venerdì 17 settembre 2010
Dal "Borghese" al femminismo: in un libro la storia di Adele Cambria, giornalista ribelle (di Luciano Lanna)
domenica 27 aprile 2008
Alberto Bevilacqua l'eretico




Ne sa qualcosa Giuseppe Genna, giovane ma non giovanilista scrittore e deus ex machina di Carmilla, sito online di letteratura e i


Fu proprio lo scrittore siciliano il primo a scoprirne il talento, tanto da rivolgere al giovanissimo poeta sincere righe di incoraggiamento. Fu Mario Colombi Guidotti – curatore nei primi anni ’50 de Il Raccoglitore, supplemento letterario de La Gazzetta di Parma, di cui Bevilacqua (classe ’34) era redattore – a inviare a Sciascia, all’insaputa del giovane collega, il dattiloscritto de La polvere sull’erba, il primo romanzo di Bevilacqua.
Perché ne parliamo adesso? Perché l’opera, dopo una prima apparizione nei tascabili Einaudi (2000) è tornata da pochissimi giorni in libreria

Sfogli

Ma mezzo secolo prima, evidentemente, era troppo presto. Sciascia lesse il dattiloscritto e ne rimase «scosso e turbato», sorpreso c

«Non appena la Gazzetta di Parma diede notizia del mio libro che stava per essere pubblicato – racconta Bevilacqua nella postfazione del libro – iniziarono pressanti minacce a mia madre e a mio padre (tanto più ingiustamente ricattabile in quanto esposto alle violenze psicologiche dell’Epurazione) affinché mi dissuadessero dal rendere note le mie pagine. Io stesso fui convocato per ascoltare esplicite intimidazioni censorie». Dovette rinunciare e chiedere al padre di custodire l’unica copia di quel romanzo in una cassetta personale, dov’è rimasta sino al ’97, anno dell

«Mi addolora che la censura impedisca al tuo libro di essere pubblicato – gli aveva scritto Pier Paolo Pasolini, – per quegli stessi atti insensati che temo avranno vita facile ancora per molti anni. Hai raccontato il “Triangolo della morte”, pensa un po’, due anni di guerra civile sui quali è calata la pietra tombale del silenzio come se fossero accaduti nella Città Proibita: non è l’enigma delle cose, ma le cose che ci rendono enigmi».
Solo nel 2000, dopo aver personalmente ribattuto a macchina il testo – «senza apportare rimaneggiamenti di alcun tipo, solo lievi aggiustature» – Bevilacqua diede alle stampe il libro.
Cosa sarebbe stato della mia “carriera” se nel ’55 avessi pubblicato quel romanzo? La domanda Bevilacqua se l’è posta spesso. Basti pens

Forse sì. Ma più probabilmente di quell’Italia “resiste” solo una piccola minoranza, amplificata da certo giornalismo militante e da una casta di scrittori, registi e attori che ancora spera di mungere fino all’ultima goccia il latte (scaduto) dell’ideologia, quasi che essere contro qualcosa bastasse per essere qualcuno.
Bevi


U

E facendosi regista cinematografico lui stesso, spesso trasponendo propri romanzi perché «si può dare immagine a ciò di cui abbiamo avuto bisogno nel momento in cui è stato scritto». Da La Califfa – il romanzo che nel ’64 gli diede il successo internazionale e nel ’70 portò sul grande schermo (con Romy Schneider e Ugo Tognazzi) ottenendo il Nastro d’Argento come migl

«Non sono contro le nuove tecnologie – ha dichiarato recentemente – sono un ana

mercoledì 3 ottobre 2007
A chi Lodoli? A noi! ( di Bruno Gravagnuolo su l'Unità)


