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venerdì 17 settembre 2010

Dal "Borghese" al femminismo: in un libro la storia di Adele Cambria, giornalista ribelle (di Luciano Lanna)

Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia di venerdì 17 settembre 2010
In tempi in cui il giornalismo tende a presentarsi come la prosecuzione dello scontro (senza esclusione di colpi) tra schieramenti bipolari con altri mezzi, e quasi una guerra civile obbligata a suon di demonizzazione dell'altra parte e ricorso alla vecchia logica del dossieraggio, ci appare quantomeno obbligatorio mettere in evidenza il ruolo svolto nei processi di cambiamento e modernizzazione della nostra società da tutta un'altra vocazione e un'altra modalità di concepire e testimoniare la professione giornalistica. Come fa ad esempio Adele Cambria nel suo ultimo libro - Nove dimissioni e mezzo. Le guerre quotidiane di una giornalista ribelle (Donzelli, pp. 281, € 17,50) - raccontando attraverso un lungo flash-back la testimonianza civile di una donna che ha attraversato da protagonista dell'informazione e del dibattito pubblico gli ultimi cinquant'anni della nostra vicenda pubblica.  

domenica 27 aprile 2008

Alberto Bevilacqua l'eretico

Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 27 aprile 2008
Le “liale”. Così la critica ideologizzata definiva sprezzantemente, pochi decenni fa, autori del calibro di Carlo Cassola, Piero Chiara e Alberto Bevilacqua. Per via – asserivano – dell’uso di una lingua poco “sperimentale”, meramente comunicativa, troppo ammiccante con la pancia dei lettori. Narratori borghesi. E poi – per completare l’equazione – commerciali. Sostenuti dall’industria editoriale di massa. Manco fosse un’associazione a delinquere, il patto non scritto tra editori e lettori. E ancora oggi Bevilacqua – ché qui ci occupiamo di lui – viene trattato con sufficienza da certi ambienti “impegnati”. Malgrado al consenso del pubblico si sia aggiunto, da lungo tempo, quello altrettanto entusiasta della critica. Nonostante i premi ricevuti, tanti e prestigiosi. Perché vende libri, troppi, tanto da essere uno degli scrittori italiani più conosciuti al mondo. Perché scruta le ombre, convinto com’è della permanenza contigua alla nostra delle persone che non ci sono più, in questo vicino alla “visionaria” Anna Maria Ortese. Perché accarezza il mito e sorvola – come il padre, aviatore nella squadriglia di Italo Balbo – il cielo stellato del fantastico. Perché non ha abbracciato il materialismo – come molti suoi colleghi hanno fatto, per convinzione o opportunismo – per rimanere nella dolente dimensione del sogno. Perché da vero alchimista della fantasia, non ha mai nascosto il proprio interesse per il mistero, l’esoterismo e la magia.
Ne sa qualcosa Giuseppe Genna, giovane ma non giovanilista scrittore e deus ex machina di Carmilla, sito online di letteratura e immaginario. Quando scrive di Bevilacqua gli si illuminano gli occhi, pardon, il monitor: «Bevilacqua ha il turbo, gli altri hanno un motorino, che sia più scrittore di tutti, oggi in Italia, può essere straniante per certuni abbagliati dai lucori dei numeri e dalla sovraesposizione televisiva». Intendiamoci, con tutto il rispetto possibile per Genna – astro nascente della nostra narrativa – prima di lui, all’intellettuale parmigiano, non sono mancati autorevoli estimatori. Totò, Karen Blixen, Gabriel Garcia Màrquez, Chaplin. Borges e Ionesco. E ancora: Pasolini e Sciascia.
Fu proprio lo scrittore siciliano il primo a scoprirne il talento, tanto da rivolgere al giovanissimo poeta sincere righe di incoraggiamento. Fu Mario Colombi Guidotti – curatore nei primi anni ’50 de Il Raccoglitore, supplemento letterario de La Gazzetta di Parma, di cui Bevilacqua (classe ’34) era redattore – a inviare a Sciascia, all’insaputa del giovane collega, il dattiloscritto de La polvere sull’erba, il primo romanzo di Bevilacqua.
Perché ne parliamo adesso? Perché l’opera, dopo una prima apparizione nei tascabili Einaudi (2000) è tornata da pochissimi giorni in libreria in edizione rilegata (Einaudi, pp. 176, € 18,50) ed è subito scoppiato il caso: l’autore fu il primo, nel lontanissimo ’55, a denunciare ciò che accadde nel Triangolo della Morte dopo la fine della seconda guerra mondiale. «Triangolo che – spiega Bevilacqua – fu rosso non per un’idea o una fede, ma per il sangue che fu versato da quelli che per continuare a vivere avevano bisogno della morte altrui… quelli perseguitati dall’idea del nemico e decisi a vendicarsi uccidendo concretamente questa idea nei corpi che la incarnano… vederla crollare a terra, questa idea, in un corpo con la bocca spalancata e gli occhi sbarrati».
Sfogliando il libro ecco narrati con dovizia di (agghiaccianti) particolari i tragici mesi che prolungarono una guerra civile che non poteva definirsi tale (perché politicamente scorretto). «Un velo di silenzi ostinati e colpevoli omertà – si legge nel romanzo – che sarebbe durato per oltre quarant’anni, fino alla svolta del 1990, l’anno del “Chi sa, parli”, a causa di Otello Montanari: l’uomo che con il suo j’accuse, avrebbe giocato un ruolo decisivo perché si riaprisse una pagina di storia che in tanti volevano sepolta».
Ma mezzo secolo prima, evidentemente, era troppo presto. Sciascia lesse il dattiloscritto e ne rimase «scosso e turbato», sorpreso che un giovane meno che ventenne potesse essere l’autore di un’opera di tale intensità, sostenuta da uno stile già maturo quanto raffinato: «Romanzo concepito, su drammi e ironie assimilati in prima persona dalla leggerezza del sangue, per una di quelle magnetiche forme di illuminazioni, folgorazioni, favori di una maturità precoce, che si producono nella vita giovane di uno scrittore». Avrebbe voluto pubblicarlo, ma un feroce clima censorio glielo impedì. «Il libro porta alla luce scorci di un periodo terribile – scrisse Sciascia – molte premonizioni sugli anni che credo ci attendano, in un’Italia intollerante e meschina che, cessata la guerra, finge di ritenere che ogni dramma e conflitto sia finito, e ignora con soddisfazione certe scandalose colpe attentamente occultate da chi ne ha tutto l’interesse… Con l’illusione che sia iniziata l’età dell’oro che, per prosperare, non ha più bisogno di ombre sulla coscienza».
