per intuito, che si tratta di categorie costruite artificialmente, statiche ed eterne piuttosto che definizioni in continuo mutamento».
Leggendo le sue opere, come anche quelle dei tanti giovani scrittori mediorientali che finalmente iniziano a popolare i cataloghi delle nostre case editrici, chiunque può rendersi conto di quanto siano ridicoli quei clichè che si ostinano a rappresentare i musulmani come nei film di Indiana Jones: barbari armati di scimitarra. Se non direttamente terroristi al servizio di Bin Laden.
Sì, perché può capitare persino che qualcuno, parafrasando Nanni Moretti nel film Ecce Bombo (1978), si lasci andare a un «ve lo meritate… Ahmadinejad». No, non se lo meritano affatto. E non soltanto perché l’Iran, malgrado la collocazione geografica, non sia un paese arabo. Né per via degli antichi fasti persiani. Neanche gli iracheni, del resto, meritavano Saddam. E l’Afghanistan meritava forse i talebani? Un paese, quest’ultimo, che abbiamo conosciuto un po’ meglio grazie a Khaled Hosseini (Kabul, ’65), medico e scrittore afghano-americano, le cui pagine hanno descritto mirabilmente la vita a Kabul prima e dopo l’avvento del regime integralista dei talebani. Il clamoroso successo di vendite dei suoi libri – Il cacciatore di aquiloni (Piemme 2004), da cui Marc Forster ha recentemente tratto un film altrettanto suggestivo, e Mille splendidi soli (Piemme, 2007) – ha dimostrato che c’è un (ampio) pubblico che non è più disponibile ad accontentarsi delle generalizzazioni astratte e delle versioni “ufficiali” ma è interessato a conoscere più approfonditamente tali realtà. Tanto da costringere altri editori a lanciarsi all’inseguimento pubblicando autori dai nomi incomprensibili ma dalla prosa nitida e coinvolgente. È sempre più frequente, infatti, imbattersi in romanzi la cui fascetta pubblicitaria recita testualmente: “Se avete amato Il cacciatore di aquiloni non potrete non amare questo libro”. Promessa azzardata ma il più delle volte mantenuta. Libri, è bene specificarlo, che non offrono letture edulcorate della realtà né inducono in accattivanti romanticismi. Lo stile è crudo e diretto e soprattutto dimostrano una capacità di critica delle rispettive società che non diventa mai rifiuto dell'identità culturale e abiura delle radici.
Parliamo di autori già affermati nel nostro paese come l’egiziano Ala Al-Aswani che, dopo il successo di Palazzo Yacoubian (Feltrinelli 2007, pp. 219, € 7,50), ha appena pubblicato Se non fossi egiziano (Feltrinelli, pp. 219 € 16,00), ritratto impietoso e sarcastico dell’Egitto contemporaneo. O anche degli iraniani Hamid Ziarati – che nel suo romanzo Salam, maman (Einaudi 2006, pp. 260, € 14) ha narrato le vicende pre e post rivoluzionarie del suo paese vissute da un bambino e del quale è da poco uscito Il meccanico delle rose (Einaudi, pp. 276, € 18,50) – e Bijan Zarmandili, già autore dell’intenso L’estate è crudele (Feltrinelli 2007, pp. 179, € 14,00), che torna in libreria con Il cuore del nemico (Cooper, pp. 251, € 13,50).
Ma le vere protagoniste di questa prima metà del 2009 sono le narratrici: giovani di cui sentiremo sempre più spesso i nomi, imparando – con qualche difficoltà – a pronunciarli. Se per leggere l’attesissimo Le cose che non ho detto, il nuovo romanzo autobiografico di Nazar Afisi – già autrice del celebrato Leggere Lolita a Teheran (Adelphi 2004) – il cui arrivo in libreria è previsto solo per ottobre sempre per le edizioni di Roberto Calasso, sono già molti i loro titoli ancora sugli scaffali che meritano di essere letti.
Piemme ha da poco pubblicato La collezionista di storie (pp. 320, € 17,50), romanzo d’esordio di Randa Jarrar. Nata nel ’78 in America da padre palestinese e madre greco-egiziana, Randa è cresciuta in Kuwait, paese da cui è fuggita verso l’Egitto con la famiglia nel ’90 all’epoca della prima guerra del Golfo per poi stabilirsi negli States. La protagonista del libro è Nidali, alter ego dell’autrice, una ragazzina spensierata che conosce a memoria il Corano ma non indossa il velo, cresciuta nel mito di Wonder Woman e appassionata di pop. Tutto fino a quando Saddam compare in tv per dichiarare guerra al paese…