A chi Lodoli? A noi! Lettera aperta del Secolo d'Italia allo scrittore Marco Lodoli, mercoledì scorso, nel paginone culturale. A firma di Roberto Alfatti Appetiti, suo grande estimatore. Che deplora la presenza di Lodoli in una delle liste del Pd a Roma, e non se ne dà pace. Motivo: Lodoli non può essere di sinistra. E' un «céliniano», un «dostoevskijano», autore di storie non banali, dove il tragico irrompe nella quotidianeità. E poi è figlio di un fascista, volontario in Africa a in Spagna e «figlio» (letterario) di Annamaria Ortese e Cristina Campo, «scrittrici non certo di sinistra». Inoltre il «primo quotidiano» (sic) a scoprirlo fu il Secolo. Insomma, una «captatio benevolentiae» ridicola e anche un po' meschina (uso del padre a riprova). Che la dice lunga sull'idea che hanno al Secolo dell'arte: familistica, biologica. E ideologica. Per cui chi ama Céline non può stare che a destra e lì deve restare! Sennò trattasi di «appropriazioni indebite». Una curiosa concezione da rigattieri frustati. E che fa il paio con certe patetiche «appropriazioni» post fasciste di oggi: da «Bella ciao» a Moccia, a Battiato. Ben raccontate da Alessandro Giuli nel suo Passo delle oche (Einaudi). Morale, gli «sdoganati», nonchè eclettici, ora vorrebbero fare i doganieri e stabilire chi deve stare di qua o di là, su basi letterarie... o di famiglia. Egemonia culturale? No, risiko dei poveri!
domenica 30 settembre 2007
Nico Orengo (La Stampa): «Anche Céline nel Pd».


Scrittore, Il Secolo d'Italia gli ha dedicato due pagine: «Figlio di fascista, democratico céliniano».
di NICO ORENGO
Povero Marco Lodoli. Non lo sgridavano i suoi colleghi di «Diario» per lo sue letture e lo sgrida oggi il «Secolo d’Italia» perchè legge Céline, Campo, Landolfi e l’Ortese, definiti scrittori di «destra», inammissibili per uno come lui che si presenta nelle liste del neonascente Pd. Non c’è nulla che faccia peggio alla letteratura che essere etichettata politicamente. «Viaggio al termine della notte» o «Il mare non bagna Napoli» sono letteratura di destra o di sinistra? Se n’è discusso alla nausea. Basta, è solo grande letteratura.
nico.orengo@lastampa.it
(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 29 settembre)
giovedì 27 settembre 2007
Lodoli con Veltroni, An lo sfida: e i tuoi scritti céliniani?




mercoledì 26 settembre 2007
Marco Lodoli, il "céliniano" democratico





Per questo, dalle colonne del nostro Secolo d’Italia – primo giornale a salutare il suo debutto con una appassionata recensione in anni ormai lontani – gli rivolgiamo un appello: ci ripensi! Sì, primo quotidiano a occuparsi di Marco Lodoli. Grazie all’affetto







All’attività narrativa lo scrittore romano ha anche affiancato quella di critico cinematografico, o meglio di “spettatore esigente”, come s’intitolava la sua rubrica per il Diaro della settimana, la rivista diretta da Enrico Deaglio. E’ nata così una suggestiva quanto originale antologia composta dalle recensioni di 100 film, Fuori dal cinema. «Fuori dal cinema significa forse dentro alla vita, a quel grumo di pensieri ossessioni debolezze e speranze che

La sua ultima opera, Bolle, diciannove racconti sul filo dell’illusione e della verità, è del 2006. «Brevi storie – come recita la quarta di copertina – che ci aprono al mondo dell’immaginazione, del sogno, delle speranze che sole possono aiutarci a vivere: bolle luminose tra i pungiglioni della vita». Non ci rimane che aspettare il prossimo libro e nel frattempo confidare che il 14 ottobre siano pochi i romani che scrivano il suo nome sulla scheda, così da non distrarti dalla letteratura, per continuare a porci, leggendoti, quelle domande invalicabili….
giovedì 8 marzo 2007
Anna Maria Ortese, un'irregolare per l'8 marzo