«Non appena la Gazzetta di Parma diede notizia del mio libro che stava per essere pubblicato – racconta Bevilacqua nella postfazione del libro – iniziarono pressanti minacce a mia madre e a mio padre (tanto più ingiustamente ricattabile in quanto esposto alle violenze psicologiche dell’Epurazione) affinché mi dissuadessero dal rendere note le mie pagine. Io stesso fui convocato per ascoltare esplicite intimidazioni censorie». Dovette rinunciare e chiedere al padre di custodire l’unica copia di quel romanzo in una cassetta personale, dov’è rimasta sino al ’97, anno della morte dell’amato genitore.
«Mi addolora che la censura impedisca al tuo libro di essere pubblicato – gli aveva scritto Pier Paolo Pasolini, – per quegli stessi atti insensati che temo avranno vita facile ancora per molti anni. Hai raccontato il “Triangolo della morte”, pensa un po’, due anni di guerra civile sui quali è calata la pietra tombale del silenzio come se fossero accaduti nella Città Proibita: non è l’enigma delle cose, ma le cose che ci rendono enigmi».
Solo nel 2000, dopo aver personalmente ribattuto a macchina il testo – «senza apportare rimaneggiamenti di alcun tipo, solo lievi aggiustature» – Bevilacqua diede alle stampe il libro.
Cosa sarebbe stato della mia “carriera” se nel ’55 avessi pubblicato quel romanzo? La domanda Bevilacqua se l’è posta spesso. Basti pensare quanta intolleranza abbia attirato su di sé Giampaolo Pansa – intellettuale di sinistra, sino a quel momento apprezzatissimo da quel mondo – per aver scritto Il Sangue dei vinti (e le opere successive). Quante proteste abbia provocato la decisione di Michele Placido – anche lui uomo di sinistra – di interpretare il ruolo del protagonista nella fiction (presto in tv) tratta proprio dal romanzo di Pansa. Siamo ancora oggi in quell’Italia «intollerante e meschina» che – sempre più puerilmente – brandisce la festività del 25 aprile per colpire e delegittimare gli avversari politici?
Forse sì. Ma più probabilmente di quell’Italia “resiste” solo una piccola minoranza, amplificata da certo giornalismo militante e da una casta di scrittori, registi e attori che ancora spera di mungere fino all’ultima goccia il latte (scaduto) dell’ideologia, quasi che essere contro qualcosa bastasse per essere qualcuno.
Bevilacqua non appartiene a quella schiera di conformisti. A segnarlo, in qualche misura, è stato anche “l’incontro” con il più irregolare degli scrittori del Novecento, Louis Ferdinand Céline, spietatamente perseguitato sin nella vecchiaia. Fu Willy, uno dei capi della Resistenza a Parigi, a portare Bevilacqua ancora adolescente da Céline, «proprio per dimostrarmi come ancora una volta la vita fosse ingrata. Mi disse. “Ti faccio vedere uno scrittore straordinario che Sartre e il suo ambiente avversa a morte, combatte. E questa è una grande ingiustizia”. Me lo fece vedere da lontano, seduto davanti alla casa. Il filo spinato dei cancelli. Se avvertiva il pericolo, scendeva verso il cancello seguito dai cani urlanti. “Contro di lui tutto è permesso, la muta non demorde”. Quest’immagine, magnetica, mi fece – Céline era un lanciatore di medianità – una grandissima impressione. Lessi il Viaggio al termine della notte sotto l’effetto di questa suggestione, a quindici anni. E dopo quella lettura, si scrissero in me, senza che cercassi la poesia essendone trovato, i primi versi della mia vita, che poi ho riportato in ogni mio libro, come una sigla: io cerco un ventre / orgoglioso e umiliato / per morirci teneramente / come ci sono nato». Quell’incontro l’ha raccontato nel Viaggio al principio del giorno (Einaudi 2001), che già dal titolo rievoca il céliniano Voyage, «il libro della sua vita – come è scritto nella quarta di copertina – definitivo». E invece la verve non si è esaurita e quella vitalità «che mi ha portato a esprimermi in vari modi, mentre i letterati italiani in genere sono statici» – ha continuato ad animare un’opera già sterminata: dagli indimenticabili affreschi della provincia italiana degli anni Sessanta alle straordinarie figure femminili che – da grande «indagatore della femminilità» – ci ha regalato, dalla storia del bersagliere Angelo Ravagli, diventato amico di D. H. Lawrence e ispiratore di L’amante di Lady Chatterley, alla Pasqua rossa, rivolta allegorico-grottesca dei detenuti di San Vittore del 21 aprile ’46, dai tanti altri romanzi che ha dato alla luce negli ultimi anni alla poesia, mai trascurata.
Un’attività, quest’ultima, intensa e continua, iniziata nel ’61 pubblicando L’amicizia perduta sino alla recentissima raccolta Duetto per voce sola. Versi dell’immedesimazione (Einaudi, pp. 264, € 15,50). Scrittore, poeta ma anche sceneggiatore. Partendo dalla gavetta. Dall’ambito orrorifico – Seddok, l’erede di Satana di Anton Giulio Majano (’60) – alla collaborazione con autori come Goffredo Parise e Giuseppe Berto, fino «a essere usato dai grandi registi come Rossellini, Visconti, De Sica e Zampa».
E facendosi regista cinematografico lui stesso, spesso trasponendo propri romanzi perché «si può dare immagine a ciò di cui abbiamo avuto bisogno nel momento in cui è stato scritto». Da La Califfa – il romanzo che nel ’64 gli diede il successo internazionale e nel ’70 portò sul grande schermo (con Romy Schneider e Ugo Tognazzi) ottenendo il Nastro d’Argento come miglior regista esordiente – a Questa specie d’amore, il romanzo che forse meglio di altri rappresenta il conflitto, sempre presente, tra la nostalgia per luoghi e atmosfere del passato e l’immersione nell’attualità. Sfida con la modernità che raccoglie con la curiosità di un ragazzino, rigettando le critiche moraliste di chi vede un pericolo in internet e nei rapporti “virtuali”.
«Non sono contro le nuove tecnologie – ha dichiarato recentemente – sono un anarchico del mondo delle nuove tecnologie. Credo, anzi, che ci sia un legame tra le possibilità che offrono e la telepatia, la comunicazione a distanza, in cui ho sempre creduto. La comunicazione al di fuori della norma logica è sempre esistita, ma ora le nuove tecnologie lo consentono. Tutte le discussioni intorno alla virtualità o che riguardano internet sono peregrine. Questi nuovi linguaggi in realtà si avvicinano moltissimo alla scrittura della poesia, intesa come “messaggi segreti che manda il cosmo”. Ecco, nel mondo enorme di internet che io esploro, vedo dei versi, delle confessioni, delle ricerche di contatto che sono espresse da versi e mi illudo che ci sia un grosso rilancio della poesia. L’importante è dire ai giovani che la poesia non è soltanto versi ma è anche lo scrivere cose, mettere sulle pagine la parola, la poesia è la vostra forma di espressione moderna. Questa è la possibilità di internet che non c’è altrove, perché abbiamo un’editoria che è simulazione, e mistificazione». Altro che Liala, grazie Alberto, alla faccia di tanti giovani narratori nati vecchi.