Altra scrittrice al debutto – con L’età degli orfani (Rizzoli, pp. 308, € 19.50) – e anch’essa espressione di culture diverse, è Laleh Khadivi. Chi meglio di lei – nata nel ’77 a Esfahan, in Iran, curda per via di padre e iraniana per via materna – poteva raccontare la storia di Reza, il bambino che, per evadere da una quotidianità di povertà, sognava di volare in alto come gli uccelli e si ritrova nemico di se stesso, diventando soldato e andando incontro allo sterminio del suo stesso popolo? Durante la rivoluzione di Khomeini, Laleh è fuggita con la famiglia negli Stati Uniti, così come ha fatto anche la sua coetanea e collega Porochista Khakpour, iraniana di Teheran. Di Porochista Bompiani ha appena pubblicato Figli e altri oggetti altamente infiammabili (pp. 424, € 19,00), coinvolgente quanto esilarante epopea familiare che fa del giovane Xerses un personaggio che ricorda l’Arturo Bandini di John Fante. Come Arturo, Xerses, irrequieto immigrato di seconda generazione, vive le sue origini come un fardello inconfessabile, amato e imbarazzante al tempo stesso. Da una parte il desiderio di crearsi una definitiva identità a stelle e strisce e finalmente integrarsi, dall’altra l’ironia di un destino che mette sulla sua strada una bellissima ragazza iraniana.
Da segnalare anche Quando Nina Simone ha smesso di cantare (Einaudi, pp. 139, € 14,50) della quarantenne libanese Darina al Joundi. La protagonista è una donna giovane e bella. Forse troppo libera in una città, Beirut, incattivita da un’interminabile guerra civile fatta di massacri, fame e paura. Una notte, dopo la morte del padre, viene picchiata e ricoverata in un manicomio. Sopravviverà fingendosi pazza e scrivendo la sua storia. «Mio padre – ha raccontato – m’ha fatto conoscere le diverse religioni, non voleva che avessi un solo Dio. E proprio perché conosco i testi sacri ho deciso di rifiutarli. Le guerre vengono sempre combattute in nome di qualche fede, anche se tutte le fedi predicano solo l’amore. E nel Medio Oriente, dove sono nata e vissuta, le parole di Dio pesano come macigni sulla vita degli esseri umani».
Più giovane di Darina è Rajaa Alsanea (Riad, 1980), esordiente di successo con Ragazze di Riad, pubblicato lo scorso anno da Mondadori e ora ristampato nella collana Oscar grandi bestsellers (pp. 331, € 12). Proveniente da una famiglia di medici e odontoiatra lei stessa, Rajaa vive attualmente a Chicago ma assicura che tornerà in Arabia Saudita quanto prima. Il libro, pubblicato in lingua originale nel 2005 con il titolo Banat al-Riyadh, è stato proibito in Arabia Saudita a causa del suo contenuto controverso ma è stato tradotto in venti lingue. Il tema è presto riassunto: quattro giovani studentesse universitarie, espressione di famiglie benestanti e privilegiate, sono alla ricerca dell’amore. Si potrebbe parlare di un Sex and the city in salsa araba, se non fosse per un piccolo dettaglio: la loro città è Riad, capitale dell'Arabia Saudita, e la società nella quale si muovono impone un numero infinito di restrizioni, dettate dalla famiglia e dalla comunità. Un romanzo trasgressivo, ma non quanto quello di Najwa Barakat, giornalista libanese (Beirut, ’60) trapiantata a Parigi: Ya salam! (Editore Epoche 2007, pp. 170, € 13,50) è il primo romanzo mediorientale a strizzare l’occhio al pulp e alla cinematografia di Quentin Tarantino. Niente eroine sdolcinate alla Sherazade. Nulla a che vedere le commedie dolcieamare del premio Nobel egiziano Naguib Mahfuz o con il crudo minimalismo del marocchino Mohammed Choukri. Nessun nemico precostituito (americani, maschilisti o chissà chi altro). Ya Salam! – col punto esclamativo – è un pugno nello stomaco e soprattutto è politicamente scorretto al punto da raccontare il conflitto libanese dalla parte degli aguzzini a mo’ di Le benevole di Jonathan Littell. Mettendo definitivamente nel ripostiglio l’erotismo retrò de Le mille e una notte.
Approfondimenti:

8 commenti:

Unknown ha detto...

grazie . sono assolutamente in linea con te .
charles spansky

Claudio Ughetto ha detto...

Bell'articolo, Rob. Mi piace anche come affronti il tema delle narrazioni di mondi apparentemente diversi dal nostro ma, se guardiamo ai rapporti tra gli individui e le possibilità di inventare delle storie efficaci, non poi così diversi. Alla fine, la letteratura ha proprio questo pregio: raccontare gli uomini molto meglio di qualsiasi saggio, anche come capacità di descriverne aspetti nuovi.
Tuttavia, ma ho una conoscenza superficiale di questi autori e di questa letteratura, mi sembra che se è presente un grande coraggio a raccontare rapporti e conflitti, manchi invece l'aspetto innovativo e creativo che ha invece caratterizzato l'apice della letteratura occidentale. Insomma, è come se la globalizzazione avesse sì aperto delle possibilità d'espressione ad autori non occidentali, ma mandando indietro, al 1800, le possibilità della letteratura, dell'oggetto romanzo e del "personaggio uomo". Come se da quelle parti De Benedetti non ci fosse stato.
Ne "I testamenti traditi", proprio Kundera vedeva aprirsi ri-aprirsi la libertà creativa del romanzo (quella di Sterne e Cervantes, ma anche di Joyce e Musil) proprio in Medio Oriente e in India. Ma erano i tempi de "I figli della mezzanotte", e Rushdie è un autore formatosi sulla letteratura di Sterne e di Joyce. Poi? Questi mi sembrano bravi, ma ottocenteschi e per buona parte pronti per il cinema.
Parafrasando Bellow, liberamente (e col terrore d'essere frainteso): dov'è il loro Joyce? Dov'è il loro Proust? Vorrei tanto conoscerlo.

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Grazie ragazzi.

A mio parere, il bello della nuova narrativa mediorientale è che racconta storie originali e lo fa con un linguaggio comprensibile e diretto senza essere superficiale e stucchevole, non gira attorno al nulla, non si sofferma sulla psicologia di personaggi intenti a guardarsi l'ombelico. Sarà che le società europee sono infinitamente meno interessanti? E poi si tratta di storie e punti di vista che noi non conosciamo, che non possiamo neanche immaginare, abituati come siamo a un eurocentrismo autocompiacente
:-)

Claudio Ughetto ha detto...

D'accordo con te sull'eurocentrismo autocompiacente. Oggi, dal giardino sentivo il mio vicino commentare così lo svarione di 3 milioni di schede nei risultati iraniani: - Non sanno neanche contare, 'sti islamici. Li hanno inventato loro i numeri, ma li hanno dimenticati perché devono studiare il corano a memoria".
Inutile spiegargli che il corano non lo studiano, purtroppo, come i cattolici non studiano il Vangelo. Entrambi danno per scontato che basti la vulgata, andare a messa, pensare che la religione sia solo tradizione ecc.
Vabbé. Ci si assomiglia, anche se distanti.

Per quanto riguarda la narrativa di quei paesi, di solito mi fido del tuo giudizio Rob, ma devo ammettere che per il momento non mi ha entusiasmato. Aspetto il Joyce, o anche il Céline. Per il momento quello che sento più audace è Pamuk, che effettivamente, come Rusdhie per l'India, è quello che osa maggiormente con le contaminazioni e ha ben chiaro il magistero del modernismo.

Penso anch'io che la loro società sia per molti aspetti più interessante. O meglio: non decadente e alla frutta come la nostra. Tuttavia, se devo scegliere, continuo a preferire i giovani americani, che secondo me osano di più. "La fortezza della solitudine", di Jonathan Lethem, secondo me è un capolavoro. Vale lo stesso per Richard Powers. Non vado pazzo David Foster Wallace, e l'ho anche scritto, ma penso che uno come lui ci vorrebbe anche in Medio Oriente. Per capacità d'osare e talento smisurato.
Ciao.

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Ne riparleremo.
Di una cosa, però, sono sempre più convinto: il narratore deve raccontare storie e "l'intellettuale" deve esercitare la critica sulla società. Quando il romanziere si mette in testa di fare l'intellettuale e viceversa... ne escono libri pretenziosi e privi di pathos.
Un abbraccio

Claudio Ughetto ha detto...

Mi metti in crisi :-)

Secondo te un intellettuale può fare il romanziere, smettendo d'essere intellettuale quando lo fa?

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Adesso sei tu che mi metti in crisi :-)

Diciamo che un intellettuale, se decide di scrivere un romanzo, dovrebbe farlo perchè avverte l'irrefrenabile necessità di raccontare qualcosa e non per (come accade troppo spesso) per convincere altri della bontà delle proprie tesi.
E soprattutto non dovrebbe dare per scontato che il mondo è lì, ansioso di conoscere ogni prospettiva possibile sul suo ombelico.

:-)

Claudio Ughetto ha detto...

Ih ih ih... :-))))))

l'autofiction sta facendo un bel po' di danni in Italia, e anche quelli che fanno dell'Epic su Einaudi con piglio situazionista ("per sovvertire il sistema all'interno del sistema").

Chi ha orecchie per intendere, intenda. In questo caso, molto meglio i mediorientali. Concordo...

;-)