In una giornata come questa, ricordarla significa rendere onore ad una irregolare che non volle piegarsi a prestare servizio permanente effettivo al dogma marxista, né esercitarsi nella denuncia sociale politicamente unilaterale. Anna Maria Ortese ebbe infatti la sfrontatezza di dedicarsi ad una letteratura visionaria, simbolica e fantastica, tesa all’inseguimento della bellezza e dell’invisibile, dell’inespresso.
Tra l'altro, sabato 10 marzo saranno trascorsi nove anni dalla scomparsa di una autrice finalmente riconosciuta come una delle più grandi del Novecento. Un destino vagabondo, il suo, inaugurato dai viaggi della giovinezza a Roma, Venezia, Trieste, dove vive correggendo le bozze al Gazzettino. Ed è qui che partecipa ai Littoriali femminili del '39, nelle sezioni "Concorso per una composizione poetica" e "Composizione narrativa", a tema libero. Con quindici poesie, Anna Maria vince la prima gara ed è proclamata Littrici, nella sezione "narrativa" è seconda, con cinque novelle. Aveva già esordito negli anni Trenta su La fiera letteraria di Roma. E’ il direttore della rivista, lo scrittore Massimo Bontempelli, a proporre alla casa editrice Bompiani la pubblicazione della sua prima raccolta di racconti, Angelici dolori ('37). La stroncatura dei critici militanti è violenta, esagerata se si considera che si tratta di una giovane esordiente. Enrico Falqui parla di «ignoranza letteraria» e «rozzezza decadentissima». Le si contesta il «deteriore romanticismo» stridente con il rigoroso materialismo cui gli intellettuali politicamente corretti devono attenersi. Una faziosità dettata «dal disprezzo ideologico», ha riconosciuto Giancarlo Borri nel suo Invito alla lettura della Ortese (Mursia '98).
La città d’adozione della Ortese è Napoli, cui la scrittrice dedica uno spietato libro d’amore, nel quale descrive le condizioni di vita miserrime della “plebe” napoletana. Il mare non bagna Napoli ('53), la raccolta che le vale il Premio Viareggio, è un viaggio nelle viscere della città. E non solo. In un capitolo del volume, Il silenzio della ragione, stila un feroce ritratto dagli intellettuali progressisti, accusandoli di aver perso ogni «sacro furore» e «di essersi omologati ad una società conformista e utilitaristica, profondamente cambiati dall’ansia del successo». L’opera viene letta come «un libro contro il comunismo», teso a denigrare Napoli e la sua classe dirigente. La Ortese rimprovera, a quello che era pur sempre il proprio mondo culturale di origine, l’individualismo gretto e il disinteresse, la sostanziale connivenza con il sistema che a parole si diceva di voler cambiare. Tale posizione le costerà l’emarginazione, costringendola di fatto a lasciare Napoli per non mettervi più piede, neanche quando, poco prima della morte, il Comune - considerate le ristrettezze economiche della scrittrice - le assegnerà un appartamento nei Quartieri Spagnoli. Comprende presto che la sua «indignazione per la crudeltà del mondo, per le creature oppresse: vecchi, poveri, bambini, deboli che hanno bisogno di tutto e sono in balia degli altri» non avrebbe trovato alcuna libertà d’espressione nel PCI. Ne trova ulteriore conferma quando, di ritorno da un viaggio in Russia, prende atto con amarezza delle reazioni violente e intolleranti ai suoi reportage giornalistici. «Volevano che io non ragionassi con la mia testa, ma con la loro. Ero stata in Russia. Quando sono tornata ho scritto degli articoli raccontando quello che avevo visto. La sinistra milanese mi ha fatto il viso dell’armi. Io scrivevo in modo non ortodosso». Nell’86 l’Adelphi decide di ristampare le sue opere e di pubblicarne le inedite. A L’iguana seguono In sonno e in veglia, Il cardillo addolorato, Alonso e i visionari, Corpo celeste, Il porto di Toledo ed altri, sino alla recenti antologie di romanzi. Le vendite rivelano l’apprezzamento del pubblico, ma lei non rinuncia al suo stile di vita parco e quasi anonimo. E’ l’indignazione per la vicenda di Erich Priebke – nella quale scorge la metafora del perenne accanimento del vincitore sul nemico ridotto all’umiliazione – a farle vincere la naturale ritrosia e a scrivere una lettera al quotidiano Il Giornale, chiedendo pietà per il «lupo sconfitto». Ne nasce un’odiosa polemica. Tabucchi definisce «oltraggioso e deplorevole» l’intervento della scrittrice, più di qualcuno si scaglia contro «l’intenerita coetanea del nazista». Lei non si scompone e reagisce, scrivendo un pezzo significativamente intitolato Questa Italia che mi è straniera: «La terra sta diventando una fossa atroce per i deboli e quell’uomo è vecchio e solo e abbiamo torto ad identificare questa idea con il vecchio nazismo. No, il nazismo è oggi un altro ed è universale e, in qualche modo, perché universale, invisibile». Parole inaccettabili per chi ha costruito la propria fortuna sull’antifascismo militante e non vuole rinunciare ad una comoda rendita di posizione.
sabato 9 dicembre 2006
Anna Maria Ortese e il lupo solitario