mercoledì 3 ottobre 2007

A chi Lodoli? A noi! ( di Bruno Gravagnuolo su l'Unità)

Bruno Gravagnuolo su l'Unità di oggi, nella rubrica "Tocco & Ritocco", commenta (dopo averlo letto? sembrerebbe proprio di no) il mio articolo Marco Lodoli, il "céliniano" democratico, pubblicato dal Secolo d'Italia (rubrica "Appropriazioni indebite") mercoledì scorso e ripreso nei giorni successivi dal Corriere della Sera (Lodoli con Veltroni, An lo sfida: e i tuoi scritti céliniani?) e da La Stampa (Nico Orengo:«Anche Céline nel Pd».) Ringraziamo, malgrado la (poca) attenzione.
Articolo di Bruno Gravagnuolo
Da l'Unità di mercoledì 3 ottobre 2007

A chi Lodoli? A noi! Lettera aperta del Secolo d'Italia allo scrittore Marco Lodoli, mercoledì scorso, nel paginone culturale. A firma di Roberto Alfatti Appetiti, suo grande estimatore. Che deplora la presenza di Lodoli in una delle liste del Pd a Roma, e non se ne dà pace. Motivo: Lodoli non può essere di sinistra. E' un «céliniano», un «dostoevskijano», autore di storie non banali, dove il tragico irrompe nella quotidianeità. E poi è figlio di un fascista, volontario in Africa a in Spagna e «figlio» (letterario) di Annamaria Ortese e Cristina Campo, «scrittrici non certo di sinistra». Inoltre il «primo quotidiano» (sic) a scoprirlo fu il Secolo. Insomma, una «captatio benevolentiae» ridicola e anche un po' meschina (uso del padre a riprova). Che la dice lunga sull'idea che hanno al Secolo dell'arte: familistica, biologica. E ideologica. Per cui chi ama Céline non può stare che a destra e lì deve restare! Sennò trattasi di «appropriazioni indebite». Una curiosa concezione da rigattieri frustati. E che fa il paio con certe patetiche «appropriazioni» post fasciste di oggi: da «Bella ciao» a Moccia, a Battiato. Ben raccontate da Alessandro Giuli nel suo Passo delle oche (Einaudi). Morale, gli «sdoganati», nonchè eclettici, ora vorrebbero fare i doganieri e stabilire chi deve stare di qua o di là, su basi letterarie... o di famiglia. Egemonia culturale? No, risiko dei poveri!

domenica 30 settembre 2007

Nico Orengo (La Stampa): «Anche Céline nel Pd».

Nico Orengo non ha colto il senso (a giudicare dal commento) del mio articolo Marco Lodoli, il "céliniano" democratico, e deve aver letto - di sfuggita - quello del Corriere della Sera, Lodoli con Veltroni, An lo sfida: e i tuoi scritti céliniani? In ogni caso... grazie dell'attenzione.Marco Lodoli
Scrittore, Il Secolo d'Italia gli ha dedicato due pagine: «Figlio di fascista, democratico céliniano».

Anche Celine nel Pd
di NICO ORENGO

Povero Marco Lodoli. Non lo sgridavano i suoi colleghi di «Diario» per lo sue letture e lo sgrida oggi il «Secolo d’Italia» perchè legge Céline, Campo, Landolfi e l’Ortese, definiti scrittori di «destra», inammissibili per uno come lui che si presenta nelle liste del neonascente Pd. Non c’è nulla che faccia peggio alla letteratura che essere etichettata politicamente. «Viaggio al termine della notte» o «Il mare non bagna Napoli» sono letteratura di destra o di sinistra? Se n’è discusso alla nausea. Basta, è solo grande letteratura.

nico.orengo@lastampa.it

(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 29 settembre)

giovedì 27 settembre 2007

Lodoli con Veltroni, An lo sfida: e i tuoi scritti céliniani?

Alessandro Trocino sul Corriere della Sera di oggi raccoglie commenti sul mio articolo di ieri su Marco Lodoli, il "céliniano" democratico
Lodoli con Veltroni, An lo sfida: e i tuoi scritti céliniani?
Articolo di Alessandro Trocino
Dal Corriere della Sera di giovedì 27 settembre 2007
MILANO - Che ci fa nel Pd il figlio anagrafico di un fascista e letterario di Cristina Campo, Céline e Anna Maria Ortese? Le domande se le pone in un doppio paginone il Secolo d'Italia, ormai specializzato nello scovare intellettuali di destra astutamente mimetizzati a sinistra. Il « céliniano democratico» Marco Lodoli, dice il Secolo, nonostante il buon esempio paterno si appresta a diventare un «marziano nel Pd». L'autore del Diario di un millenno che fugge, non si scompone: «Al Secolo mi tengono d'occhio perchè mio padre, che ha 95 anni, è stato un fascistone. Però in parte è vero quel che scrivono. I miei riferimenti letterari non sono a sinistra: Landolfi, Ortese, Dostoevskij. Faccio una letteratura spiritualista. Ma sono anche attento alla periferia, alla scuola, alla società. Facevo parte del cristianesimo socialista. E della sinistra mi piacciono i valori della solidarietà». Sì e il Pd che c'entra? «Ho 50 anni, sono curioso. Anche se non so bene in che lista sono finito». Marcello Veneziani non approva: «Per carità, no n è grave, ma una letteratura che non vuole essere banale deve stare lontana dalla politica. Ma con questa versione ecumenica del veltronismo ci può stare anche uno scrittore non di sinistra. Del resto Veltroni ormai è il nostro Dostoevskij e gli scrittori sentono il richiamo: senza di lui si resta fuori dal giro». Pietrangelo Buttafuoco, giornalista e scrittore, maneggia con cura il concetto di destra: «In Italia da tempo c'è una cultura di autori reazionari, in senso nobile, intercettati per esempio da Adelphi. Ma la destra oggi una Campo non saprebbe come gestirla. Lei è tradizionalista, metterebbe in difficoltà tutta questa proposopea occidentalista. Oggi la destra è Oriana Fallaci non Cristina Campo».

mercoledì 26 settembre 2007

Marco Lodoli, il "céliniano" democratico

Dal Secolo d'Italia di mercoledì 26 settembre 2007
Rubrica settimanale "Appropriazioni (in)debite"