Spirito anticonformista per eccellenza, donna riservata e sincera, indisponibile ad ogni compromesso, aliena ad ogni frequentazione opportunistica nel mondo autoreferenziale dei salotti, incurante del disprezzo e dell’ostilità con cui la quasi totalità del mondo culturale progressista l’ha sistematicamente osteggiata, ha scritto alcune delle pagine più emozionanti degli ultimi decenni.
Le sue sono storie realistiche e surreali al tempo stesso, dense di sogni, poesia, fiaba, amore e dolore, messaggeri celesti, umanità dolente, creature incomprese, escluse e respinte, pianto e desiderio di trascendenza.
Senza cedere nulla alle mode letterarie del secondo dopoguerra e alla logica che voleva gli scrittori in servizio permanente effettivo del dogma marxista, decise di non rinunciare mai alla sua idea di letteratura alta e fantastica.
«La verità è che io do cose che non sono richieste», si scherniva. Animata dalla convinzione metaletteraria che «si vive circondati dall’invisibile», ha lasciato un pulsante patrimonio di opere straordinarie, piene della sua scrittura visionaria. I suoi libri continuano incessantemente a tornare in libreria, per la gioia di un sempre crescente numero di lettori.
L’ultima pubblicazione è Il Monaciello di Napoli (Adelphi 2001), raccolta composta da due racconti già apparsi nei primi anni Quaranta sul mensile Ateneo Veneto e su Nove Maggio, quindicinale del GUF di Napoli. E’ la stessa Ortese a descriverli come «tentativi, dapprima felici, poi via via nevrotici e travagliati, di rendere il primo impatto con il mondo (estasi, meraviglia) e poi lo sconforto vedendo questo mondo sempre più mutarsi in un deserto, dove nessuna cosa sembrava avere senso, destinazione: un mondo di mostri e fantasmi».
La sua scrittura si nutre in un mondo trascendentale, animato dalla presenza delle anime, dei ricordi, di piccole nostalgie, di affetti smarriti, di quanto di più caro c’è nella nostra vita. «Credo in tutto ciò che non vedo […] Ma forse le cose amate sono soltanto invisibili: non perse. Questa sensazione, che tutto l’infinito, passato di tutti, si accumuli in qualche luogo e […] lo ripossederemo un giorno realmente, concretamente, credo sia comune a tutti. Conforta e non è affatto vergognoso per l’intelligenza».
La sua vita non è certo stata facile. Nasce a Roma il 14 giugno 1914, penultima di sei fratelli in una famiglia «miserrima […] di nessun rilievo sociale», sempre «sopraffatta dal problema del pane quotidiano, della sopravvivenza, sola, senza lavoro, abbarbicata al niente». E’ costretta ad abbandonare presto gli studi, trovando in una particolare predisposizione alla scrittura il proprio riscatto spirituale.
Le sue prime poesie sono del 1933 e vengono pubblicate su La fiera letteraria di Roma. L’anno successivo, sempre su La fiera è la volta del primo racconto, Pellerossa, nel quale già si evince quella che sarà una delle sue preoccupazioni costanti: il timore dei danni che la civilizzazione dilagante – il cosiddetto progresso – produce sullo spazio «naturale» e l’originaria «innocenza» degli uomini. E’ proprio il direttore della rivista, lo scrittore Massimo Bontempelli, a proporre alla casa editrice Bompiani la pubblicazione della raccolta Angelici dolori (1937) che include tredici novelle.
La stroncatura che ne fanno i critici militanti è violenta e spropositata, tanto più se si considera che si tratta di una esordiente, il cui talento appare subito evidente. Enrico Falqui parla di «ignoranza letteraria» e «rozzezza decadentissima», ma quello che si vuole colpire, come ben ricostruisce Monica Farnetti nel suo Anna Maria Ortese (Bruno Mondatori 1998) è l’impianto culturale cui la Ortese sembra ispirarsi; il crepuscolarismo, il D’Annunzio «paradisiaco», un «anglismo» ultradecadente e la «tradizione mistica», il «realismo magico» e «l’allegorismo vittorughiano».
A motivare tale critica faziosa, che mette all’indice il suo «deteriore romanticismo» in un’epoca nella quale era d’obbligo per gli intellettuali attenersi ad un rigoroso materialismo, è un vero e proprio «odio e disprezzo ideologico», come riconosce Giancarlo Borri nel suo Invito alla lettura della Ortese (Mursia 1998).
La sua è una vita randagia, solitaria, nella quale non c’è spazio per una vita coniugale: «il matrimonio non lo concepivo proprio […] perché comporta una quantità di tagli alla propria vita, al proprio tempo, alla propria immaginazione». E’ costretta continuamente a spostarsi, vive in diverse città, è una «senza patria». La patria, infatti, è per lei quella degli affetti smarriti: «mia sorella è stata la mia patria: non ne ho avuto un’altra, di patria, io». Si mantiene arrangiando mestieri occasionali, estemporanei, come quello di correttrice di bozze al Gazzettino di Venezia, senza mai mettere radici in nessun luogo.
La città che ama di più è Napoli, e alla città partenopea è dedicata una delle sue opere più importanti Il mare non bagna Napoli (1953), la raccolta dei racconti che la impone all’attenzione del pubblico e le vale il Premio Viareggio. In un capitolo del libro, Il silenzio della ragione, prende le distanze dagli intellettuali progressisti partenopei, rei di aver perso ogni «sacro furore» e di essersi omologati ad una società «conformista e utilitaristica e profondamente cambiati dall’ansia del successo».
L’opera viene letta come «un libro contro il comunismo» e le costa una repentina emarginazione. Decide di andarsene e di non tornare più a Napoli, neanche quando, poco prima della morte, il Comune le assegna un appartamento nei Quartieri Spagnoli.
Comprende presto che la sua «indignazione per la crudeltà del mondo, per le creature oppresse: i vecchi, i poveri, i bambini, i più deboli che hanno bisogno di tutto e sono in balia degli altri» non avrebbe trovato alcuna libertà d’espressione nel PCI.
Ne ha la certezza quando, con amarezza, deve raccogliere le feroci critiche della sinistra ai resoconti giornalistici che scrive di ritorno da un viaggio in Russia. «Volevano che io non ragionassi con la mia testa, ma con la loro. Ero stata in Russia. Quando sono tornata ho scritto degli articoli raccontando quello che avevo visto. Il mondo della sinistra milanese mi ha fatto il viso dell’armi […] Io scrivevo in modo non ortodosso. Da lì è nato il dissidio».