Si è candidato all’assemblea costituente del Partito democratico nelle file veltroniane. Eppure, Marco ha da sempre i suoi affezionati lettori in tanti irregolari, destrorsi e non-allineati, sin dal suo primo romanzo da esordiente trentenne, il «céliniano» – per sua confessione – Diario di un millennio che fugge (Theoria ’86). E invece sì, Il Corriere della Sera ha fatto il suo nome per quelle liste. Nessuna omonimia, è proprio lui: «Marco Lodoli, scrittore». E in quella compagnia... Passi per Lidia Ravera e i suoi "porci con le ali", volino pure dove meglio credono. Passi per il matematico Piergiorgio Odifreddi che – fedele al proprio cognome – non molto tempo fa ha sentenziato che la parola “cretino” deriva etimologicamente dalla parola “cristiano”. L’ultima fatica “letteraria” di quest’ultimo è (sic!) Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici). I libri di Lodoli, però, sono altra cosa: sentieri impervi e mai scontati, «percorsi danteschi dal fango alla luce» nei quali non c’è traccia di valori prêt-à-porter in saldi di fine stagione (ideologica), ma solo di uomini e donne dalle vite zoppicanti e sconclusionate che cercano disperatamente il significato del loro soggiorno terrestre. Sfuggono alla vita, si riparano in giornate tranquille alimentate da piaceri addomesticati e caute speranze, fino a quando accade qualcosa di inatteso e «tutto viene messo in forse da una verità più grande. E allora la cuccia si fa stretta, il pasto scialbo, la catena troppo corta: viene voglia di farsi lupi e amare».
La destinazione del suo viaggio letterario è – citando Jung: «Una vita che non si individua è una vita sprecata» – la riscoperta del nostro essere individui, la nostra unicità nel mondo, la dolorosa felicità della naturalezza. Consapevole – parole sue – che quanto più a fondo ti scava un’infelicità, tanta più felicità potrai contenere. Nelle sue pagine, sospese tra sogno e realtà, lirismo e ironia, luoghi fantastici e marciapiedi romani, vicine alla fiaba almeno quanto distanti dalla denuncia sociale – «dove le parole creano piuttosto che riferire» – non c’è traccia di neorealismo ruffiano e di materialismo neo-illuminista e neo- marxista. Lui è figlio – letterariamente parlando – di Anna Maria Ortese e Cristina Campo (foto a lato), scrittrici solitarie e irregolari (e non certo di sinistra). Come loro, è alla ricerca della voce più segreta delle cose, delle presenze invisibili, dei pensieri inespressi. Di Dostoevskij e Céline, spiriti visionari. Intendiamoci, non che Marco Lodoli sia un allineato. Si è sempre rifiutato di prestare la sua letteratura al «dibattito sui problemi della società». E quando la critica militante, ferma «all’equazione tra libro e mondo da rappresentare», glielo ha rimproverato, opportunamente ha obiettato che «fino a ieri l’altro, in tutto il Novecento, l’arte è stata un’altra cosa: la creazione di mondi in cui accade un pensiero».
Per questo, dalle colonne del nostro Secolo d’Italia – primo giornale a salutare il suo debutto con una appassionata recensione in anni ormai lontani – gli rivolgiamo un appello: ci ripensi! Sì, primo quotidiano a occuparsi di Marco Lodoli. Grazie all’affetto e alla stima del suo primo lettore, suo padre, l’ingegner Renzo, classe di ferro 1913, combattente in Africa e Spagna, «innamorato della guerra ancor prima che del fascismo». Cui rimase fedele nella Repubblica Sociale e anche dopo, non facendosi mancare un anno di prigione per aver incitato – a guerra finita – i giovani a combattere. Renzo Lodoli (nella foto a destra) nel ’46 è stato tra i fondatori del Msi, salvo poi dedicarsi all’ingegneria e alla scrittura di racconti «dalla parte sbagliata», come titola una sua raccolta pubblicata nel dopoguerra. Senza nessun pentimento. «Perché io non ho nulla di cui vergognarmi» ha recentemente ribadito in una lunga intervista a Repubblica, quotidiano di cui il figlio è collaboratore da diversi anni (la sua rubrica settimanale nell’edizione romana, “Isole”, è diventata un libro, il bellissimo Isole, guida vagabonda di Roma, Einaudi 2005). Pur da posizioni evidentemente distanti – Marco si colloca a sinistra, anche se in una sinistra immaginaria – di quella generazione Marco apprezza la capacità di sacrificarsi, la stessa che, lamenta, manca ai suoi studenti, «insidiati dal demone della Facilità, una divinità tanto ammaliante quanto crudele, un uccelletto che canta soave ma che ha un becco così sottile e feroce da mangiarci il cervello».
Dimenticavamo di dirlo: Marco Lodoli, prima che scrittore è un professore, un educatore che non si rassegna ad assistere al «genocidio delle intelligenze degli adolescenti» e ancora si indigna nei confronti di chi concepisce la cultura come supponente esercizio di “bravura” utile ad occupare narcisisticamente una vetrina. Ci riconosciamo nell’invito che ha lanciato: «Abbandonare ogni superbia intellettuale, ogni facile schema e ogni rassicurante abitudine per arrivare a quella finestra che affaccia sul significato ultimo delle cose». L’intelligenza – osserva – separa, giudica, contrappone: «La letteratura abbraccia, perdona e coglie l’unità segreta che sta dietro l’apparente frantumazione del reale». E certo non è facile trasmettere ai giovani l’etica del sacrifico quando «il mondo intero afferma il contrario e in televisione e sui manifesti pubblicitari tutti ridono felici e abbronzati e nessuno è mai sudato». Del resto, la modernità ci aveva promesso «una società nella quale non avremmo più sofferto, il sogno di una rosa senza spine». Senza badare agli effetti collaterali: «Ogni nobile illusione viene immediatamente scartata perché prevede una fatica che non si desidera più compiere». I ragazzi, specialmente quelli delle periferie (Lodoli insegna in un istituto professionale), non sono più disposti a impegnarsi, si ritirano da ogni confronto, anche da quello più importante: con la loro vita e i loro sogni. Rinunciano a «essere gli artigiani della propria esistenza». Si rassegnano a un futuro da spettatori e consumatori. «Un tempo l’ammirazione per le persone famose spingeva all’emulazione, grazie ai grandi si cercava di essere meno piccoli». Adesso si invidiano i vip «solo perché si sono sollevati dal fango». Poco importa se hanno realizzato un film o commesso una rapina, quello che conta è uscire dal cono d’ombra, avere i soldi perché con i soldi puoi prendere le distanze dallo squallore della vita che ti circonda, erigere un muro di cinta, piantare una parabolica per pay tv, evitare lavori faticosi e degradanti, tutto pur di non ripetere la vita dei loro nonni e dei loro genitori.
«I nostri padri hanno preso a schiaffi la sofferenza – ricorda Lodoli – noi invece restiamo zitti e buoni, grassi e pigri, scontenti senza dolore, annoiati in tanta fortuna». C’è una certa nostalgia in Lodoli nel ricordare quel mondo a misura d’uomo, «ultimi bagliori di una comunità reale, interclassista, pettegola ma disponibile». Il sentimento della nostalgia affiora spesso nella sua prosa, in quel sentirsi «frammenti di una vetrata forse bellissima infranta da una martellata. Nostalgia di quella vetrata, di un assoluto che spinge i miei personaggi a cercare l’unità delle cose». Questa è la sua scrittura: «cercare tramite le parole il cammino da fare, come ritrovare delle briciole o dei sassolini che mi potessero portare là dove qualcosa mi aspettava». Al primo romanzo – che non è, come recita il sottotitolo, il romanzo di una generazione senza qualità, perché quella in cui è cresciuto aveva come parola d’ordine la creatività – è seguito Snack Bar Budapest (Bompiani, ’87), suo unico noir, scritto a quattro mani con la compagna Silvia Bre, da cui Tinto Brass ha tratto ispirazione per un suo (brutto) film. Poi sono seguiti i racconti surreali e grotteschi del Grande raccordo (Bompiani ’89) e la triologia di romanzi brevi Fannulloni, Crampi e Grande circo invalido (tutti pubblicati nei primi anni Novanta da Einaudi, che rimarrà la sua casa editrice), e successivamente raccolti in unico volume, I principianti. Principianti, marginali, anime nude e dolenti, creature smarrite e dal passo traballante in favole metropolitane dalle tinte picaresche. Lodoli le accompagna «fino alla sbarra della frontiera estrema, e poi laggiù, tremando d’irresponsabilità, quella sbarra ho provato ad alzarla». Già, perché «se la nostra storia di uomini termina quasi sempre contro una morte nemica, la letteratura può con la morte stabilire una confidenza, un’intimità irridente che riesce a cambiare anche il colore della vita». Ed è proprio sul crinale di questo confine incerto, in bilico tra deriva e speranza, che scrive le sette storie che compongono la raccolta di Cani e lupi (’95) e i romanzi Il vento (’96), I fiori (’99) e La notte (2001), altra trilogia (raccolta ne I pretendenti) di una Roma odierna ed eterna nella quale i “protagonisti” sono alle prese con «l’Inevitabile» sempre lì, pronto ad allungare le mani su ogni cosa. Non poteva mancare una raccolta di nove racconti sulla scuola, I professori e altri professori (2003), «un mondo che esce dai suoi confini di gesso» e di fronte al quale sia gli allievi che gli insegnanti sono principianti al cospetto dell’imprevedibilità della vita.
All’attività narrativa lo scrittore romano ha anche affiancato quella di critico cinematografico, o meglio di “spettatore esigente”, come s’intitolava la sua rubrica per il Diaro della settimana, la rivista diretta da Enrico Deaglio. E’ nata così una suggestiva quanto originale antologia composta dalle recensioni di 100 film, Fuori dal cinema. «Fuori dal cinema significa forse dentro alla vita, a quel grumo di pensieri ossessioni debolezze e speranze che ogni giorno e con ogni mezzo – comprese le immagini dei film e le parole dei libri – proviamo a depurare affinché un barlume di verità possa traversarlo d’improvviso».
La sua ultima opera, Bolle, diciannove racconti sul filo dell’illusione e della verità, è del 2006. «Brevi storie – come recita la quarta di copertina – che ci aprono al mondo dell’immaginazione, del sogno, delle speranze che sole possono aiutarci a vivere: bolle luminose tra i pungiglioni della vita». Non ci rimane che aspettare il prossimo libro e nel frattempo confidare che il 14 ottobre siano pochi i romani che scrivano il suo nome sulla scheda, così da non distrarti dalla letteratura, per continuare a porci, leggendoti, quelle domande invalicabili….