Continua a scrivere, pur tra mille difficoltà economiche, ed ottiene dei premi autorevoli. Nel 1967 con Poveri e belli vince il Premio Strega e nel 1986, con Il mormorio di Parigi, il Premio Fiuggi per la cultura. Finalmente nel 1986 le viene assegnato, grazie alla Legge n. 440 del 1985 (la cosiddetta Legge Baccelli, che prevede un fondo destinato a quei cittadini che abbiano dato lustro alla patria e che versino in stato di particolare necessità) un modesto vitalizio, che le consente di mettere fine ad una vita da nomade della letteratura e di dedicarsi alla scrittura nell’abitazione di Rapallo.
Il 1986 è l’anno fortunato per la Ortese. Adelphi, la casa editrice diretta da Roberto Calasso, decide di ristampare le sue opere e di pubblicarne delle nuove.
L’incontro riempie di entusiasmo la scrittrice: «Sì, ho incontrato l’Adelphi: hanno creduto nei miei libri, li hanno pubblicati con riguardo, è stato un miracolo». Lo stesso anno viene pubblicata la ristampa de L’iguana, l’anno successivo In sonno e in veglia, Il cardillo addolorato (1993), Alonso e i visionari (1996), Corpo celeste (1997) e Il porto di Toledo, mentre poco dopo sopraggiunge la morte della scrittrice.
E’ in particolare Il cardillo addolorato a farle raggiungere la meritata e sofferta affermazione definitivia, con uno strepitoso risultato delle vendite, ottantamila nel solo 1993, che diventano oltre centomila dopo pochi anni.
E’ un trionfo anche all’estero. In Francia è L’iguana, pubblicato da Gallimard, a far innamorare i francesi. Lei, sempre schiva, accetta di farsi intervistare da Le Monde, ma quando l’intervistatrice arriva nella sua piccola casa di Rapallo lei esordisce dicendole: «Non ho più niente da dire».
Solo negli ultimi anni è il suo indomito anticonformismo a prevalere sul suo carattere schivo. La indigna il caso di Erich Priebke, l’ex ufficiale delle S.S. coinvolto nell’eccidio delle Fosse Ardeatine, in quel periodo in attesa di giudizio in carcere. Nella vicenda legge la metafora del perenne accanimento del vincitore sul nemico ridotto all’inerzia e all’umiliazione.
Prende carta e penna e scrive a Il Giornale. Il 12 gennaio 1997 la Ortese firma sul quotidiano milanese una richiesta di pietà per il «lupo sconfitto». Sottolinea la «dignità con cui accetta […] tutto il rituale solenne della giustizia insieme con i ricordi di quello che ormai era il suo Paese, e della moglie lontana». Si domanda: «Come dunque ci si aspettava che morisse, per il nemico?».
Ne nasce un’odiosa polemica, nella quale si sbizzarriscono i professorini della sinistra. Tabucchi ritiene «oltraggioso e deplorevole» l’intervento della Ortese, altri se la prendono con «l’intenerita coetanea del nazista».
Lei non si scompone e reagisce, scrivendo un pezzo significativamente intitolato Quest’Italia che mi è straniera: «La terra sta diventando una fossa atroce per i deboli […] e quell’uomo è vecchio e solo […] e abbiamo torto ad identificare questa idea […] con il vecchio nazismo. No, il nazismo è oggi un altro ed è universale e, in qualche modo, perché universale, invisibile».
Quel nazismo è oggi rappresentato dalla dittatura del conformismo, di chi non accetta che altri possano avere opinioni diverse dalle proprie e che, invece di argomentare, preferisce l'insulto.