giovedì 8 marzo 2007

Anna Maria Ortese, un'irregolare per l'8 marzo

Nove anni dopo: un'altra idea dell'impegno femminile
Dal Secolo d'Italia di giovedì 8 marzo 2007

Giornata di lotta o festival del consumismo? Le celebrazioni della festa della donna cedono il passo al trionfo del marketing più invadente. Venditori ambulanti, mimose alla mano, si contendono potenziali clienti ad ogni angolo di strada, per il disappunto dei fiorai “stanziali”. Pasticceri e ristoratori già si leccano i baffi. Il rito – come tutti gli anni - sta per ripetersi. Fidanzati e mariti si mostrano indulgenti. Per chi avesse colpevolmente perso San Valentino, l’8 marzo può assumere carattere riparatore. Sulla nascita di questa festività sopravvivono ipotesi diverse. La più comune vuole che tutto ebbe inizio da un fatto di cronaca avvenuto nel 1908 negli Stati Uniti. Centoventinove operaie perirono - mentre protestavano per le precarie condizioni in cui erano costrette a lavorare - in un incendio (doloso?) provocato dal proprietario. Non si sarebbe fatto scrupolo di chiuderle nella fabbrica. Andò così? A leggere Wikipedia, forse no. Si tratterebbe, scrive l’enciclopedia virtuale, di «una leggenda adattata a fini propagandistici dai movimenti di sinistra di un fatto realmente accaduto ma con tempi e modalità diverse». Rimarremo con il dubbio. Di certo delle legittime rivendicazioni di un tempo non è rimasto molto. A parte qualche sonnacchioso convegno, l’orgia consumistica celebrerà se stessa. Chissà cosa ne penserebbe, al riguardo, una scrittrice schiva e silenziosa come Anna Maria Ortese, che in vita non fu certo celebrata ma, al contrario, osteggiata perché tutt’altro che tenera proprio con il femminismo militante e con i potentati culturali dell’epoca. Estranea alla retorica neorealista imperante nel secondo dopoguerra, si tenne accuratamente alla larga dal mondo autoreferenziale dei salotti letterari.
In una giornata come questa, ricordarla significa rendere onore ad una irregolare che non volle piegarsi a prestare servizio permanente effettivo al dogma marxista, né esercitarsi nella denuncia sociale politicamente unilaterale. Anna Maria Ortese ebbe infatti la sfrontatezza di dedicarsi ad una letteratura visionaria, simbolica e fantastica, tesa all’inseguimento della bellezza e dell’invisibile, dell’inespresso.
Tra l'altro, sabato 10 marzo saranno trascorsi nove anni dalla scomparsa di una autrice finalmente riconosciuta come una delle più grandi del Novecento. Un destino vagabondo, il suo, inaugurato dai viaggi della giovinezza a Roma, Venezia, Trieste, dove vive correggendo le bozze al Gazzettino. Ed è qui che partecipa ai Littoriali femminili del '39, nelle sezioni "Concorso per una composizione poetica" e "Composizione narrativa", a tema libero. Con quindici poesie, Anna Maria vince la prima gara ed è proclamata Littrici, nella sezione "narrativa" è seconda, con cinque novelle. Aveva già esordito negli anni Trenta su La fiera letteraria di Roma. E’ il direttore della rivista, lo scrittore Massimo Bontempelli, a proporre alla casa editrice Bompiani la pubblicazione della sua prima raccolta di racconti, Angelici dolori ('37). La stroncatura dei critici militanti è violenta, esagerata se si considera che si tratta di una giovane esordiente. Enrico Falqui parla di «ignoranza letteraria» e «rozzezza decadentissima». Le si contesta il «deteriore romanticismo» stridente con il rigoroso materialismo cui gli intellettuali politicamente corretti devono attenersi. Una faziosità dettata «dal disprezzo ideologico», ha riconosciuto Giancarlo Borri nel suo Invito alla lettura della Ortese (Mursia '98).
La città d’adozione della Ortese è Napoli, cui la scrittrice dedica uno spietato libro d’amore, nel quale descrive le condizioni di vita miserrime della “plebe” napoletana. Il mare non bagna Napoli ('53), la raccolta che le vale il Premio Viareggio, è un viaggio nelle viscere della città. E non solo. In un capitolo del volume, Il silenzio della ragione, stila un feroce ritratto dagli intellettuali progressisti, accusandoli di aver perso ogni «sacro furore» e «di essersi omologati ad una società conformista e utilitaristica, profondamente cambiati dall’ansia del successo». L’opera viene letta come «un libro contro il comunismo», teso a denigrare Napoli e la sua classe dirigente. La Ortese rimprovera, a quello che era pur sempre il proprio mondo culturale di origine, l’individualismo gretto e il disinteresse, la sostanziale connivenza con il sistema che a parole si diceva di voler cambiare. Tale posizione le costerà l’emarginazione, costringendola di fatto a lasciare Napoli per non mettervi più piede, neanche quando, poco prima della morte, il Comune - considerate le ristrettezze economiche della scrittrice - le assegnerà un appartamento nei Quartieri Spagnoli. Comprende presto che la sua «indignazione per la crudeltà del mondo, per le creature oppresse: vecchi, poveri, bambini, deboli che hanno bisogno di tutto e sono in balia degli altri» non avrebbe trovato alcuna libertà d’espressione nel PCI. Ne trova ulteriore conferma quando, di ritorno da un viaggio in Russia, prende atto con amarezza delle reazioni violente e intolleranti ai suoi reportage giornalistici. «Volevano che io non ragionassi con la mia testa, ma con la loro. Ero stata in Russia. Quando sono tornata ho scritto degli articoli raccontando quello che avevo visto. La sinistra milanese mi ha fatto il viso dell’armi. Io scrivevo in modo non ortodosso». Nell’86 l’Adelphi decide di ristampare le sue opere e di pubblicarne le inedite. A L’iguana seguono In sonno e in veglia, Il cardillo addolorato, Alonso e i visionari, Corpo celeste, Il porto di Toledo ed altri, sino alla recenti antologie di romanzi. Le vendite rivelano l’apprezzamento del pubblico, ma lei non rinuncia al suo stile di vita parco e quasi anonimo. E’ l’indignazione per la vicenda di Erich Priebke – nella quale scorge la metafora del perenne accanimento del vincitore sul nemico ridotto all’umiliazione – a farle vincere la naturale ritrosia e a scrivere una lettera al quotidiano Il Giornale, chiedendo pietà per il «lupo sconfitto». Ne nasce un’odiosa polemica. Tabucchi definisce «oltraggioso e deplorevole» l’intervento della scrittrice, più di qualcuno si scaglia contro «l’intenerita coetanea del nazista». Lei non si scompone e reagisce, scrivendo un pezzo significativamente intitolato Questa Italia che mi è straniera: «La terra sta diventando una fossa atroce per i deboli e quell’uomo è vecchio e solo e abbiamo torto ad identificare questa idea con il vecchio nazismo. No, il nazismo è oggi un altro ed è universale e, in qualche modo, perché universale, invisibile». Parole inaccettabili per chi ha costruito la propria fortuna sull’antifascismo militante e non vuole rinunciare ad una comoda rendita di posizione.

sabato 9 dicembre 2006

Anna Maria Ortese e il lupo solitario

Dal mensile Area, ottobre 2001
Sono passati poco più di tre anni dalla morte di Anna Maria Ortese, avvenuta il 10 marzo del 1998, oggi finalmente riconosciuta come una delle più grandi scrittrici del Novecento.
Spirito anticonformista per eccellenza, donna riservata e sincera, indisponibile ad ogni compromesso, aliena ad ogni frequentazione opportunistica nel mondo autoreferenziale dei salotti, incurante del disprezzo e dell’ostilità con cui la quasi totalità del mondo culturale progressista l’ha sistematicamente osteggiata, ha scritto alcune delle pagine più emozionanti degli ultimi decenni.
Le sue sono storie realistiche e surreali al tempo stesso, dense di sogni, poesia, fiaba, amore e dolore, messaggeri celesti, umanità dolente, creature incomprese, escluse e respinte, pianto e desiderio di trascendenza.
Senza cedere nulla alle mode letterarie del secondo dopoguerra e alla logica che voleva gli scrittori in servizio permanente effettivo del dogma marxista, decise di non rinunciare mai alla sua idea di letteratura alta e fantastica.
«La verità è che io do cose che non sono richieste», si scherniva. Animata dalla convinzione metaletteraria che «si vive circondati dall’invisibile», ha lasciato un pulsante patrimonio di opere straordinarie, piene della sua scrittura visionaria. I suoi libri continuano incessantemente a tornare in libreria, per la gioia di un sempre crescente numero di lettori.
L’ultima pubblicazione è Il Monaciello di Napoli (Adelphi 2001), raccolta composta da due racconti già apparsi nei primi anni Quaranta sul mensile Ateneo Veneto e su Nove Maggio, quindicinale del GUF di Napoli. E’ la stessa Ortese a descriverli come «tentativi, dapprima felici, poi via via nevrotici e travagliati, di rendere il primo impatto con il mondo (estasi, meraviglia) e poi lo sconforto vedendo questo mondo sempre più mutarsi in un deserto, dove nessuna cosa sembrava avere senso, destinazione: un mondo di mostri e fantasmi».
La sua scrittura si nutre in un mondo trascendentale, animato dalla presenza delle anime, dei ricordi, di piccole nostalgie, di affetti smarriti, di quanto di più caro c’è nella nostra vita. «Credo in tutto ciò che non vedo […] Ma forse le cose amate sono soltanto invisibili: non perse. Questa sensazione, che tutto l’infinito, passato di tutti, si accumuli in qualche luogo e […] lo ripossederemo un giorno realmente, concretamente, credo sia comune a tutti. Conforta e non è affatto vergognoso per l’intelligenza».
La sua vita non è certo stata facile. Nasce a Roma il 14 giugno 1914, penultima di sei fratelli in una famiglia «miserrima […] di nessun rilievo sociale», sempre «sopraffatta dal problema del pane quotidiano, della sopravvivenza, sola, senza lavoro, abbarbicata al niente». E’ costretta ad abbandonare presto gli studi, trovando in una particolare predisposizione alla scrittura il proprio riscatto spirituale.
Le sue prime poesie sono del 1933 e vengono pubblicate su La fiera letteraria di Roma. L’anno successivo, sempre su La fiera è la volta del primo racconto, Pellerossa, nel quale già si evince quella che sarà una delle sue preoccupazioni costanti: il timore dei danni che la civilizzazione dilagante – il cosiddetto progresso – produce sullo spazio «naturale» e l’originaria «innocenza» degli uomini. E’ proprio il direttore della rivista, lo scrittore Massimo Bontempelli, a proporre alla casa editrice Bompiani la pubblicazione della raccolta Angelici dolori (1937) che include tredici novelle.
La stroncatura che ne fanno i critici militanti è violenta e spropositata, tanto più se si considera che si tratta di una esordiente, il cui talento appare subito evidente. Enrico Falqui parla di «ignoranza letteraria» e «rozzezza decadentissima», ma quello che si vuole colpire, come ben ricostruisce Monica Farnetti nel suo Anna Maria Ortese (Bruno Mondatori 1998) è l’impianto culturale cui la Ortese sembra ispirarsi; il crepuscolarismo, il D’Annunzio «paradisiaco», un «anglismo» ultradecadente e la «tradizione mistica», il «realismo magico» e «l’allegorismo vittorughiano».
A motivare tale critica faziosa, che mette all’indice il suo «deteriore romanticismo» in un’epoca nella quale era d’obbligo per gli intellettuali attenersi ad un rigoroso materialismo, è un vero e proprio «odio e disprezzo ideologico», come riconosce Giancarlo Borri nel suo Invito alla lettura della Ortese (Mursia 1998).
La sua è una vita randagia, solitaria, nella quale non c’è spazio per una vita coniugale: «il matrimonio non lo concepivo proprio […] perché comporta una quantità di tagli alla propria vita, al proprio tempo, alla propria immaginazione». E’ costretta continuamente a spostarsi, vive in diverse città, è una «senza patria». La patria, infatti, è per lei quella degli affetti smarriti: «mia sorella è stata la mia patria: non ne ho avuto un’altra, di patria, io». Si mantiene arrangiando mestieri occasionali, estemporanei, come quello di correttrice di bozze al Gazzettino di Venezia, senza mai mettere radici in nessun luogo.
La città che ama di più è Napoli, e alla città partenopea è dedicata una delle sue opere più importanti Il mare non bagna Napoli (1953), la raccolta dei racconti che la impone all’attenzione del pubblico e le vale il Premio Viareggio. In un capitolo del libro, Il silenzio della ragione, prende le distanze dagli intellettuali progressisti partenopei, rei di aver perso ogni «sacro furore» e di essersi omologati ad una società «conformista e utilitaristica e profondamente cambiati dall’ansia del successo».
L’opera viene letta come «un libro contro il comunismo» e le costa una repentina emarginazione. Decide di andarsene e di non tornare più a Napoli, neanche quando, poco prima della morte, il Comune le assegna un appartamento nei Quartieri Spagnoli.
Comprende presto che la sua «indignazione per la crudeltà del mondo, per le creature oppresse: i vecchi, i poveri, i bambini, i più deboli che hanno bisogno di tutto e sono in balia degli altri» non avrebbe trovato alcuna libertà d’espressione nel PCI.
Ne ha la certezza quando, con amarezza, deve raccogliere le feroci critiche della sinistra ai resoconti giornalistici che scrive di ritorno da un viaggio in Russia. «Volevano che io non ragionassi con la mia testa, ma con la loro. Ero stata in Russia. Quando sono tornata ho scritto degli articoli raccontando quello che avevo visto. Il mondo della sinistra milanese mi ha fatto il viso dell’armi […] Io scrivevo in modo non ortodosso. Da lì è nato il dissidio».
Continua a scrivere, pur tra mille difficoltà economiche, ed ottiene dei premi autorevoli. Nel 1967 con Poveri e belli vince il Premio Strega e nel 1986, con Il mormorio di Parigi, il Premio Fiuggi per la cultura. Finalmente nel 1986 le viene assegnato, grazie alla Legge n. 440 del 1985 (la cosiddetta Legge Baccelli, che prevede un fondo destinato a quei cittadini che abbiano dato lustro alla patria e che versino in stato di particolare necessità) un modesto vitalizio, che le consente di mettere fine ad una vita da nomade della letteratura e di dedicarsi alla scrittura nell’abitazione di Rapallo.
Il 1986 è l’anno fortunato per la Ortese. Adelphi, la casa editrice diretta da Roberto Calasso, decide di ristampare le sue opere e di pubblicarne delle nuove.
L’incontro riempie di entusiasmo la scrittrice: «Sì, ho incontrato l’Adelphi: hanno creduto nei miei libri, li hanno pubblicati con riguardo, è stato un miracolo». Lo stesso anno viene pubblicata la ristampa de L’iguana, l’anno successivo In sonno e in veglia, Il cardillo addolorato (1993), Alonso e i visionari (1996), Corpo celeste (1997) e Il porto di Toledo, mentre poco dopo sopraggiunge la morte della scrittrice.
E’ in particolare Il cardillo addolorato a farle raggiungere la meritata e sofferta affermazione definitivia, con uno strepitoso risultato delle vendite, ottantamila nel solo 1993, che diventano oltre centomila dopo pochi anni.
E’ un trionfo anche all’estero. In Francia è L’iguana, pubblicato da Gallimard, a far innamorare i francesi. Lei, sempre schiva, accetta di farsi intervistare da Le Monde, ma quando l’intervistatrice arriva nella sua piccola casa di Rapallo lei esordisce dicendole: «Non ho più niente da dire».
Solo negli ultimi anni è il suo indomito anticonformismo a prevalere sul suo carattere schivo. La indigna il caso di Erich Priebke, l’ex ufficiale delle S.S. coinvolto nell’eccidio delle Fosse Ardeatine, in quel periodo in attesa di giudizio in carcere. Nella vicenda legge la metafora del perenne accanimento del vincitore sul nemico ridotto all’inerzia e all’umiliazione.
Prende carta e penna e scrive a Il Giornale. Il 12 gennaio 1997 la Ortese firma sul quotidiano milanese una richiesta di pietà per il «lupo sconfitto». Sottolinea la «dignità con cui accetta […] tutto il rituale solenne della giustizia insieme con i ricordi di quello che ormai era il suo Paese, e della moglie lontana». Si domanda: «Come dunque ci si aspettava che morisse, per il nemico?».
Ne nasce un’odiosa polemica, nella quale si sbizzarriscono i professorini della sinistra. Tabucchi ritiene «oltraggioso e deplorevole» l’intervento della Ortese, altri se la prendono con «l’intenerita coetanea del nazista».
Lei non si scompone e reagisce, scrivendo un pezzo significativamente intitolato Quest’Italia che mi è straniera: «La terra sta diventando una fossa atroce per i deboli […] e quell’uomo è vecchio e solo […] e abbiamo torto ad identificare questa idea […] con il vecchio nazismo. No, il nazismo è oggi un altro ed è universale e, in qualche modo, perché universale, invisibile».
Quel nazismo è oggi rappresentato dalla dittatura del conformismo, di chi non accetta che altri possano avere opinioni diverse dalle proprie e che, invece di argomentare, preferisce l'insulto.